Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di gennaio 2024

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di gennaio 2024

Le pronunce di gennaio della Corte Edu qui selezionate concernono l’adeguatezza delle cure mediche fornite nel reparto psichiatrico del carcere, il diritto all’anonimato della madre e il diritto al corretto trattamento dei propri dati personali a seguito di un arresto.

La pronuncia Miranda Magro c. Portogallo, riguardante un tema delicato e “urgente” anche nell’ordinamento italiano, ossia il “trattamento” delle patologie mentali di cui siano affetti autori di reati, presenta due spunti importanti. Il primo di tipo procedurale: la Corte, stante la difformità delle versioni fornite dal ricorrente e dal Governo convenuto circa l’adeguatezza delle cure fornite dal reparto carcerario, accerta la violazione sulla base delle più recenti relazioni di monitoraggio da parte del Comitato di prevenzione della tortura e sulla produzione di prove insufficienti, da parte del Governo, a confutare la versione, in sé, credibile, del ricorrente. Il secondo concerne la rilevanza dell’adeguatezza delle cure, non solo per vagliare il merito del trattamento ex articolo 3 della Convenzione, ma anche ai fini della legittimità della misura ai sensi dell’articolo 5 § 1, dunque estendendo la portata del test sul rispetto della procedura di legge.

Con la sentenza Cherrier c. Francia, la Corte Edu a distanza di venti anni torna a pronunciarsi sulla disciplina francese del parto in anonimo, confermando sostanzialmente le considerazioni espresse in Odièvre c. Francia e Godelli c. Italia ma lasciando aperto lo spiraglio per un diverso bilanciamento con riguardo al mantenimento dell’anonimato della madre dopo la sua morte.

Con la sentenza O.G. e altri c. Grecia, la Corte censura la condotta delle autorità di polizia e giudiziarie greche che hanno sottoposto alcune ricorrenti, sospettate di esercitare un’attività di prostituzione non autorizzata, ad un test di accertamento della sieropositività e successivamente divulgato l’esito del test insieme alla loro identità personale.

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 9 gennaio 2024, ric. n. 30138/21, Miranda Magro c. Portogallo

Oggetto: articolo 3 della Convenzione (divieto di tortura, aspetto sostanziale) – articolo 5 § 1 (e) della Convenzione (diritto alla libertà e alla sicurezza della persona alienata) – commissione di reati da parte di persona non imputabile perché affetta da schizofrenia paranoide – ordine di detenzione preventiva in istituto psichiatrico e sua sospensione per consentire al ricorrente di aderire a un trattamento terapeutico presso ospedale civile – mancata adesione e denunce per nuovi reati – detenzione temporanea nell’unità psichiatrica dell’ospedale penitenziario in attesa di collocamento presso idonea struttura di salute mentale – onere del Governo convenuto di confutare l’asserita inadeguatezza del trattamento terapeutico subito nella struttura carceraria – rilevanza sia ai fini dell’articolo 3 della Convenzione sia ai fini della legittimità della privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5 – necessità di misure generali o sistemiche ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione (forza vincolante ed esecuzione delle sentenze).

Il ricorrente, cui nel 2002 veniva diagnosticata schizofrenia paranoide, al momento della presentazione del ricorso dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, era detenuto nell’unità psichiatrica di un ospedale penitenziario.

Nel 2017, il ricorrente veniva sottoposto a procedimento penale per danneggiamento, minacce e molestie sessuali e, nel 2019, il Tribunale di primo grado, pur accertandone la colpevolezza, lo riteneva non imputabile a causa del suddetto disturbo mentale. Alla luce della pericolosità e del rischio di recidiva, il Tribunale ordinava la detenzione preventiva in ospedale psichiatrico per tre anni, con sospensione di tale misura subordinata a un trattamento psichiatrico, senza reiterazione di reati, in ospedale civile giudizialmente individuato. Il ricorrente non rispettava le condizioni della sospensione, rifiutando le visite, non presentandosi agli appuntamenti, ricevendo altre due denunce penali per minacce e altri reati contro la libertà personale. 

Su richiesta del Pubblico Ministero, il Tribunale revocava la sospensione e ordinava l’arresto del ricorrente (avvenuto in aprile 2021) e il suo ricovero in apposita struttura psichiatrica per la detenzione preventiva. Tuttavia, la struttura individuata non accettava il ricovero, per mancanza di posti letto e la necessità di dare la precedenza a soggetti bisognosi e non autori di reati. Il ricorrente veniva quindi temporaneamente collocato presso il reparto di salute mentale dell’ospedale penitenziario, fino a ottobre 2021, quando veniva trasferito presso altra struttura psichiatrica.

Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamentava di aver sofferto un trattamento disumano e degradante, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione, in quanto sottoposto a un quantitativo eccessivo di farmaci con effetti di lunga durata, in un ambiente che gli determinava confusione e paura, tra personale armato e spazi con sbarre e filo spinato; inoltre, in assenza di un trattamento adeguato, lamentava l’illegittimità della privazione della libertà, in violazione dell’articolo 5 della Convenzione.

Viceversa, secondo il Governo convenuto, il ricorrente aveva fruito di visite specialistiche, della terapia farmacologica ritenuta necessaria dal personale medico, di attività terapeutiche dinamiche anche in gruppo.

La Corte, richiamati i precedenti di maggior rilievo in tema di adeguatezza delle cure mediche prestate dagli Stati nei confronti di detenuti o autori di reato (quali Rooman c. Belgio [GC], n. 18052/11, §§ 141-48, 31 gennaio 2019), ricordava altresì gli elementi che in concreto escludono la violazione, non essendo sufficiente la previsione di visite mediche e la prescrizione di qualsivoglia terapia farmacologica: regolare tenuta della documentazione clinica, tempestività di diagnosi e cure, supervisione regolare e sistematica, strategia terapeutica globale e complessiva per prevenire aggravamenti, piuttosto che reagire esclusivamente su base sintomatica, predisposizione delle condizioni per l’effettiva adesione del detenuto al trattamento. 

Sotto il profilo dell’onere di provare i fatti dinanzi ai giudici europei, una volta che il ricorrente abbia fornito un resoconto coerente e completo dei fatti, credibile, spetta al Governo convenuto raccogliere e produrre documenti di prova pertinenti circa le condizioni materiali di detenzione (Ananyev e altri c. Russia, nn. 42525/07 e 60800/08, §§ 121-23, 10 gennaio 2012; Kaganovskyy c. Ucraina, n. 2809/18, § 121, 15 settembre 2022).

Nel caso di specie la Corte evidenzia che, da una parte, i problemi di salute mentale del ricorrente erano incontestati; dall’altra, le condizioni di detenzione nel reparto dell’ospedale penitenziario erano state descritte in modo difforme dalle parti. Per vagliare le due versioni, la Corte si avvale di documenti anche internazionali di monitoraggio degli Stati (quali il monitoraggio del CTP, European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment), in particolare riguardanti l’ospedale penitenziario in cui il ricorrente era stato effettivamente detenuto, da cui emergevano problematiche di sovraffollamento, mancanza di ambienti terapeutici adeguati e di attività terapeutiche quotidiane. Ciò posto, alla luce altresì della mancanza di posti letto nelle strutture psichiatriche idonee a trattare casi come quelli del ricorrente, la Corte ritiene che il Governo non sia riuscito a confutare le affermazioni del ricorrente sicché l’articolo 3 della Convenzione risulta violato.

Proseguendo, la Corte afferma che la somministrazione di una terapia adeguata sia diventata un requisito del concetto di legittimità della misura, alla luce della duplice funzione assegnata all’articolo 5 § 1 (e) della Convenzione: quella sociale di protezione e quella terapeutica per la persona inferma. Nel caso di specie, benché la detenzione fosse stata decisa secondo una procedura prevista dalla legge, la Corte ritiene la violazione per l’inadeguatezza dell’istituto in cui la detenzione è avvenuta.

Infine, alla luce dell’articolo 46 della Convenzione, la Corte invita il Governo convenuto all’adozione di misure generali per favorire il collocamento delle persone con disturbi mentali in strutture apposite e garantire le terapie adeguate anche in fase di carcerazione preventiva.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 30 gennaio 2024, ric. n. 18843/20, Cherrier c. Francia

Oggetto: articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) - obblighi negativi - diritto all’identità personale - diritto alle origini - parto anonimo

La ricorrente, nata nel 1952 da una donna che non aveva consentito di essere nominata nell’atto di nascita (c.d. parto anonimo, in francese accouchement sous X) e successivamente adottata, si rivolgeva al Consiglio Nazionale per l’Accesso alle Origini (Conseil national pour l’accès aux origines personnelles, di seguito CNAOP) - organismo appositamente costituito con la legge di revisione della disciplina francese sul parto anonimo (loi n° 2002-93) - al fine di ottenere informazioni sulle proprie origini e interpellare la madre biologica per chiederle il consenso alla rimozione del segreto sulla sua identità.

A seguito del perdurante rifiuto opposto dalla donna e del conseguente rigetto della seconda richiesta da parte del CNAOP, la ricorrente si rivolgeva al giudice amministrativo di primo e di secondo grado e, poi, al Consiglio di Stato, che in data 16 ottobre 2019 respingeva definitivamente le sue doglianze.

La ricorrente adiva, quindi, la Corte EDU, lamentando la violazione del diritto al rispetto della sua vita privata, protetto dall’art. 8 CEDU.

La Corte ripercorre, anzitutto, l’elaborazione giurisprudenziale del diritto a conoscere le proprie origini biologiche attraverso il richiamo dei noti precedenti Odièvre c. Francia e Godelli c. Italia. Nel primo caso, i giudici di Strasburgo avevano respinto il ricorso, ritenendo che il legislatore francese avesse provveduto ad operare un adeguato bilanciamento tra il diritto a conoscere le proprie origini, come parte del diritto al rispetto della vita privata, con il contrapposto diritto della madre all’anonimato. Difatti, a seguito della revisione del 2002, l’ordinamento francese prevede non solo la possibilità, per il nato nell’anonimato, di richiedere l’accesso a informazioni non identificative su sua madre e sulla sua famiglia biologica, per fare almeno un po’ di chiarezza sulle radici della propria storia nel rispetto degli interessi di terzi; ma, altresì, la possibilità di superare (ovviamente in modo consensuale) il segreto sull’identità della madre. Al contrario, nel secondo caso, i giudici avevano condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione, in quanto il sistema normativo allora vigente non consentiva in alcun modo di contemperare il diritto della madre alla riservatezza con quello del figlio, cristallizzando irrevocabilmente la scelta della prima al momento della nascita e non contemplando alcuna possibilità di superamento della stessa. Sempre in via preliminare, la Corte evidenzia come, dopo la pronuncia della Grande Camera del 2003 (Odièvre c. Francia), il legislatore francese abbia ulteriormente implementato la tutela del figlio, rimuovendo, con la loi n. 2009-61, la previsione dell’inammissibilità dell’azione di accertamento giudiziale della maternità nell’ipotesi in cui la madre avesse partorito in modo anonimo. Inoltre, sottolinea come, con decisione del 16 maggio 2012, il Conseil constitutionnel abbia dichiarato il sistema del parto anonimo conforme a Costituzione, perché idoneo a garantire un equilibrio soddisfacente tra i contrapposti interessi della madre e quelli del bambino. 

Ciò posto, la Corte chiarisce che, nel caso in esame, non si pronuncerà sulla vieppiù problematica possibilità, riconosciuta alla madre biologica, di mantenere la propria identità segreta anche dopo la morte, come richiesto dalla donna nel caso di specie (§73). Ribadita, poi, la natura particolarmente complessa e delicata del bilanciamento in esame, il giudice sovranazionale osserva, per un verso, che il margine di apprezzamento accordato allo Stato deve essere adeguatamente perimetrato in considerazione della rilevanza del diritto a conoscere le proprie origini per la costruzione della identità, nonché della circostanza che, nell’ambito del Consiglio d’Europa, gli Stati (tra cui la Francia) che riconoscono il parto anonimo rappresentano una minoranza. Per l’altro, che la ricorrente si è basata su una lettura errata dei precedenti richiamati. Invero, nelle sentenze Odièvre e Godelli la Corte non ha messo in discussione che gli Stati possano mantenere l’istituto del parto anonimo, ma ha piuttosto ritenuto necessario che, in tal caso, essi implementino una procedura che consenta tanto la reversibilità del segreto, quanto la possibilità di ottenere informazioni non identificative rilevanti circa le proprie origini e le circostanze in cui è avvenuta la nascita.

La Corte ritiene dunque di non doversi discostare dai propri precedenti, non ravvisando alcun motivo «per mettere in discussione il punto di equilibrio tra i diritti riscontrato dalle autorità nazionali nella causa in esame», pur criticando il fatto che, nell’operazione di bilanciamento, il desiderio di conoscere le proprie origini sia stato considerato alla stregua di un’aspirazione legittima, «souhait légitime» (v. soprattutto la sentenza del Conseil d’État) e non come diritto soggettivo, diversamente da quello della madre a partorire in modo anonimo. 

In questa prospettiva, la Corte rileva ulteriormente che: i) la ricorrente aveva potuto, tramite il CNAOP, ottenere informazioni sia pure non identificative concernenti la propria nascita e le origini della sua esistenza; ii) l’organismo suddetto aveva rappresentato alla madre biologica, come previsto dalla normativa, la richiesta della figlia e aveva quindi sondato la sua eventuale disponibilità a rimuovere il segreto; iii) infine, le istanze  della ricorrente sono state esaminate (e respinte) nel corso del processo amministrativo esitato nella sentenza del Consiglio di Stato.

La Corte conclude, pertanto, che non vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

Si segnala l’opinione dissenziente della giudice Mourou-Vikström, la quale critica, soprattutto, la mancata considerazione dell’incidenza del fattore temporale sulla possibile modulazione dell’equilibrio raggiunto, che  diviene irragionevole con particolare riguardo al mantenimento del segreto dopo la morte della madre.

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 23 gennaio 2024, ric. nn. 71555/12 e 48256/13, O.G. e altri c. Grecia

Oggetto: Articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata) – Prelievo di sangue da donne sospettate di prostituzione in una stazione di polizia senza il loro previo consenso - Interferenza non prevista dalla legge – Decisione del pubblico ministero di rendere pubblici dati medici altamente sensibili di donne sieropositive, insieme alla loro identità e alle loro fotografie e al motivo del procedimento penale avviato nei loro confronti – Dati caricati sul sito web della polizia e successivamente diffusi dai media – Interferenza non sufficientemente giustificata e sproporzionata

Le ricorrenti sono donne a cui era stata diagnosticata la sieropositività. Nell’ambito di un’operazione di polizia nel centro di Atene, le prime sono state arrestate dalla polizia sulla base della motivazione che, con il loro comportamento, avevano destato nella polizia il sospetto che esercitassero un’attività di prostituzione senza il relativo permesso e la tessera sanitaria speciale richiesta dalla legge. A seguito dell’arresto, sono state sottoposte a un controllo dell’identità, a uno screening medico per le malattie sessualmente trasmissibili e a esami del sangue che hanno confermato la loro positività all’HIV. 

Successivamente, sono state incriminate per aver intenzionalmente tentato di infliggere gravi lesioni fisiche, oltre che per il reato di lesioni semplici. Il pubblico ministero ha successivamente disposto che i loro nomi e le loro fotografie fossero resi pubblici, insieme ai motivi per cui era stato avviato un procedimento penale nei loro confronti e a un riferimento alla loro sieropositività. 

L’ordine del pubblico ministero è stato scaricato sul sito web della polizia e la diffusione dei loro dati personali ha avuto un’ampia copertura mediatica per diversi giorni, soprattutto in televisione. In seguito a questi eventi, la ricorrente, la cui sorella era stata arrestata, è stata avvisata che il suo nome e la sua fotografia erano stati trasmessi nel principale telegiornale della sera al posto di quelli della sorella.

Le ricorrenti si sono rivolte alla Corte EDU e hanno invocato l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata) della Convenzione, lamentando due differenti violazioni del medesimo articolo. In primo luogo, è stata censurata l’attività di diffusione di dati personali e medici sensibili. Inoltre, le ricorrenti coinvolte nell’arresto hanno anche sostenuto che non era stato chiesto il loro consenso prima di effettuare le analisi del sangue. 

Con riferimento alla prima doglianza riguardante l’imposizione di un esame del sangue senza previo consenso, la Corte ha innanzitutto ritenuto che l’esame del sangue in questione costituisse un’ingerenza nella loro vita privata. 

La Corte inoltre ha rilevato che tutte le disposizioni di legge poste dal Governo alla base della misura riguardavano l’obbligo per le persone che esercitano la prostituzione, con o senza autorizzazione, di sottoporsi a test di screening per alcune malattie, tra cui l’HIV/AIDS. Tuttavia, nessuna di queste disposizioni indicava la procedura da seguire, né alcun riferimento allo screening che doveva essere effettuato dalle autorità di polizia o giudiziarie, con o senza il consenso delle persone interessate. 

Inoltre, le disposizioni del Codice di procedura penale richiedevano un ordine del pubblico ministero prima che il giudice istruttore o gli agenti di polizia potessero eseguire misure investigative. L’unica eccezione che consentiva di omettere l’autorizzazione giudiziale era l’esistenza di un pericolo imminente, circostanza che però non era stata fatta valere dal Governo e che, in ogni caso, non si era verificata nel caso in questione. Anche supponendo che la misura fosse stata presa al fine di ottenere prove del coinvolgimento dei ricorrenti in un reato nel contesto di un’indagine preliminare, non era stato emesso alcun ordine che autorizzasse l’imposizione di analisi del sangue alla polizia o ai medici. 

Di conseguenza, gli atti contestati non sono stati preceduti da un’analisi o da un riferimento alle disposizioni legali in materia. Inoltre, non era stata seguita alcuna procedura specifica per gli atti medici in questione, che erano stati eseguiti nei locali della polizia. Pertanto, nessuna delle disposizioni citate dal Governo poteva giustificare un intervento medico da parte degli agenti di polizia o dei medici come quello effettuato sulle ricorrenti. 

Per queste ragioni, la Corte ha ritenuto che questa ingerenza non fosse stata “conforme alla legge” ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, dato che le disposizioni di diritto interno in questione avrebbero dovuto essere prevedibili per quanto riguarda i loro effetti sui ricorrenti. Ne consegue che vi è stata una violazione dell’articolo 8 della Convenzione nei confronti delle ricorrenti interessate.

Per quanto riguarda la seconda violazione, riguardante la pubblicazione dei dati personali delle ricorrenti, la Corte ha osservato che la pubblicazione dei dati aveva costituito un’interferenza con il loro diritto al rispetto della vita privata. La base giuridica di tale ingerenza era costituita una legge specifica e prevedibile e l’obiettivo legittimo era la “tutela dei diritti e delle libertà altrui”. 

Per quanto riguarda la necessità dell’ingerenza in una società democratica, la Corte ha ribadito di aver già riscontrato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione in un precedente analogo (Margari c. Grecia), ritenendo che la divulgazione, ai sensi della stessa legislazione nazionale, della fotografia della ricorrente accompagnata da un riferimento alle accuse contro di lei non fosse necessaria in una società democratica. La Corte non ha visto alcuna ragione per discostarsi dal suo precedente, soprattutto perché si trattava di dati sullo stato dell’HIV, per loro natura estremamente sensibili. 

La Corte ha anche notato che il procuratore non ha esaminato nella sua ordinanza se altre misure, in grado di garantire un minor grado di esposizione per i ricorrenti, avrebbero potuto essere adottate nel caso di specie. Si era limitato a ordinare la pubblicazione dei dati in questione, senza valutare la situazione particolare di ciascuno dei ricorrenti e le potenziali conseguenze di tale diffusione. Non aveva nemmeno esaminato se un annuncio generale, limitato alla regione in cui si erano verificati i fatti e riferito semplicemente all’arresto di prostitute sieropositive, avrebbe potuto essere sufficiente per raggiungere l’obiettivo perseguito. 

Sebbene le autorità nazionali stessero cercando di proteggere la salute pubblica, e più specificamente la salute degli individui che avevano avuto rapporti sessuali con i ricorrenti in qualsiasi momento, non vi era nulla che indicasse che la misura di cui sopra non avrebbe raggiunto l’obiettivo perseguito, pur avendo ripercussioni meno significative sulla vita privata dei ricorrenti. Inoltre, i ricorrenti non avevano avuto la possibilità legale di essere ascoltati dal procuratore prima che questi decidesse in merito alla divulgazione della loro data, né avevano potuto, una volta emesso il provvedimento, presentare un appello per farlo riesaminare dal procuratore presso la corte d’appello. Questa forma di ricorso era stata introdotta nella legislazione nazionale solo dopo gli eventi che avevano dato origine ai presenti ricorsi. 

Tali considerazioni erano particolarmente rilevanti nel caso di specie, in quanto le informazioni diffuse riguardavano lo stato di sieropositività dei ricorrenti, la cui divulgazione era suscettibile di incidere drammaticamente sulla loro vita privata e familiare, nonché sulla loro situazione sociale e lavorativa, in quanto la loro natura era tale da esporli al discredito e al rischio di ostracismo. Inoltre, la Corte ha tenuto conto del fatto che, secondo i principi enunciati in una circolare del Ministero della Salute, sebbene le persone dedite alla prostituzione rientrassero tra i gruppi sociali per i quali lo screening del virus dell’HIV era eccezionalmente autorizzato, esse non erano tuttavia incluse nell’elenco dei casi che consentivano di derogare alla regola della riservatezza di tali test.

Di conseguenza, l’interferenza con il diritto delle ricorrenti al rispetto della loro vita privata non era stata sufficientemente giustificata ed era stata sproporzionata rispetto agli obiettivi legittimi perseguiti con conseguente violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

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