Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di luglio-agosto 2025

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nei mesi di luglio e agosto 2025

Le decisioni adottate tra luglio e agosto dalla Corte Edu, qui selezionate, riguardano il rapporto tra la presunzione di innocenza e la confisca di beni derivanti da reati per cui non vi è stata formale condanna; il diritto al rispetto della corrispondenza di un detenuto in regime di detenzione speciale ex art. 41-bis; gli obblighi statali nell’ambito dell’art. 3, Protcollo 1 Cedu a fronte delle inteferenze di uno Stato estero nei procedimenti elettorali.

In Bagnall c. Regno Unito, la Corte torna su una questione recente e controversa, specie per l’ordinamento italiano, ossia la possibilità di accertare un reato al di fuori di una formale condanna per esso, al fine di confiscarne i proventi. Nei confronti del Regno Unito, dove la condanna formale per un reato permette di avviare un procedimento di confisca di beni derivanti da reati diversi, la Corte, senza arrivare a vagliare l’esistenza di una violazione, esclude l’applicabilità dell’art. 6 § 2 Cedu, ritenendo che il procedimento di confisca sia una “fase” del procedimento penale chiuso con condanna e che l’utilizzo di prove riguardanti reati diversi da quelli formalmente addebitati non sia illegittimo né dia luogo a una nuova accusa.

La sentenza Gullotti c. Italia ribadisce e rafforza gli oneri motivazionali a carico dell'autorità giudiziaria nazionale in sede di applicazione delle restrizioni penitenziarie, onde evitarne qualsiasi automatismo o assenza di indivualizzazione. Stante l’applicazione nei suoi confronti del regime detentivo speciale previsto dall'articolo 41-bis dell'Ordinamento Penitenziario, il ricorrente ha lamentato la violazione del diritto al rispetto della corrispondenza e del diritto a un ricorso effettivo, in ragione dell’assenza di un rimedio giurisdizionale nazionale che gli consentisse i lamentare la violazione del diritto sostanziale. La Corte ribadisce il principio che ogni restrizione aggiuntiva imposta a un detenuto alla libertà di corrispondenza, non può discendere dalla generica pericolosità di un regime speciale, ma richiede una motivazione autonoma, specifica e individualizzata, che dimostri la necessità e proporzionalità di quella singola, ulteriore misura.

In Bradshaw e altri c. Regno Unito, la Corte EDU si trova, per la prima volta, a valutare una possibile violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1 con riferimento alle interferenze dispiegate da attori statali (esteri) e non statali nei processi elettorali dello Stato convenuto. Pur non avendo ravvisato, da parte di quest’ultimo, alcuna violazione del parametro evocato, il Giudice di Strasburgo ha sottolineato che esso impone agli Stati membri l’adozione di misure positive per proteggere il diritto a libere elezioni,  nel caso in cui sussista un rischio reale che l’interferenza esercitata da parte di attori statali o non statali ostili possa compromettere l’essenza stessa dei diritti degli elettori e privarli della loro efficacia.

 

Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 8 luglio 2025, n. 54241/12, Bagnall c. Regno Unito

Oggetto: art. 6 della Convenzione (equo processo) – condanna per riciclaggio e ordine di confisca per beni privi di giustificazione lecita e derivanti da frodi di IVA – procedura di confisca qualificabile come fase del procedimento penale che ha portato alla condanna

Il ricorrente veniva arrestato per riciclaggio di denaro ai sensi del Proceeds of Crime Act 2002 (“POCA”), indagato anche per frode IVA, ma condannato solo in relazione alla prima imputazione. In seguito, l’autorità giudiziaria avviava un procedimento di confisca volto ad accertare se il condannato avesse condotto uno “stile di vita criminale” e prodotto ricchezza illecita, ricollegabile sia al riciclaggio che alla frode. Applicando la presunzione legale e relativa di illiceità dei beni e delle somme acquisite nei sei anni antecedenti l’avvio del procedimento penale, l’autorità accertava un profitto di circa 2,8 milioni di sterline, emetteva un ordine di confisca per l’intero importo, fissava una pena detentiva di sei anni in caso di mancato pagamento e imponeva al ricorrente di rendicontare la sua situazione finanziaria per quattro anni, ai sensi del Serious Organised Crime and Police Act 2005.

Il ricorrente impugnava la decisione lamentando, tra le altre cose, che l’accertamento di fatti di frode, ai fini della confisca, costituiva una nuova accusa o, comunque, determinasse l’imposizione di una pena per fatti diversi da quelli per cui vi era stata condanna, in violazione dell’art. 6 §§ 1 e 2 della Convenzione.

La Corte di appello rigettava i motivi di impugnazione riguardanti l’art. 6 della Convenzione ma riduceva l’importo della confisca a 1,6 milioni di sterline; poiché la decisione non coinvolgeva questioni di diritto di importanza pubblica, negava la facoltà di presentare un’ulteriore impugnazione.

Il ricorrente si trasferiva a Dubai appena prima che fosse emesso il mandato di arresto per inadempimento all’ordine di confisca.

Dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, il ricorrente lamenta che sia il procedimento di confisca sia l’ordine di rendicontazione finanziaria hanno violato la presunzione di innocenza; in relazione al primo procedimento, lamenta, altresì, la durata irragionevole.

La Corte, ribaditi i principi generali sull’aspetto procedurale e reputazionale della presunzione di innocenza, menzionava i principali precedenti in cui aveva calato siffatta garanzia nell’ambito un procedimento di confisca: 

- in Phillips c. Regno Unito, la Corte aveva affermato che gli ordini di confisca non comportavano una nuova accusa, ma facevano parte dello stesso procedimento penale in cui era stata in precedenza formulata sia l’accusa che la condanna, integrando una fase di determinazione della pena. La circostanza che, per la confisca, fossero stati valutati reati diversi da quelli per cui era intervenuta la condanna non dava luogo a una nuova accusa: lo scopo della valutazione era quantificare l’importo da confiscare; la valutazione non incideva sulla fedina penale;

- in Van Offeren c. Paesi Bassi, il ricorrente era stato condannato per trasporto di cocaina, detenzione di cocaina e armi da fuoco, frode alla previdenza sociale, mentre era stato assolto dall’accusa di traffico di cocaina; tuttavia, subiva la confisca di proventi illeciti perché ricondotti anche al traffico di cocaina e non altrimenti giustificati. La Corte, richiamando Phillips, stabiliva che il procedimento di confisca faceva parte di quello di condanna, senza formulazione di una nuova accusa;

- in Geerings c. Paesi Bassi, la presunzione di innocenza era stata ritenuta applicabile e violata perché l’ordinanza di confisca riguardava proprio i reati per i quali il ricorrente era stato assolto e non era stato dimostrato che egli fosse in possesso di beni di cui non potesse spiegare la provenienza;

- in Episcopo e Bassani c. Italia, l’ordine di confisca, adottato in relazione ai proventi di un reato per cui vi era stato proscioglimento, aveva violato l’aspetto reputazionale della presunzione di innocenza poiché, per diritto interno, esso presupponeva il requisito formale della condanna; per questo i giudici, nell’ordinare la confisca, avevano di fatto imputato la responsabilità penale.

Guardando al caso di specie, per stabilire l’applicabilità di entrambi gli aspetti dell’art. 6 § 2, occorre accertare la sussistenza del requisito dell’accusa penale, in relazione al reato per cui la menzionata disposizione s’invoca.

La Corte, aderendo all’impostazione enunciata in Phillips, osserva che il procedimento di confisca faceva parte del processo di determinazione della pena per un reato rispetto cui era intervenuta condanna; lo scopo del procedimento di confisca era valutare l’importo e fissare la pena detentiva in caso di mancato pagamento. Data per assodata l’equità della presunzione legale di illiceità, l’accusa aveva il diritto di contestare l’affermazione del condannato secondo cui egli aveva ottenuto i beni con mezzi leciti, anche facendo riferimento a prove di reati diversi formalmente addebitati.

La soluzione è in linea con quella raggiunta in Van Offeren: sebbene i giudici domestici avessero ordinato la confisca sulla base di indizi di un reato per cui vi era stata l’assoluzione, la Corte aveva escluso che il procedimento di confisca vertesse su una nuova accusa poiché il suo scopo non era la condanna o l’assoluzione, ma valutare se i beni in possesso del ricorrente fossero stati ottenuti mediante reati connessi alla droga e, in tal caso, fissare l’importo dell’ordine di confisca.

La diversa conclusione rintracciabile in Geerings non sembra, invece, determinante, considerata la confusione tra la questione dell’applicabilità dell’art. 6 § 2 con quella della violazione; in altre parole, non era stato chiarito se il procedimento di confisca contenesse “una nuova accusa” o se l’art. 6 § 2 fosse stato ritenuto applicabile per altra via. 

A differenza di Geerings ed Episcopo e Bassani, il ricorrente della presente causa non è stato né perseguito né assolto per frode IVA; l’accertamento della frode IVA sembra formulato esclusivamente per valutare se i beni considerati erano riconducibili a una condotta criminale, senza costituire né preludio né addebito di un reato.

D’altronde, se utilizzare prove di specifici reati, per confutare le affermazioni dell’imputato, si ritenesse fonte di un’accusa penale, ciò ostacolerebbe il funzionamento dei regimi di confisca nazionali adottati per conformarsi a norme europee e internazionali.

In conclusione, l’art. 6 § 2 non era applicabile al procedimento di confisca, né nel primo né nel secondo aspetto.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 10 luglio 2025, n. 64753/14, Gullotti c. Italia 

Oggetto: Articolo 8 (Corrispondenza) - Ulteriore limitazione del diritto alla corrispondenza durante la detenzione in regime speciale 41-bis - Mancanza di un riferimento esplicito a circostanze specifiche che giustifichino la misura - Insufficienza di prove di una valutazione effettiva.

Il Ricorrente è un cittadino italiano condannato per reati quali partecipazione ad associazione di tipo mafioso, omicidio, estorsione, detenzione illegale di armi e violazione di misure di prevenzione e detenuto in regime speciale ex art. 41-bis dell'Ordinamento Penitenziario.

Il regime del 41-bis comporta severe restrizioni, come visite limitate dei familiari, divieto di telefonate, limiti alla ricezione di pacchi e denaro, e un massimo di due ore d'aria al giorno in gruppi ristretti. Rispetto alla libertà di corrispondenza si regime prevede che la posta in entrata e in uscita sia soggetta a controllo, previa autorizzazione del giudice secondo l'articolo 18-ter della stessa legge. 

Di conseguenza, il ricorrente è stato sottoposto al controllo della sua corrispondenza per un periodo determinato di tempo e in un altro momento il diritto alla corrispondenza è stato addirittura limitato ai soli parenti ammessi alle visite familiari.

A seguito di una richiesta presentata dal direttore dell’istituto penitenziario, sulla base dei documenti contenuti nel "dossier relativo al ricorrente", il giudice di sorveglianza competente ha rinnovato per ulteriori tre mesi la suddetta limitazione. La decisione è stata giustificata dal mantenimento da parte del ricorrente di un ruolo di rilievo all'interno dell'organizzazione di stampo mafioso Cosa Nostra, nonostante la detenzione continuata dal 1998. Questa conclusione emergeva da fonti investigative e dalle dichiarazioni di altri detenuti che avevano collaborato con le autorità giudiziarie. La decisione faceva inoltre riferimento a un parere favorevole emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia.

Avverso tale ordinanza, il ricorrente ha proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza il quale ha confermato il provvedimento, ribadendo l'appartenenza del ricorrente all'organizzazione criminale e la mancata presa di distanza durante la detenzione. Anche il ricorso per Cassazione, è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto giustificata la limitazione. Questa decisione finale è arrivata a quasi due anni di distanza dalla scadenza del provvedimento impugnato.

Inoltre, mentre l’iter processuale era pendente, la limitazione della corrispondenza è stata rinnovata altre tre volte per tre mesi ciascuna. 

Parallelamente, il Ministro della Giustizia emetteva un'ordinanza che rinnovava l'applicazione del regime di 41 bis per un periodo di due anni. Le motivazioni addotte dal Ministro della Giustizia per giustificare la proroga del regime speciale si basavano sulle informazioni fornite dalle autorità giudiziarie antimafia, secondo le quali il ricorrente era stato ed era tuttora il capo di un clan mafioso nella zona di Barcellona Pozzo di Gotto, con forti collegamenti con altri clan. Il ruolo di primo piano del ricorrente all'interno dell'organizzazione era dimostrato, tra l'altro, dalle conversazioni intercettate tra i membri dell'organizzazione a partire dal 2003, in cui si faceva riferimento all'impossibilità di comunicare con il ricorrente di persona o per posta. 

Poco dopo, il tribunale di sorveglianza di Bologna accoglieva un ricorso del ricorrente in cui sosteneva che una delle ordinanze che reiteravano la limitazione era insufficientemente motivata. Secondo il tribunale di Bologna, l'ordinanza faceva ampio riferimento alle fonti investigative, senza fornire un resoconto dettagliato del loro contenuto. Il tribunale ha inoltre evidenziato che il giudice di sorveglianza non aveva tenuto conto di altre informazioni rilevanti, tra cui una decisione di un altro tribunale di sorveglianza territorialmente diverso, che aveva accolto una richiesta di liberazione anticipata da parte del ricorrente, e le relazioni emesse da altri istituti penitenziari in cui il Ricorrente era stato detenuto, che facevano riferimento alla sua buona condotta e al suo impegno nelle attività di formazione durante la detenzione. Il tribunale ha anche fatto riferimento ai procedimenti disciplinari avviati nei confronti del ricorrente dalle autorità carcerarie, ma ha sottolineato che avevano riguardato violazioni di condotta di minore gravità. 

Alla luce di tale decisione, il ricorrente ha chiesto che anche le altre due ordinanze del giudice di sorveglianza fossero dichiarate illegittime in quanto fondate sugli stessi argomenti di quella già censurata. Tuttavia, il tribunale di sorveglianza ha ritenuto la richiesta inammissibile in quanto non prevista dalla legge sull'amministrazione penitenziaria. Nel frattempo, dopo aver preso atto della decisione, l'istanza del governatore di rinnovo per altri tre mesi della limitazione al diritto del ricorrente alla corrispondenza ai soli parenti ammessi per le visite familiari è stata respinta.

Il ricorrente ha invocato l'articolo 8 (diritto al rispetto della corrispondenza) sostenendo che che rinnovava le restrizioni alle persone con cui poteva corrispondere e le successive decisioni dei tribunali nel procedimento di appello non erano state adeguatamente motivate. Inoltre, è stata lamentata, ai sensi dell'articolo 13 della Convenzione, l'inefficacia del ricorso contro l'ordinanza dell'8 gennaio 2013 a causa del ritardo nella sua trattazione che ha determinato nuove e reiterate limitazioni al suo diritto di corrispondenza con successivi ordini identici.

Rispetto al diritto al rispetto della corrispondenza, la Corte ha richiamato i principi generali consolidati nella sua giurisprudenza. Se da un lato è riconosciuta la legittimità dei regimi di alta sicurezza come il 41-bis per recidere i legami tra i detenuti e le loro reti criminali nonché per prevenire il rischio di fuga, di aggressione o di turbativa della comunità carceraria, dall'altro la corrispondenza – che pure può essere legittimamente sottoposta a forme di controllo - rappresenta spesso l'unico legame del detenuto con il mondo esterno, rivestendo un'importanza fondamentale. Per questa ragione, qualsiasi ingerenza in tale diritto deve essere assistita da una motivazione “pertinente e sufficiente” fornita dalle autorità nazionali, al fine di scongiurare il rischio di decisioni arbitrarie. 

In tale contesto, la Corte ha inquadrato analiticamente l'evoluzione legislativa italiana, sottolineando come l'introduzione dell'art. 18-ter abbia rappresentato la risposta legislativa dello Stato italiano a precedenti condanne della CEDU relative alla previgente normativa. Il previgente articolo 18 della legge sull'amministrazione penitenziaria, infatti, stabiliva che il giudice poteva ordinare la censura della corrispondenza di un detenuto con una decisione motivata, senza specificare i casi in cui tale decisione poteva essere presa. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che le decisioni basate sull'articolo 18 della legge sull'amministrazione penitenziaria violassero l'articolo 8 della Convenzione in quanto non erano «conformi alla legge», poiché non stabilivano norme né sul periodo di validità delle misure di controllo della corrispondenza del detenuto né sui motivi che potevano giustificarle e non indicavano con ragionevole chiarezza la portata e le modalità di esercizio del potere discrezionale conferito alle autorità pubbliche. L'analisi della Corte, pertanto, non si è limitata a una valutazione astratta della norma, ma ha verificato se il rimedio legislativo adottato dall'Italia venisse applicato in modo corretto ed efficace nella pratica. 

Nel valutare il caso specifico, la Corte ha quindi applicato nuovamente la sua valutazione al nuovo istituto di cui all’articolo 18-ter dell’Ordinamento Penitenziario. 

Diversamente dai precedenti relativi alla precedente normativa, la Corte ha accertato che tale ingerenza era «prevista dalla legge» (l'art. 18-ter dell'Ordinamento Penitenziario) e perseguiva scopi legittimi, quali la sicurezza pubblica e la prevenzione dei reati. Rispetto in particolare al requisito dela legalità, la Corte ha riconosciuto che a differenza dell'articolo 18, l'articolo 18 ter prevede che la misura sia adottata con un'ordinanza motivata dall'autorità giudiziaria in circostanze specifiche (vale a dire per prevenire la commissione di reati, mantenere la sicurezza nelle carceri e garantire la riservatezza delle indagini) e per un periodo di tempo limitato. Pertanto, col nuovo regime alle autorità non è più concessa una discrezionalità illimitata.

La Corte ha allora valutato se l’ingerenza fosse "necessaria" in una società democratica. Questo esame si è tradotto in una valutazione approfondita della qualità della motivazione contenuta in una delle ordinanze limitative della corrispondenza, non annullata dai tribunali nazionali.

Rispetto a tale profilo la Corte ha concluso che la motivazione del provvedimento impugnato fosse  inadeguata, individuando una serie di carenze: 

- la motivazione era generica, fondata su un mero riferimento al "ruolo di primo piano" del ricorrente nell'organizzazione criminale, senza specificazioni contestualizzate.

- il provvedimento ometteva di giustificare la necessità della limitazione aggiuntiva della corrispondenza (ai soli familiari) rispetto al monitoraggio generale già in essere. Le autorità nazionali avrebbero dovuto fornire «una spiegazione delle ragioni per cui il monitoraggio generale della corrispondenza del detenuto... era ritenuto insufficiente». Mancava, dunque, una valutazione esplicita e autonoma su questo punto specifico.

- non risulta sufficiente il generico riferimento che l’ordinanza fa alla motivazione contenuta nel decreto ministeriale del Ministero della Giustizia che aveva disposto la reiterazione del regime del 41-bis. L’effetto di limitare il numero di persone con cui un detenuto può intrattenere corrispondenza costituisce per la Corte un'ulteriore limitazione del diritto del ricorrente, rispetto a quelle disposte con il decreto. Di conseguenza, un riferimento generico al decreto ministeriale non è di per sé sufficiente a giustificare ulteriori restrizioni. L’ordinanza è un provvedimento autonomo e in quanto tale è necessaria una motivazioni individualizzate e ulteriore.

- ad ogni modo, l’ordinanza non faceva neppure un esplicito riferimento al decreto ministeriale ma più genericamente al «fascicolo relativo al ricorrente».

In breve, tali carenze dimostrano la mancanza di una valutazione genuina e di una motivazione specifica e individualizzata per la restrizione aggiuntiva che ha reso l'ingerenza non «necessaria in una società democratica», portando alla constatazione di una violazione dell'articolo 8 della Convenzione. 

Tale conclusione ha reso necessario esaminare anche la seconda doglianza del ricorrente, rappresentata dall’assenza di Ricorso Effettivo ex Articolo 13 CEDU. Nonostante la violazione dell'Articolo 8, la Corte ha dichiarato inammissibile la doglianza relativa all'articolo 13, ritenendola manifestamente infondata. In primo luogo, il rimedio previsto dalla legge italiana (reclamo al Tribunale di sorveglianza e ricorso per cassazione) è stato ritenuto, in linea di principio, un meccanismo idoneo a contestare le misure ex art. 18-ter. In secondo luogo, e in modo decisivo, la Corte ha valutato l'efficacia del rimedio nella pratica dal momento che il Tribunale di sorveglianza si è effettivamente pronunciato sul merito del reclamo i una delle ordinanze che reiteravano la limitazione alla corrispondenza. 

La Corte ha dunque concluso che il ricorrente non aveva fornito prova di un «fallimento sistematico» del sistema giudiziario nazionale nel decidere tempestivamente su tali reclami, distinguendo il caso di specie da precedenti come Messina (n. 2) c. Italia.

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 22 luglio 2025, ric. n. 15653/22, Bradshaw e altri c. Regno Unito

Oggetto: art. 3, Protocollo n. 1 – diritto a libere elezioni – libera espressione dell’opinione del popolo nella scelta del corpo legislativo – obbligo positivo dello Stato convenuto di proteggere i procedimenti elettorali da interferenze ostili esercitate da attori statali o non statali esteri 

I ricorrenti sono tre cittadini britannici, eletti membri del Parlamento alle elezioni del 2019. Nel febbraio dello stesso anno, la Commissione per il Digitale, la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS) del Parlamento britannico aveva pubblicato una relazione intitolata Disinformazione e fake news, frutto di un’indagine durata 18 mesi. Il documento analizzava in particolare il fenomeno della disinformazione online e l’influenza che le informazioni fuorvianti e l’ingerenza di potenze ostili possono esercitare sulle scelte politiche degli elettori nel Regno Unito.

Pochi mesi più tardi, nell’ottobre 2019, la Commissione parlamentare per l’Intelligence e la Sicurezza (ISC) trasmetteva al Primo Ministro una propria relazione, redatta sulla base di un’inchiesta condotta nel 2018. Tale inchiesta riguardava diversi aspetti della minaccia rappresentata dalla Russia e valutava le misure adottate dal governo britannico in risposta a tale pericolo. Questa seconda relazione veniva successivamente resa pubblica nel luglio 2020.

Sulla base di tali relazioni, i ricorrenti rilevavano l’esistenza di prove credibili dell’ingerenza della Russia nei processi democratici del Regno Unito e, segnatamente, in occasione del referendum scozzese del 2014, delle elezioni europee del 2016 e delle elezioni politiche del 2019. Secondo i ricorrenti, la Federazione russa avrebbe condotto, più in generale, un’interferenza ampia e sistematica nei processi elettorali democratici all’interno degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Le strategie impiegate comprendevano l’uso della disinformazione quale strumento di destabilizzazione delle istituzioni democratiche, attacchi informatici mirati contro entità statali strategiche — incluse le infrastrutture elettorali —, operazioni di “hack and leak”, nonché il ricorso a cyber troops e troll farm con l’obiettivo di manipolare il dibattito pubblico e fomentare divisioni tra diversi gruppi sociali.

Insieme a due membri della Camera dei Lords e a un’organizzazione non governativa, i ricorrenti chiedevano, dunque, l’autorizzazione a impugnare, mediante ricorso giurisdizionale, la decisione del Primo Ministro di non avviare, e/o il suo persistente mancato adempimento, di promuovere un’indagine sulle interferenze russe nei processi democratici del Paese. Essi sostenevano che, alla luce del rapporto ISC, tale inadempimento costituisse una violazione dell’obbligo investigativo insito nell’articolo 3, Protocollo n. 1 della Convenzione. Contestavano, altresì, l’assenza di un quadro normativo efficace in grado di garantire le condizioni necessarie a assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo, come richiesto dal sopracitato articolo.

La richiesta dei ricorrenti veniva respinta dalla High Court, ad avviso della quale i motivi di ricorso riguardavano funzioni sovrane dello Stato. Inoltre, evidenziava che non sussisteva l’obbligo del Primo ministro, ai sensi dell’art. 3, Protocollo n. 1 Cedu, di aprire un’inchiesta indipendente.

A seguito del rigetto dell’istanza anche da parte della Court of Appeal, i ricorrenti decidevano, quindi, di rivolgersi alla Corte di Strasburgo.

La Corte procede, anzitutto, a valutare se l’articolo 3 del Protocollo n. 1 sia applicabile al caso di specie.

A tal fine, dopo aver rimarcato che la democrazia costituisce l’elemento fondamentale e imprescindibile dell’“ordine pubblico europeo”, il Giudice di Strasburgo ricorda di aver già chiarito  da tempo (v. Mathieu-Mohin and Clerfayt c. Belgio, 1987) che, sebbene la disposizione in esame differisca dagli altri articoli della Convenzione e dei suoi Protocolli, in quanto formulata in termini di obbligo per l’Alta Parte contraente di indire elezioni in condizioni che assicurino la libera espressione dell’opinione del popolo piuttosto che in termini di un diritto o di una libertà particolare, essa implica comunque il riconoscimento di diritti individuali, in primo luogo il diritto di voto e di eleggibilità. Ciononostante, poiché tale articolo stabilisce, in termini generali, l’obbligo delle Alte Parti contraenti di indire elezioni libere a scrutinio segreto «a intervalli ragionevoli, in condizioni che garantiscano la libera espressione dell’opinione del popolo», esso garantisce anche un diritto più generale, vale a dire quello di beneficiare di elezioni legislative conformi alla formula appena menzionata.

La Corte osserva, pertanto, che gli Stati membri sono tenuti ad adottare misure positive per organizzare elezioni «a condizioni che garantiscano la libera espressione dell’opinione del popolo nella scelta del corpo legislativo» e che la portata di tale obbligo non riguarda solo l’integrità del risultato elettorale in senso stretto, ma comprende altresì la libera circolazione delle opinioni politiche e delle informazioni nel periodo precedente alle elezioni.

La Corte  prosegue rilevando, poi, che, sebbene finora la propria giurisprudenza abbia riguardato esclusivamente situazioni in cui le condizioni lesive della libera espressione del voto erano riconducibili allo Stato convenuto o si erano comunque verificate al suo interno, nel caso in esame risulta pacifico che attori statali e non statali esteri abbiano utilizzato la disinformazione come strumento di ingerenza nei processi elettorali di altri Stati, incluso lo Stato convenuto.

La Corte sottolinea, invero, che le nuove tecnologie, in particolare i social media, se da un lato hanno ampliato le possibilità per i partiti politici di comunicare direttamente con l’elettorato, dall’altro hanno favorito una diffusione della disinformazione e una manipolazione dei contenuti su scala globale e con velocità senza precedenti.

Sulla base dei rapporti pertinenti, emerge che la Federazione Russa aveva condotto una campagna sistematica e transnazionale di manipolazione mediatica, disinformazione e attacchi informatici con l’obiettivo di destabilizzare i propri avversari, tra cui l’Unione Europea e i suoi Stati membri. 

La Corte rileva, infine, che la capacità della disinformazione di rappresentare una minaccia concreta e grave per la democrazia è stata espressamente riconosciuta da autorevoli organismi internazionali, quali l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite e la Commissione di Venezia.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte afferma, dunque, che, qualora esista un rischio reale che, in seguito all’interferenza di uno Stato ostile, i diritti degli elettori all’interno di uno Stato membro possano essere limitati al punto da comprometterne l’essenza stessa e privarli della loro efficacia, l’articolo 3, Protocollo n. 1 può richiedere allo Stato in parola di adottare misure positive per proteggere l’integrità dei propri processi elettorali e di monitorare periodicamente tali misure.

Inoltre, sebbene dalla disposizione in commento non derivi un obbligo autonomo e separato di indagare, analogo a quello previsto in caso di presunta violazione, tra l’altro, degli articoli 2, 3 e 4 della Convenzione o degli articoli 8 e 1 del Protocollo n. 1, è evidente che uno Stato che ignorasse accuse credibili di interferenze straniere nelle proprie elezioni non potrebbe adempiere alle suddette misure positive. Perciò, sebbene gli Stati non siano tenuti ad avviare inchieste autonome su ogni possibile violazione dei diritti individuali ex art. 3 Protocollo n. 1, una grave negligenza nel non indagare su accuse credibili potrebbe configurare un problema ai sensi di tale articolo, qualora ciò compromettesse la capacità dello Stato di proteggere gli elettori dall’erosione dell’essenza stessa del diritto di partecipare a elezioni «a condizioni che garantiscano la libera espressione dell’opinione del popolo».

Ogni eventuale omissione in tal senso deve essere valutata nel contesto dell’obbligo positivo dello Stato e non come una violazione autonoma dell’articolo 3 del Protocollo n. 1, che risulta pertanto applicabile.

Quanto al riconoscimento dello status di vittima, ai sensi dell’art. 34, contestato dal Governo, la Corte ha osservato che, in linea di principio, chiunque abbia diritto di votare o candidarsi in uno Stato membro può essere considerato vittima potenziale della mancata adozione, da parte dello Stato convenuto, di misure atte a proteggere l’integrità elettorale, se vi sono prove di un’ingerenza tale da minacciare l’essenza del diritto a libere elezioni. Tuttavia, la reale incidenza dell’ingerenza dipende sia dalla sua intensità sia dalle misure adottate a livello nazionale per limitarne gli effetti sull’esito del voto; valutazione, questa, che strettamente connessa al merito delle doglianze.

Nel procedere all’esame della questione, la Corte, senza sottovalutare la minaccia rappresentata dalla diffusione di disinformazione e dalle cosiddette “campagne di influenza”, rileva la difficoltà di valutare con precisione l’impatto che tali fenomeni possano avere sui singoli elettori e, di conseguenza, sull’esito di una determinata consultazione. Sebbene questa incertezza non debba impedisca agli Stati di adottare misure a difesa dei valori democratici, non esiste, ad avviso della Corte, un consenso chiaro su quali azioni specifiche essi debbano intraprendere per proteggere i propri processi democratici da tali rischi.

Invero, l’unico punto su cui sembra esserci un consenso chiaro tra gli Stati è la constatazione che si tratta di un problema complesso e di portata globale, che richiede di essere affrontato con la collaborazione di partner internazionali e delle piattaforme di social media. L’impatto della disinformazione e delle campagne di influenza dipendeva da una molteplicità di dinamiche sociali, economiche, culturali, tecnologiche e politiche, che non si prestano a soluzioni semplicistiche. 

D’altra parte, la Corte evidenzia come esista una linea molto sottile tra il contrasto alla disinformazione e la censura vera e propria.

Di conseguenza, qualsiasi azione adottata dagli Stati per contrastare il rischio di interferenze elettorali straniere tramite la diffusione di disinformazione e campagne di influenza deve essere bilanciata con il diritto alla libertà di espressione, sancito dall’articolo 10 della Convenzione. Infatti, se da un lato la circolazione di disinformazione o informazioni false poteva interferire con il diritto a ricevere informazioni tutelato dall’articolo 10, anche le misure adottate per contrastarne la diffusione potevano avere lo stesso effetto. Pertanto, tali misure devono essere calibrate con attenzione per evitare interferenze sproporzionate con il diritto degli individui a comunicare e ricevere informazioni, specialmente nel periodo precedente alle elezioni, e devono tener conto del rischio di abusi da parte degli Stati stessi, che possono usare tali misure per influenzare l’esito delle proprie elezioni.

Sebbene gli Stati non debbano restare passivi di fronte a prove di minacce ai propri processi democratici, essi devono godere di un ampio margine di discrezionalità nella scelta dei mezzi per contrastare tali minacce che, secondo la Corte, il Regno Unito non ha oltrepassato.

In proposito, la Corte afferma, per un verso, che nel ricorso presentato alla Corte, i ricorrenti non avevano indicato quali ulteriori misure il Governo britannico avrebbe dovuto adottare. Per l’altro, ripercorre gli interventi posti in essere dallo Stato convenuto successivamente alla pubblicazione del rapporto dell’Intelligence and Security Committee (ISC) e alla presentazione dei ricorsi davanti ai giudici nazionali, tra cui: l’adozione di discipline legislative atte in vario modo a contrastare la disinformazione elettorale (l’Elections Act 2022, il National Security Act 2023 e l’Online Safety Act 2023); la creazione di un’Unità per il contrasto alla disinformazione (Counter Disinformation Unit, CDU) e di una Task force per la difesa della democrazia (Defending Democracy Taskforce), nonché l’implementazione di un sistema incardinato, tra l’altro, nell’Independent Reviewer of Terrorism Legislation, che consente il costante monitoraggio circa la necessità di ulteriori misure per contrastare le minacce da parte di Stati ostili sembra essere costantemente oggetto di revisione.

In ogni caso, eventuali mancanze non potevano essere considerate così gravi da aver impedito ai ricorrenti di beneficiare di elezioni che garantissero la libera espressione della volontà del popolo. La Corte conclude, quindi, che non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 3 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.

La sentenza è accompagnata da un’opinione separata del giudice Jakab, il quale sottolinea la necessità di un adeguamento nell’interpretazione dell’articolo 3 del Protocollo n. 1, a fronte dell’emersione, nella società digitale, di nuove tipologie di minacce all’integrità dei procedimenti elettorali.

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Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

17/10/2025
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