Le decisioni di settembre della Corte Edu, qui selezionate, riguardano gli obblighi procedurali degli Stati nei casi di violenza domestica; il rispetto della presunzione di innocenza dei coimputati giudicati in procedimenti separati; l’accertamento della derivazione illecita dei beni nell’ambito della confisca senza condanna e da sproporzione.
In Scuderoni c. Italia, la Corte Edu ritiene, ancora una volta, le autorità italiane responsabili per non essere intervenute in maniera tempestiva e adeguata sulla situazione di violenza domestica ai danni della ricorrente, da parte dell’ex partner, in particolare, per non aver effettuato alcuna valutazione dei rischi implicanti l’adozione di misure di protezione.
Nella pronuncia Iosif c. Cipro, i giudici convenzionali stilano un folto elenco di fattori da tenere in considerazione quando i concorrenti nel reato vengono processati separatamente, in modo da scongiurare che i riferimenti al coimputato assente ne compromettano reputazione e presunzione di innocenza nel processo a suo carico. Con riguardo al fattore più importante, ossia la formulazione della sentenza che fa riferimento al coimputato assente, la Corte sembra suggerire la necessità di utilizzarne il nome il meno possibile, ovvero di ricorrere alle iniziali, già nell’imputazione. In relazione ad altri fattori, sembrano emergere rischi di interferenza con la pienezza del sindacato del giudice penale.
In Isaia e Altri c. Italia, la Corte di Strasburgo torna sulla confisca del codice antimafia: senza rimettere in discussione la natura ripristinatoria, piuttosto che punitiva (come stabilito, da ultimo, in Garofalo e Altri c. Italia, ove sono stati vagliati gli effetti delle riforme intervenute tra il 2008 e il 2009 e della giurisprudenza consacrata dalle Sezioni Unite Spinelli), nel caso di specie, ne ricava diverse conseguenze in termini di obbligo di motivazione, requisiti temporali e onere della prova. Alla sentenza sono allegate un’opinione concordante e una dissenziente, entrambe critiche rispetto all’impatto dei principi formulati dalla maggioranza sul sistema di confische senza condanna.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 23 settembre 2025, n. 6045/2024, Scuderoni c. Italia
Oggetto: artt. 3 e 8 della Convenzione (divieto di tortura e diritto al rispetto della vita privata e familiare) – inadempimento da parte delle autorità dell’obbligo positivo di proteggere la ricorrente dalle condotte di violenza domestica perpetrata dall’ex coniuge – quadro legislativo interno adeguato – mancanza della specifica diligenza richiesta alle autorità rispetto a situazioni di violenza domestica – mancanza di un approccio autonomo e proattivo e di una valutazione completa del rischio reale e immediato a cui era esposta la ricorrente – inadempimento da parte delle autorità del fornire una risposta proporzionata alla gravità dei fatti segnalati dalla ricorrente.
Nell’agosto 2017, la ricorrente si separava dal coniuge, G.C., continuando tuttavia per nove mesi a convivere con quest’ultimo e il figlio nato nel 2012 nella stessa abitazione.
Nel febbraio 2018, la donna adiva l’autorità giudiziaria, lamentando il comportamento vessatorio dell’ex marito, perpetrato anche in presenza del figlio minore, e chiedendo, in sede civile, l’assegnazione della casa familiare, la valutazione delle capacità genitoriali dell’uomo e la fissazione della residenza del minore presso di sé. A seguito della calendarizzazione dell’udienza a distanza di nove mesi, la ricorrente chiedeva la fissazione di un’udienza in tempi brevi e, successivamente, l’adozione di una misura di protezione ai sensi dell’art. 342 bis c.c., allegando alle suddette istanze referti medici, nonché copie delle denunce che aveva nel frattempo presentato alle autorità. Le richieste venivano rigettate dal tribunale per contraddittorietà delle versioni delle parti, attesoché gli episodi erano avvenuti alla sola presenza di G.C.
Nell’agosto 2018, l’assistente sociale segnalava al pubblico ministero la necessità di misure urgenti a tutela del minore, esposto al conflitto tra i genitori. All’udienza del 20 agosto, il tribunale confermava l’affidamento condiviso, fissava la residenza del bambino presso la madre, le assegnava l’uso esclusivo della casa familiare, regolando provvisoriamente i diritti di visita del padre e disponendo una perizia sulle parti e sul minore.
Parallelamente, la ricorrente sporgeva varie denunce contro G.C., accusandolo di minacce, aggressioni, controllo coercitivo e privazione del sonno; nonché di un’aggressione fisica avvenuta nel mese di aprile con referto iniziale di 5 giorni di inabilità totale al lavoro, a seguito della quale lasciava la casa familiare con il figlio. Testimoni e referti medici confermavano le ripetute violenze subite dalla donna e il conseguente stato di ansia che tale condizione le aveva ingenerato.
Nel luglio 2018 il pubblico ministero concludeva le indagini preliminari e, nel febbraio 2019, disponeva il rinvio a giudizio di G.C. per i reati di maltrattamenti in famiglia, molestie, aggressione e tentata estorsione aggravata.
Con sentenza del 22 giugno 2023, il tribunale assolveva G.C. da tutte le imputazioni. Con specifico riguardo al reato di maltrattamenti, il giudice riteneva che le condotte dell’uomo si collocassero nel contesto della conflittualità e del deterioramento della relazione coniugale, non configurandosi come atti sistematici di violenza tali da integrare il delitto per cui si procedeva.
Successivamente, la ricorrente presentava richiesta motivata di appello al pubblico ministero ai sensi dell’art. 572 c.p.p., il quale, pur evidenziando la natura riprovevole dei comportamenti di G.C., respingeva l’istanza non ritenendo integrati i reati di maltrattamenti e molestie. La donna rinunciava infine a impugnare in sede civile e si rivolgeva alla Corte di Strasburgo.
Dinanzi alla giurisdizione europea, la ricorrente lamentava il ritardo nell’esame delle proprie doglianze tanto in sede civile quanto in sede penale, nonché il rigetto, da parte del tribunale civile, della richiesta di ordinanza di protezione contro gli abusi familiari e la mancanza di effettività delle indagini penali. Lamentava, in particolare, che le autorità giurisdizionali non avessero valutato in modo adeguato né il rischio di violenze fisiche e psicologiche a cui era esposta né la necessità di predisporre misure di protezione.
Inoltre, la ricorrente si doleva, da un lato, dell’assoluzione dell’ ex marito, pronunciata – a suo avviso – perché il tribunale avrebbe considerato gli atti di violenza domestica in questione come semplici litigi familiari, a causa di persistenti stereotipi sessisti, e, dall’altro, della decisione del pubblico ministero di non proporre appello.
La Corte Edu conferma innanzitutto che le violazioni contestate dalla ricorrente rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 3 – poiché i fatti allegati raggiungevano la soglia di gravità prevista dalla disposizione – e dell’art. 8 della Convenzione.
Richiamando la giurisprudenza più recente (in particolare Kurt c. Austria, n. 62903/15), la Corte sottolinea la portata e il contenuto dell’obbligo positivo dello Stato di prevenire il rischio di violenza ricorrente in contesti di violenza domestica. In particolare: a) le autorità devono reagire immediatamente alle denunce di violenza domestica; b) una volta ricevuta la segnalazione, devono verificare se sussista un rischio reale e immediato per la vita delle vittime identificate, effettuando, a tal fine, una valutazione del rischio autonoma, proattiva e completa, che tenga in considerazione il quadro peculiare che caratterizza i casi di violenza domestica; c) qualora tale valutazione evidenzi l’esistenza di un rischio reale e immediato per la vita, le autorità sono obbligate ad adottare misure operative preventive adeguate e proporzionate al livello di rischio individuato. La Corte ricorda, inoltre, che gli artt. 2, 3 e 8 della Convenzione comportano per gli Stati anche un obbligo positivo procedurale: le autorità devono condurre indagini efficaci, rapide e approfondite su tutti gli atti di violenza domestica.
Tanto chiarito, e ribadito nuovamente che il quadro normativo italiano all’epoca dei fatti offriva alle autorità competenti una gamma sufficiente di strumenti adeguati e proporzionati per intervenire efficacemente nei casi di violenza domestica, i giudici di Strasburgo procedono a esaminare la condotta delle autorità, rilevando quanto segue.
α) (Mancanza di) reattività delle autorità alle segnalazioni di violenza domestica.
Nonostante la gravità dei fatti denunciati, nell’ambito del procedimento civile l’autorità giudiziaria aveva fissato l’udienza relativa alla custodia del minore e all’assegnazione della casa familiare a distanza di nove mesi dalla presentazione del ricorso e aveva altresì rigettato l’ordinanza di protezione contri gli abusi familiari richiesta ai sensi dell’art. 342 bis c.c., senza condurre alcuna valutazione del rischio.
Sul versante dell’indagine penale, la sentenza evidenzia che erano trascorsi due mesi prima che la denuncia della ricorrente fosse registrata.
Secondo i giudici di Strasburgo, le autorità non hanno, più in generale, considerato i fatti nella prospettiva della violenza domestica e, alla luce di tutti gli elementi disponibili, non hanno dimostrato la diligenza e la prontezza di intervento richieste da un contesto di tale gravità.
β) (Insufficiente) qualità della valutazione del rischio.
In secondo luogo, la Corte Edu osserva che le autorità non hanno adottato un approccio autonomo e proattivo né effettuato una valutazione completa del rischio, tenendo conto del contesto specifico della violenza domestica. Invero, non è stata mai avviata una procedura di valutazione del rischio per la situazione della ricorrente, e il pubblico ministero non ha riconosciuto la natura e la dinamica della violenza, nonostante fossero evidenti gli episodi di aggressione e molestie.
Da questo punto di vista, richiamando l’ultimo rapporto GREVIO sull’Italia, la Corte evidenzia come le violenze contro donne e bambini spesso aumentino a seguito della separazione e che i diritti di visita possano essere frequentemente strumentalizzati per esercitare forme di controllo sulla ex partner. Nel caso concreto, le autorità non hanno tenuto adeguatamente conto di questo elemento, pur evidenziato ripetutamente dalla ricorrente.
γ) Le autorità erano in grado di identificare il rischio reale e immediato di violenza a cui era esposta la ricorrente.
Alla luce degli elementi sopra esposti, la Corte rileva che le autorità nazionali erano o avrebbero dovuto essere consapevoli del rischio reale e immediato derivante dalle violenze di G.C. e avrebbero, pertanto, dovuto adottare misure adeguate a proteggere la ricorrente e il figlio.
δ) Mancata adozione di misure preventive adeguate.
Sulla scorta delle informazioni disponibili, le autorità non hanno quindi mostrato la diligenza richiesta: non hanno valutato adeguatamente il rischio nel contesto della violenza domestica, né, di conseguenza, adottato misure preventive efficaci, intervenendo solo tardivamente.
La Corte conclude che vi è stata una violazione dell’obbligo positivo degli articoli 3 e 8 della Convenzione nel proteggere la ricorrente dalle violenze di G.C.
ε) (Inadempimento dell’)obbligo di condurre un’indagine effettiva.
Sotto questo aspetto, la Corte Edu sottolinea in primo luogo che il procedimento penale è stato avviato con ritardo. La denuncia è stata infatti registrata dopo due mesi, il rinvio a giudizio è avvenuto dopo un anno e il dibattimento è iniziato dopo più di due anni, con l’esito assolutorio giunto quattro anni dopo.
La Corte osserva, poi, che le autorità non hanno tenuto conto della vulnerabilità della vittima, né valutato rapidamente il rischio, compromettendo l’efficacia della protezione. Poi, ancora, che il tribunale ha sottovalutato le condotte di G.C., consistenti in molestie, aggressioni, controlli telefonici, registrazioni video e privazioni di sonno molestie e aggressioni, interpretandole come semplici conflitti di coppia, e ha ingiustificatamente messo in dubbio la credibilità della ricorrente sulle lesioni, nonostante l’allegazione di idonea certificazione medica.
In definitiva, la Corte rileva che, attraverso tali condotte, le autorità italiane non assicurano un’efficace deterrenza contro la violenza domestica, trascurando la diligenza richiesta e le specificità riconosciute dalla Convenzione di Istanbul.
In questa prospettiva, i giudici di Strasburgo condividono le preoccupazioni evidenziate dal GREVIO e dal Comitato ONU per l’eliminazione della discriminazione contro le donne riguardo alle criticità riscontrate in Italia. Tra queste segnala, da un lato, l’orientamento giurisprudenziale che, richiedendo l’“abitualità” per qualificare i maltrattamenti in famiglia, esclude sistematicamente tale carattere nel caso di violenze concentrate in breve tempo, avvenute alla fine di una relazione, senza precedenti, attribuite a un “momento d’ira” o in presenza di resistenza della vittima. Dall’altro, la persistenza di stereotipi dannosi: violenza ricondotta a “conflitti” tra le parti, rappresentazioni stereotipate delle relazioni intime, presunzione che la vittima voglia vendetta o risarcimento.
Tutti elementi, questi, che si riscontrano nel caso in esame, mostrando come le autorità italiane, in particolare quelle giurisdizionali, non abbiano considerato la complessa dinamica della violenza domestica e non abbiano assolto in misura sufficiente al proprio obbligo procedurale di garantire che le violenze da lei subite fossero trattate in modo appropriato.
La Corte conclude quindi all’unanimità che, nel caso di specie, vi è stata una violazione degli obblighi positivi incombenti sullo Stato convenuto ai sensi degli artt. 3 e 8 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 25 settembre 2025, n. 11500/23, Iosif c. Cipro
Oggetto: art. 6 § 2 della Convenzione (equo processo – aspetto penale – presunzione di innocenza) – ricorrente processato separatamente dai coimputati – presenza di valutazioni riguardanti il ricorrente nelle sentenze a carico dei coimputati, potenzialmente lesive della presunzione di innocenza del primo.
Nel 2018, due persone a bordo di uno scooter aprivano il fuoco contro la vettura di un uomo d’affari, rimasto però illeso.
La Procura di Nicosia indagava e perseguiva i due aggressori e, solo successivamente, il ricorrente, ritenuto il mandante del tentato omicidio: quest’ultimo, infatti, viveva nei territori liberi del paese e fu arrestato solo dopo che ebbe attraversato i confini coi territori occupati.
Nelle sentenze riguardanti i due aggressori, infine condannati, il ricorrente veniva menzionato numerose volte e, in siffatti riferimenti, emergeva il suo coinvolgimento nei fatti sotto accusa.
Il ricorrente, sia nel procedimento a suo carico che in quello a carico dei due coimputati, lamentava la violazione della presunzione di innocenza.
La doglianza veniva però ritenuta non ammissibile nel procedimento di cui non era parte e infondata nel procedimento a suo carico. In quest’ultimo, i giudici rilevavano che i suddetti riferimenti erano inevitabili per la condanna dei coimputati, che comunque non vi era stata una formale dichiarazione di colpevolezza del ricorrente e che, in ogni caso, lo avrebbero giudicato secondo imparzialità e neutralità.
Il ricorrente impugnava tale decisione dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, alla luce della presunzione di innocenza di cui all’art. 6 § 2 della Convenzione.
In seguito, il governo convenuto ha reso noto il ritiro dell’accusa di tentato omicidio nel procedimento a carico del ricorrente.
Sotto il profilo dell’ammissibilità del ricorso, stante il ritiro delle accuse a carico del ricorrente, la Corte precisa che, anche se assolto, un imputato può comunque essere considerato vittima di una violazione della presunzione di innocenza (Ayetullah Ay c. Turchia, nn. 29084/07 e 1191/08, § 112, 27 ottobre 2020).
Passando a valutare il merito della causa, la Corte ribadisce che, quando un imputato assente è richiamato in una sentenza riguardante suoi coimputati, tali riferimenti possono avere un impatto negativo sul suo processo e violare l’art. 6 § 2 (Karaman c. Germania, n. 17103/10, §§ 43-44, 27 febbraio 2014).
Per verificare la violazione del parametro convenzionale, occorrerà considerare i seguenti fattori:
(a) le ragioni per le quali i coimputati sono stati processati separatamente (Bauras c. Lituania, n. 56795/13, § 54, 31 ottobre 2017);
(b) la concreta possibilità di trattare le posizioni di tutti i coimputati unitamente (Karaman, § 64);
(c) il tentativo dei giudici di menzionare il coimputato assente solo lo stretto necessario (Karaman, § 64);
(d) soprattutto, la formulazione specifica utilizzata (Krátký c. Slovacchia, n. 35025/20, § 17, 15 febbraio 2024);
(e) il grado di dettaglio della sentenza sul ruolo del coimputato assente (Mucha c. Slovacchia, n. 63703/19, § 60, 25 novembre 2021);
(f) la chiarezza con cui i giudici hanno escluso di pronunciarsi sulla colpevolezza del coimputato assente (Beltsios c. Grecia, n. 57333/14, § 19, 28 novembre 2023);
(g) la chiarezza con cui i giudici hanno indicato che i riferimenti non avrebbero pregiudicato la presunzione di innocenza del coimputato assente (Karaman, § 70);
(h) la misura in cui è stata rivelata l’identità del coimputato assente, ovvero l’utilizzo del nome completo, dell’alias o delle iniziali (Vulakh e altri c. Russia, n. 33468/03, § 36, 10 gennaio 2012);
(i) la lettura pubblica della sentenza (Krátký, § 18);
(j) la reazione dei media alla sentenza (Karaman, § 68);
(k) gi effetti giuridici della sentenza sul processo del coimputato assente (Navalnyy e Ofitserov c. Russia, nn. 46632/13 e 28671/14, §§ 105, 107, 23 febbraio 2016);
(l) i tentativi dei giudici di attenuare l’eventuale pregiudizio derivante dalla trattazione separata (Krátký, § 21);
(m) la rettifica o compensazione del pregiudizio da parte dei tribunali superiori (Mucha, § 67).
Nel caso di specie, la Corte riconosce che la decisione di avviare il processo dei coimputati prima dell’arresto del ricorrente fosse appropriata, poiché questi si trovava in territori al di fuori del controllo del governo e non era certo che potesse essere consegnato. È, inoltre, vero che la sentenza a carico dei due coimputati non dichiara il ricorrente formalmente colpevole, che la Corte d’Assise competente nel processo a carico di quest’ultimo non era vincolata dalla sentenza riguardante i coimputati e che la stessa si era impegnata a processare nuovamente il ricorrente.
Tuttavia, dopo aver ricevuto l’atto di accusa contro i coimputati, che conteneva numerosi riferimenti al ricorrente per nome, la Corte d’Assise avrebbe potuto ordinare alla Procura di modificarlo al fine di salvaguardare i diritti del ricorrente, riducendo al minimo la menzione del nome dell’imputato assente.
Si è quindi verificata una violazione dell’art. 6 § 2 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 25 settembre 2025, n. 36551/22, 36926/22 e 37907/22, Isaia e Altri c. Italia
Oggetto: art. 1 del Protocollo n. 1 (godimento pacifico dei propri beni) – confisca di prevenzione – lasso di tempo significativo tra la commissione dei “reati presupposto”, la proposta di prevenzione e la decisione di confisca – carenze motivazionali alla luce delle garanzie stabilite dalle norme e dalla giurisprudenza domestiche – focus sul requisito giurisprudenziale di correlazione temporale tra la manifestazione della pericolosità sociale e l’acquisto dei beni da confiscare – ricostruzione della catena di transazioni tra le ricchezze accumulate durante il periodo di manifestazione della pericolosità sociale e gli acquisti successivi a detto periodo.
Nel 2018, il primo ricorrente veniva sottoposto a un procedimento di prevenzione sulla scorta di indizi di pericolosità generica, ai sensi dell’art. 1 (a) e (b) d.lgs. n. 159/2011.
Al procedimento, partecipavano anche la moglie (seconda ricorrente) e il figlio (terzo ricorrente); quest’ultimo, come il padre, era indiziato della commissione di diversi reati.
In seguito all’adozione del sequestro di prevenzione, il Tribunale di Palermo, nel 2020, accertava la pericolosità del proposto ai sensi dell’art. 1 (b) nel periodo compreso tra il 1980 e il 2008 e ordinava la confisca dei beni sequestrati, intestati ai terzi ma ritenuti nella disponibilità effettiva del proposto.
La decisione veniva confermata in appello e, infine, dalla Corte di cassazione.
I ricorrenti adivano la Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando la violazione dell’art. 6 della Convenzione sotto diversi aspetti, quali l’accertamento della correlazione temporale tra manifestazione di pericolosità e acquisto dei beni ovvero la ripartizione dell’onere della prova nella procedura preventiva.
Nel definire la materia del contendere, la Corte ritiene le parti concordi circa l’esistenza di un’ingerenza nell’art. 1 Prot. 1 nonché circa l’esistenza e l’accessibilità della base legale; non invece circa la concreta osservanza delle garanzie poste, a tutela del proposto, dal diritto positivo e vivente. In particolare: (i) la natura e la gravità dei rati da cui far discendere la presunzione di illiceità dei beni acquistati durante il periodo di pericolosità sociale; (ii) la delimitazione temporale dei beni da confiscare in ragione dell’arco di pericolosità.
La verifica dell’osservanza dei requisiti di legge è questione incidente su due dei tre requisiti di legittimità dell’ingerenza nel diritto di proprietà, ossia sul requisito della base legale e sul requisito di proporzionalità.
Il secondo requisito, i.e. il perseguimento di un interesse pubblico nell’imposizione dell’ingerenza, risulta soddisfatto, considerato che la confisca senza condanna è finalizzata a evitare un arricchimento ingiustificato e a privare gli interessati di profitti illeciti (Garofalo e Altri c. Italia; Todorov e Altri c. Bulgaria).
Tornando alla proporzionalità, la Corte ricorda di aver trattato diversi casi di confische senza condanna aventi ad oggetto beni di presunta origine illecita, riassumendo il proprio approccio come segue (§ 71):
- i sistemi giuridici europeo e internazionale incoraggiano la confisca senza condanna di beni collegati a reati gravi quali corruzione e riciclaggio, o connessi alla droga;
- nei procedimenti non penali di confisca (compresi i procedimenti civili in rem), l’onere di provare l’origine lecita dei beni può essere legittimamente trasferito ai convenuti;
- la confisca può riguardare, non solo i proventi diretti del reato, ma anche altri beni, compresi redditi e benefici indiretti, ottenuti convertendo o trasformando i proventi diretti del reato o mescolandoli con altri beni, eventualmente leciti;
- la confisca può coinvolgere, oltre alle persone direttamente sospettate di reati, anche terzi proprietari che detengano i beni per conto del sospettato o in mancanza di buona fede.
I parametri per valutare la compatibilità delle procedure di confisca con le garanzie di cui all’art. 1 del Protocollo n. 1 sono stati indicati o precisati nei termini che seguono:
- la natura e la gravità dei reati che consentono di presumere la illiceità dei beni. Sul punto, la Corte ha sollevato perplessità quando la confisca di beni si fondi sulla commissione di reati diversi da quelli relativi a criminalità organizzata, traffico di droga, corruzione, riciclaggio, o comunque in grado di generare redditi (§72, con rinvio a Yordanov e Altri c. Bulgaria; Todorov e Altri c. Bulgaria);
- la necessità che la discrepanza tra redditi leciti e beni posseduti sia significativa (§ 72, con rinvio a Todorov e Altri c. Bulgaria);
- l’esistenza di un nesso tra beni e reati, anche solo a titolo presuntivo (§ 73-74);
- la rilevanza degli elementi che hanno giustificato, in Garofalo e Altri c. Italia, l’esclusione della natura penale della confisca di prevenzione italiana, ossia (i) l’applicazione con riguardo a beni di cui si presumeva l’origine illecita; (ii) la mancanza di prove circa l’origine lecita; (iii) la natura remunerativa dei reati presumibilmente commessi; (iv) la congruenza di reati e proventi presunti col valore dei beni da confiscare; (v) il nesso tra il periodo di commissione dei reati e l’acquisizione dei beni, nesso significativo della funzione della confisca di prevenzione, ossia prevenire l’arricchimento ingiustificato e collegato alla commissione di illeciti; (vi) l’applicazione al solo profitto, piuttosto che agli strumenti del reato (§ 75);
- lo standard di prova circa l’origine illecita, ritenuto sufficiente il bilanciamento delle probabilità, unitamente alla mancata allegazione di prove contrarie. Sul punto, però, è necessario limitare l’intervallo temporale cui si riferisce l’onere di provare il contrario (§ 76, con rinvio a Yordanov e Altri c. Bulgaria e Todorov e Altri c. Bulgaria);
- l’applicazione della confisca anche a familiari o parenti stretti dei sospettati, quali proprietari o gestori fittizi dei beni o in mancanza dello status di buona fede, purché i beni siano collegati ai reati, non essendo sufficiente la sola discrepanza tra entrate e uscite degli interessati (§§ 77-78, con rinvio a Yordanov e Altri c. Bulgaria e Todorov e Altri c. Bulgaria).
Applicando i principi sinora richiamati al caso di specie, la Corte Edu ricollega la violazione della Convenzione alle seguenti considerazioni, perlopiù riguardanti la nozione e le modalità di accertamento del “nesso” tra le attività criminali del proposto e i beni confiscati:
- il ricorrente ha commesso una serie di reati tra il 1980 e il 1998, un tentato furto nel 2008; la procedura di confisca era stata avviata nel 2018 e conclusa nel 2022. Premesso che l’avvio di una procedura di confisca molti anni dopo la commissione dei reati presupposto solleva, già di per sé, sospetti di incompatibilità con la Convenzione (Todorov e Altri c. Bulgaria e Dimitrovi c. Bulgaria), nel caso di specie, non vi sono ragioni evidenti che spieghino perché le autorità domestiche, per avviare la procedura patrimoniale, abbiano atteso dieci anni dalla commissione dell’ultimo reato da parte del proposto, trentotto dalla commissione del primo reato (§§ 80-81);
- in merito alla natura dei “reati presupposto”, i giudici non hanno spiegato in concreto l’attitudine a produrre proventi illeciti, in considerazione delle sentenze penali (tale valutazione sarebbe stata opportuna, posto che: diversi di tali reati sono stati addebitati in via tentata; in un caso, i giudici penali hanno applicato l’attenuante dell’avvenuto risarcimento; in diversi casi, i giudici penali hanno ordinato la confisca dei proventi) (§§ 82-83);
- l’origine illecita è stata ritenuta rispetto a beni acquistati tra il 2010 e il 2018, dunque molti anni dopo la fine del periodo di manifestazione della pericolosità sociale (§ 84), sulla base principalmente della mancanza di proporzione tra questi e i redditi leciti accertati in capo ai ricorrenti (§ 85). Sul punto, solo la giurisprudenza domestica successiva alla proposta di prevenzione e all’adozione del sequestro preventivo ha chiarito che la confisca di beni acquistati dopo la cessazione della pericolosità sociale è ammessa purché si precisino gli elementi di fatto che dimostrano la derivazione dal patrimonio accumulato durante la pericolosità (§ 86). È mancata una valutazione rigorosa della catena di investimenti che ha portato all’acquisto dei beni confiscati, in contrasto coi principi stabiliti, non solo a livello sovranazionale, ma dalla Corte di cassazione (§§ 87-88);
- la disponibilità dei beni dei terzi nelle mani del proposto non è stata motivata, basandosi unicamente sulla mancanza di redditi per l’acquisto (§ 89).
Alla decisione sono allegate l’opinione concordante del giudice Chablais e l’opinione dissenziente del giudice Sabato.
Il primo giudice condivide la necessità di imporre un obbligo di motivazione più rigoroso nei casi caratterizzati da intervalli temporali estremamente lunghi.
Tuttavia, fa discendere diversi rischi dall’argomentare della maggioranza, principalmente legati alla mancata valorizzazione del contesto civile o amministrativo della confisca, alla funzione di privare di beni illeciti o ingiustificati un soggetto ritenuto pericoloso (e non penalmente responsabile).
Così, non è arbitrario ritenere la continuità del pericolo o la abitualità tra il 1980 e il 2008, sulla scorta dei precedenti indicati; tuttavia, la scelta di attendere il 2018 per l’avvio del procedimento avrebbe dovuto esser supportata da una motivazione più approfondita. Nella stessa logica, per confiscare beni acquistati una volta cessata la pericolosità, sarebbe stata necessaria la ricostruzione delle transazioni passate.
Viceversa, sarebbe incompatibile con la natura non penale della confisca e col presupposto di pericolosità pretendere la dimostrazione che i reati presupposto abbiano effettivamente prodotto guadagni finanziari, ovvero ritenere non determinante la discrepanza tra entrate e uscite, secondo il criterio del bilanciamento di probabilità (come, invece, in Telbis e Viziteu c. Romania e Gogitidze e Altri c. Georgia).
Il giudice Sabato, nel dichiararsi concorde col primo giudice, se ne discosta per quanto concerne il divario temporale tra reati e confisca, ritenendo quest’ultimo, oltre che astrattamente plausibile, in concreto giustificato dai giudici domestici.
In punto di ammissibilità, i tre ricorsi, estremamente sintetici e schematici, non consentono di comprendere la natura del procedimento interno né sottopongono ai giudici europei questioni (effettivamente affrontate dalla maggioranza) quali la natura dei reati presupposto, l’intestazione fittizia dei beni in capo a terzi ovvero il reinvestimento di proventi illeciti, facendo piuttosto riferimento alla correlazione temporale e alla ripartizione della prova ai sensi dell’art. 6 Cedu.
La maggioranza ha proceduto a un’inedita riqualificazione (recharacterisation) delle doglianze, dall’art. 6 all’art. 1 del Protocollo n. 1, sulla scorta della riqualificazione contenuta già nella lettera contenente i quesiti alle parti, secondo una prassi estensiva della materia del contendere che la Grande Camera ha stigmatizzato in almeno due occasioni (Fu Quan, s.r.o. c. Repubblica Ceca e Grosam c. Repubblica Ceca). Così, la maggioranza ha recuperato dalle osservazioni dei ricorrenti, piuttosto che dalla denuncia, le doglianze cui rispondere (benché, per giurisprudenza consolidata, non sia possibile un’integrazione della denuncia di tal fatta).
Nel merito, la maggioranza ha innanzitutto trascurato diversi elementi: (i) la rilevanza, nel procedimento nazionale, di elementi di fatto ulteriori rispetto alle condanne (riassunti, nella proposta di prevenzione, in ben 53 pagine), quali i precedenti di polizia; (ii) l’accertata frequentazione di persone appartenenti a noti ambienti mafiosi (l’approccio della maggioranza è errato nella misura in cui ritiene che, per l’accertamento della illiceità dei beni, contino solo le condanne); (iii) la natura dei reati coinvolti nei suddetti precedenti (estorsione, traffico di stupefacenti, rapine e associazione a delinquere) e la possibilità di sostenere la continuità della pericolosità tra il 1998 e il 2008, in considerazione della circostanza che il proposto, tra il 1998 e il 2006, era in carcere e, non appena rilasciato, aveva dimostrato di non aver abbandonato le proprie illecite abitudini di guadagno; (iv) la circostanza che anche il terzo ricorrente era stato accusato e condannato per gravi reati, significativa del ruolo assunto durante la detenzione del padre e nella ripresa dell’attività criminale; (v) le informazioni dimostrative del fatto che il nucleo familiare operasse come un’unica entità e che, nonostante le intestazioni formali, la disponibilità del patrimonio era nelle mani del proposto; (vi) contrariamente all’affermazione della maggioranza secondo la quale i giudici domestici non avevano esposto alcun ragionamento sull’intestazione fittizia in capo ai terzi, salvo accertare la mancanza di redditi per gli acquisiti, l’accertamento della pericolosità sociale del terzo ricorrente, tra il 2013 e il 2017, e la “forte” presunzione di fittizietà derivante dalla natura del rapporto intercorrente tra proposto e intestatari formali; (vii) la dimostrazione di una catena ininterrotta di reinvestimenti a partire dall’accumulazione di ricchezza durante la manifestazione di pericolosità del proposto (contenuta, in particolare, nell’analisi patrimoniale e della proposta di prevenzione e delle due sentenze di merito).
Guardando ai principi di diritto enunciati e richiamati dalla maggioranza, il giudice Sabato rileva, in primo luogo, l’allontanamento dalla giurisprudenza consolidata della Corte e dai risultati dell’evoluzione del diritto comunitario e internazionale (entro cui, di norma, requisiti procedurali e probatori sono lasciati agli Stati). Le misure preventive concernono modelli comportamentali complessivi, accertati sulla base non di sospetti ma di elementi di fatto, ricavabili anche (ma non solo) da sentenze penali, anche (ma non solo) di condanna. In tema di confisca senza condanna, sia in Garofalo e Altri c. Italia che in Gogitidze e Altri c. Georgia, la Corte ha ammesso la presunzione di illiceità e l’attribuzione all’interessato dell’onere di provare l’origine lecita, con possibilità di confiscare, oltre ai proventi diretti dal reato (rispetto cui sussiste il nesso di derivazione), anche altri beni e benefici indiretti, non solo alle persone sospettate di reati.
La maggioranza ha ridimensionato i principi formulati sia nei confronti dell’Italia che di altri paesi quali il Regno Unito (rispetto cui ha ritenuto sufficiente l’accertamento di un modello di comportamento criminale sulla base di collegamenti con attività criminali e l’applicazione della confisca sulla base della probabilità prevalente), la Serbia (rispetto cui ha sancito la legittimità della confisca ordinata senza accertare uno specifico nesso tra reato e beni) o la Georgia (rispetto cui ha chiarito che, ai fini della presunzione di illiceità, non era necessario accertare un nesso tra un bene specifico e un reato specifico).
Viceversa, ha elevato a veri e propri principi alcune considerazioni sviluppate nei confronti della Bulgaria, senza tener conto della specificità delle medesime (pertanto, non generalizzabili, come rilevato in Păcurar c. Romania). Nello specifico, il requisito del nesso tra reati presupposto e beni da confiscare può aver senso rispetto a un ordinamento in cui, oltre all’ampia copertura temporale della confisca, non occorre accertare collegamento alcuno tra beni e reati, e i reati stessi possono anche non essere gravi né redditizi. Al di fuori, una confisca di prevenzione (a differenza di altre tipologie di confisca) non riguarda necessariamente beni generati, direttamente o meno, da reati: in altre parole, deve esistere un nesso con l’attività criminale, ma non necessariamente un nesso di derivazione, e può ricavarsi in via presuntiva.
Sotto il profilo temporale, il sistema italiano prevede espressamente la possibilità di una “correlazione ritardata” (ossia la possibilità di confiscare beni acquistati in un momento successivo alla cessazione della pericolosità) e circoscrive il peso dell’onere della prova a carico degli interessati mediante la previsione di un onere motivazionale più rigoroso e la ricostruzione della catena di transazioni.
Infine, con riguardo alla confisca di beni intestati a terzi, familiari o parenti stretti, generalmente ammessa dalla Corte, la maggioranza sembra far venire siffatta possibilità, subordinandola, ancora una volta, al legame coi reati commessi dal presunto autore del reato.
Si auspica l’esame da parte della Grande Camera.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa