Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di Luglio 2019

Le più rilevanti sentenze di luglio della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano un ampio ventaglio di temi, aventi un punto di partenza comune: il pieno riconoscimento della dignità di tutti gli esseri umani. Da un lato, la tutela delle vittime di tratta, assicurata dall’art. 4 della Convenzione, dall’altro, la protezione da ogni forma di discriminazione e la tutela di diritti fondamentali quali la libertà di associazione, garantita dall’art. 11; ancora, la protezione di chi si trova in stato di detenzione dall’arbitrarietà della pubblica autorità. I giudici di Strasburgo hanno poi condannato l’Italia per aver violato l’art. 1 del Protocollo 1, a danno di una S.a.s., avendo l’ingerenza dello Stato costituito un pregiudizio al suo diritto di proprietà; pregiudizio «manifestamente non proporzionato allo scopo legittimo perseguito». La Corte ha infine riaffermato un principio fondamentale, contenuto nell’articolo 4 del “Protocollo” 7: il cd. ne bis in idem.

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 18 luglio 2019 rich. nn. 40311/10, T.I. e altri c. Grecia

Oggetto: articolo 4 (proibizione della schiavitù e del lavoro forzato), tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione, protezione delle vittime di tratta, particolare livello di diligenza.

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 4 della Convenzione.

 

Le ricorrenti, nel caso T.I. e altri c. Grecia, sono tre cittadine russe arrivate in Grecia dopo aver ottenuto il visto tramite il Consolato Generale greco a Mosca. Le ricorrenti accusano gli impiegati del Consolato di essere stati corrotti da trafficanti russi, che avevano lo scopo di renderle vittime di tratta e di sfruttamento sessuale. In Grecia, vennero infatti riconosciute come «vittime della tratta di esseri umani» e vennero avviati alcuni procedimenti.

Nel settembre 2003, dopo l’arresto con l’accusa di prostituzione, una delle ricorrenti dichiarò alle autorità di essere stata costretta a prostituirsi. Vennero dunque avviati procedimenti nei confronti di tre soggetti, due dei quali condannati dalla Corte d’Appello di Salonicco a una pena detentiva di cinque anni e dieci mesi per «associazione per delinquere, sfruttamento della prostituzione e tratta di esseri umani». Nel dicembre 2003, le altre due ricorrenti denunciarono alle autorità di Ermoupolis di essere, anch’esse, vittime di tratta, individuando tre soggetti come autori dei fatti. Furono avviati altri procedimenti, dai quali scaturirono pene detentive nei confronti di due soggetti, poi convertite in pene pecuniarie, per falso e falsificazione di certificati; mentre, nel marzo 2013, la Corte d’Appello di Atene assolse due dei soggetti condannati per il reato di associazione per delinquere e tratta di esseri umani.

Inoltre, nel marzo 2005, le ricorrenti denunciarono alcune irregolarità nelle procedure volte all’ottenimento dei visti, accusando gli impiegati del Consolato di aver favorito il trasferimento in Grecia, nonché il loro sfruttamento. Il procedimento avviato nei confronti di tre impiegati venne interrotto, nel febbraio 2016, poiché secondo il Tribunale non esistevano seri indizi di colpevolezza; per quanto concerne il reato di tratta, addebitato a due soggetti, venne dichiarata la prescrizione.

Le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 4 della Convenzione, considerata l’inottemperanza dello Stato greco alle proprie obbligazioni, consistenti nella penalizzazione e condanna del fenomeno della tratta di esseri umani.

La Corte esamina la causa sotto quattro differenti profili: anzitutto, sull’esistenza di un quadro giuridico appropriato all’epoca dei fatti, si rilevano alcune carenze fino all’entrata in vigore della L. n. 3064/2002. Il codice penale greco, infatti, condannava la coercizione alla prostituzione ma non prevedeva, come fattispecie indipendente, il reato di tratta di persone finalizzata allo sfruttamento della prostituzione. Ciò ha portato alla prescrizione del reato nei confronti di due soggetti. La Corte Edu afferma dunque che il sistema vigente all’epoca dei fatti non può considerarsi né sufficiente né efficace, non solo per quanto riguarda la condanna delle condotte, ma soprattutto per quanto concerne la prevenzione della formazione di tali organizzazioni. Si riconosce, tuttavia, che la nuova legislazione ha riformato positivamente il quadro giuridico.

Il secondo profilo attiene alle misure operative, adottate dalle autorità, per proteggere le vittime della tratta di esseri umani: i giudici della Corte evidenziano che non vi sono state irregolarità nella tutela delle vittime. Mentre, in merito all’efficacia delle indagini di polizia e dei procedimenti in tema di sfruttamento, la Corte ammonisce le autorità interne per l’eccessiva durata dei procedimenti; carenza che ha impedito il raggiungimento del livello di diligenza richiesto: da un lato, la durata di sette anni e nove mesi del procedimento che ha coinvolto una delle ricorrenti, dall’altro, la durata di nove anni e tre mesi del procedimento che ha visto coinvolto le altre due ricorrenti. Il profilo processuale dell’art. 4 è stato dunque violato, secondo i giudici di Strasburgo, poiché i soggetti non hanno beneficiato di un’adeguata attività investigativa.

In ultimo, la Corte esamina l’efficacia dei procedimenti volti all’ottenimento del visto ed evidenzia alcune mancanze da parte delle autorità, le quali avrebbero dovuto prestare una particolare diligenza di fronte ad accuse di tale gravità, specialmente perché coinvolti agenti dello Stato. Inoltre, l’eccessiva durata dei procedimenti relativi al visto ha determinato la sopravvenuta prescrizione nei confronti di due soggetti accusati di traffico di esseri umani.

La Corte Edu, dunque, rileva che vi è stata violazione dell’art. 4 della Convenzione, poiché le autorità non hanno assicurato il grado necessario di diligenza richiesto dalla disposizione.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 16 luglio 2019 rich. nn. 12200/08 (e altre due richieste), Zhdanov e altri c. Russia

Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo), 11 (libertà di riunione e di associazione), 14 (divieto di discriminazione), promozione dei diritti delle persone LGBT, ingerenza dello Stato.

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione degli artt. 6 § 1, 11 e 14 della Convenzione.

 

La causa Zhdanov e altri c. Russia nasce dalla denuncia di tre organizzazioni russe (Rainbow House, Movement for Marriage Equality e Sochi Pride House) e quattro cittadini russi, fondatori o presidenti di tali organizzazioni. Le prime due operano per la difesa dei diritti LGBT; la terza per lo sviluppo delle attività sportive rivolte a persone LGBT e alla lotta contro l’omofobia.

Nel periodo intercorrente tra il 2006 e il 2011, le organizzazioni inviarono richieste al fine di essere registrate; tuttavia, le autorità competenti, così come le giurisdizioni nazionali, rigettarono le loro domande, allegando la presenza di vizi di forma, nonché il contrasto tra gli obiettivi delle stesse, ossia la promozione dei diritti degli LGBT, e i «valori morali della società», che si consideravano compromessi. Le autorità affermarono inoltre che il riconoscimento delle organizzazioni avrebbe comportato un calo demografico, oltre a provocare una discordia sociale o religiosa. Alla prima richiesta di riconoscimento, la Rainbow House ricevette una risposta di rigetto, a causa dello scopo dell’associazione e di alcune irregolarità nella procedura. Alla seconda richiesta, eliminati i vizi formali, le autorità rigettarono nuovamente la domanda: esito poi confermato dai tribunali, che tuttavia non diedero rilievo agli errori di forma, ma alla presenza di elementi di estremismo («some provisions of its articles of association contained indications of extremism», § 29).

Allo stesso modo, le associazioni Movement for Marriage Equality e Sochi Pride House videro rigettate le loro richieste di riconoscimento per vizi di forma, nello specifico perché presenti termini inglesi nelle loro denominazioni. I tribunali confermarono le decisioni di rigetto motivando, specialmente per quanto concerne il primo ente, che la promozione della legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso era incompatibile con «l’etica stabilita», la politica dello Stato e il diritto nazionale («established morality, with the State policy of protecting the family, motherhood and childhood and with national law», § 36). Infine, l’appello depositato dall’associazione Sochi Pride House venne rigettato per tardività del ricorso.

Le organizzazioni ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 6 § 1, 11 e 14 della Convenzione, poiché il rigetto delle richieste di riconoscimento ha pregiudicato la loro libertà di associazione e ha costituito una forma di discriminazione.

Anzitutto, la Corte premette che è costretta a dichiarare la domanda di Alekseyev irricevibile, poiché, in seguito a un’altra pronuncia del 2018, il cittadino russo ha pubblicato sui social network immagini e affermazioni denigratorie nei confronti dei giudici della Corte di Strasburgo. Nonostante i richiami, Alekseyev non ha ritirato le accuse, oltraggiando così l’istituzione.

Sull’art. 6, la Corte sottolinea come la Sochi Pride House abbia rispettato le condizioni per appellare la sentenza di primo grado: l’associazione ha presentato il ricorso a distanza di un mese dalla decisione e tale ricorso è stato rigettato per tardività, senza che sia stato fornito alcun dettaglio in merito al calcolo del termine del deposito. Di conseguenza, la Corte afferma che vi è stata violazione del diritto a che sia garantito l’accesso a un tribunale ex art. 6 § 1.

Il rifiuto di registrare le organizzazioni ha costituito un pregiudizio alla libertà di associazione delle ricorrenti. Tale ingerenza da parte dello Stato può essere giustificata qualora sia stabilito dalla legge; legge che tuttavia deve perseguire uno scopo legittimo. La Corte ritiene che le motivazioni allegate dal Governo non costituiscano finalità legittime, ad eccezione della prevenzione dell’odio e dell’ostilità, preso atto che, secondo le autorità, la maggioranza della popolazione russa condanna l’omosessualità e, di conseguenza, i ricorrenti avrebbero potuto subire aggressioni. Tuttavia, i giudici della terza sezione ricordano che il compito delle autorità consiste anche nell’assicurare la tolleranza tra gruppi che sostengono idee e posizioni divergenti: avrebbero dovuto adottare misure che permettessero ai ricorrenti di svolgere le proprie attività, senza temere ripercussioni. Hanno perciò eliminato il pericolo per l’ordine pubblico negando a priori il diritto di associazione di tali organizzazioni. La limitazione dell’art. 11 non è dunque stata considerata necessaria «in una società democratica».

In ultimo, la Corte richiama il principio di non discriminazione, più volte invocato di fronte a trattamenti differenziati sulla base dell’orientamento sessuale. È chiaro, afferma la Corte, che lo scopo di tali enti, ossia la promozione dei diritti delle persone LGBT, ha costituito il motivo di rigetto delle loro domande: i ricorrenti hanno subito una differenza nel trattamento non giustificata.

La Corte Edu ha dunque riconosciuto che vi è stata violazione degli artt. 6 § 1, 11 e 14, in combinato disposto con l’art. 11, della Convenzione.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 2 luglio 2019 rich. nn. 27057/06 (e altre due richieste), Gorlov e altri c. Russia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo), sistema di videosorveglianza, rispetto della dignità del detenuto, potere arbitrario dell’amministrazione penitenziaria.

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione.

 

La causa, Gorlov e altri c. Russia, concerne le condizioni di detenzione e il diritto al rispetto della vita privata all’interno degli istituti detentivi. I ricorrenti, cittadini russi, alcuni tuttora in stato detentivo, lamentano la violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione.

Il sig. Gorlov è ad oggi detenuto nel carcere di Minusinsk e denuncia la presenza di una telecamera di sorveglianza, all’interno della propria cella, che permette alle guardie un controllo ininterrotto. La telecamera, collocata sopra la porta, riuscirebbe a inquadrare tutta la cella, ad eccezione del bagno, campo coperto da un pannello. Il sig. Vakhmistrov, detenuto nello stesso carcere, dal 2007 al 2010, afferma che durante l’inverno non gli era concesso di uscire all’aria aperta perché non gli venivano forniti stivali adatti, nonostante le molteplici richieste. In aggiunta, dopo il trasferimento all’istituto penitenziario di Krasnoïarsk, venne installata una telecamera di sorveglianza nella sua cella e la guardia responsabile della vigilanza era una donna.

Allo stesso modo, il sig. Sablin, detenuto nella regione di Zabaykalski, era sottoposto a un controllo costante mediante una telecamera posizionata sopra la porta, la quale riprendeva interamente la cella e parte del bagno, nonostante la presenza di un pannello. Quest’ultimo ricorse al tribunale per denunciare la sorveglianza ininterrotta della sua cella, poiché pratica umiliante e contraria ai suoi diritti. Tuttavia, il tribunale di primo grado, e successivamente anche in appello, nel luglio 2013 rigettò la richiesta affermando che non si configurava un pregiudizio alla dignità del detenuto, poiché le guardie avrebbero agito nei limiti delle loro funzioni.

La Corte Edu, in merito alla violazione dell’art. 8, valuta se l’ingerenza da parte dello Stato fosse o meno «prevista dalla legge», così come richiesto dal c. 2. Vi sono numerose disposizioni di legge interne che permettono alle amministrazioni penitenziarie di ricorrere a sistemi di videosorveglianza, senza però specificarne le condizioni (p.e. la durata, i luoghi da vigilare ecc.). I giudici della terza sezione non ritengono dunque compatibili le leggi in vigore all’esigenza della «qualità di legge»: le leggi interne davano infatti un potere arbitrario all’amministrazione, non fornendo alcuna garanzia contro gli abusi da parte della pubblica autorità. La Corte afferma quindi che tali misure non erano «previste dalla legge», come richiesto ex art. 8 c. 2.

Sull’art. 13, in combinato disposto con l’art. 8, i giudici di Strasburgo riconoscono la mancanza di uno strumento che consentisse ai detenuti di ottenere una valutazione di proporzionalità del potere di vigilanza, alla luce del loro diritto al rispetto della vita privata. Non essendoci dunque una via di diritto per giudicare la particolare condizione a cui sono stati sottoposti i detenuti, la Corte ritiene che non siano state garantite vie di ricorso interne effettive per assicurare il diritto sancito dall’art. 13.

La Corte Edu riconosce, dunque, che vi è stata violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione.

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Approfondimenti:

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 4 luglio 2019 rich. nn. 43842/11, Zappa S.A.S. c. Italia

Oggetto: articolo 1 del Protocollo 1 (protezione della proprietà), ingerenza dello Stato, legittimità dell’ingerenza, proporzionalità, demanio pubblico, indennizzo, giusto bilanciamento.

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 1 Protocollo 1 alla Convenzione.

 

La società Zappa S.a.s., con sede sociale a Padova, con un atto datato 14 luglio 1972 divenne proprietaria di una delle numerose valli da pesca della provincia di Venezia, ossia Valle Zappa; valle che permette, tra le altre attività, l’allevamento ittico. L’Intendenza della Finanza di Padova contestò, a partire dal 1989 nei confronti di molteplici società, la proprietà di tali valli da pesca, perché appartenenti al demanio pubblico, richiedendo il pagamento di «un’indennità per i danni causati dall’occupazione sine titulo» (§ 7).

Da un lato, la società ricorrente chiede alla Corte Edu di riconoscere l’illegittimità della negazione del suo diritto di proprietà, dall’altro, il Governo italiano afferma che non vi è stato alcun pregiudizio al diritto di proprietà della società Zappa.

I giudici della prima sezione rimandano ai principi generali enumerati in una precedente sentenza: Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.A. c. Italia (nello specifico, §§ 62-78). La Corte, nella sentenza appena citata, valuta la legittimità e la proporzionalità dell’ingerenza dello Stato in una circostanza simile a quella del presente caso. Anzitutto considera la privazione della proprietà, operata nei confronti della Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.A., un’ingerenza da parte dello Stato; tale ingerenza però deve rispettare le «condizioni previste dalla legge». Le giurisdizioni interne hanno considerato il territorio in questione, un bacino d’acqua che comunicava con il mare, idoneo agli usi pubblici: la Corte ritiene dunque legittima la dichiarazione di demanialità del bene.

In secondo luogo, tale ingerenza è giustificata se persegue un interesse pubblico legittimo: tale condizione si considera integrata, poiché l’inclusione della Valle Pierimpiè al demanio pubblico mira a «preservare l’ambiente e l’ecosistema lagunare e [ad] assicurare la sua effettiva destinazione all’uso pubblico» (§ 67). Infine, la Corte valuta la proporzionalità dell’azione, affinché sia esaminato il giusto bilanciamento tra le «esigenze di interesse generale della comunità e gli imperativi dettati dalla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo» (§ 69). Nonostante l’art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione non garantisca il diritto a un risarcimento integrale in termini assoluti, lo Stato non può produrre un onere sproporzionato. Nel caso concreto, la Corte nota che non è stato offerto alcun indennizzo per la privazione del bene alla ricorrente; al contrario, è stata condannata al pagamento di un indennizzo per l’occupazione sine titulo della Valle Pierimpiè. Inoltre, le autorità non hanno adottato misure per ridurre l’impatto finanziario di tale ingerenza. Di conseguenza, la Corte Edu ha considerato l’ingerenza, operata senza la previsione di un indennizzo e imponendo alla ricorrente ulteriori spese, «manifestamente non proporzionata allo scopo legittimo perseguito» (§ 77).

Tenuto conto delle similitudini tra i due casi, la prima sezione della Corte Edu ritiene che, così come nella causa Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.A. c. Italia, vi è stata violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1 alla Convenzione.

https://hudoc.echr.coe.int/eng#{"itemid":["001-194186"]} (FR)

https://hudoc.echr.coe.int/eng#{"itemid":["001-195598"]} (IT)

Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.A. c. Italia: https://hudoc.echr.coe.int/eng#{"itemid":["001-146415"]}

 

 

Sentenza della Corte Edu (Grande Camera) 8 luglio 2019 rich. nn. 54012/10, Mihalache c. Romania

Oggetto: articolo 4 del Protocollo 7 (diritto di non essere giudicato o punito due volte), ne bis in idem.

La Corte Edu ha statuito la violazione dell’art. 4 del Protocollo 7 alla Convenzione.

 

Nel caso Mihalache c. Romania, deciso dalla Grande Camera della Corte Edu, un cittadino rumeno lamenta la violazione dell’art. 4 del Protocollo 7 poiché reputa di essere stato giudicato e condannato due volte per il medesimo reato; secondo il ricorrente, infatti, la riapertura del procedimento non è stata conforme ai criteri enunciati dalla disposizione della Convenzione Edu.

Il sig. Mihalache venne fermato nel 2008 dalla polizia mentre era alla guida del suo veicolo e, sottoposto a un test alcolemico, risultò positivo, ma si rifiutò di seguire le autorità per sottoporsi a un prelievo del sangue in ospedale. Nel luglio del medesimo anno, il pubblico ministero prima diede rilevanza penale alla condotta, ma successivamente, nel mese di agosto, ritenne che i fatti non raggiungessero la gravità per integrare la fattispecie penale. Gli venne dunque inflitta una sanzione amministrativa di euro 250. Poiché l’ordinanza non prevedeva alcuna possibilità di ricorso, il ricorrente pagò l’ammenda e le spese di giustizia. La procura gerarchicamente superiore, nel gennaio 2009, annullò d’ufficio l’ordinanza sostenendo l’assenza di proporzionalità tra la sanzione irrogata e il pericolo sociale astratto e concreto che i fatti avevano prodotto. Rinviato a giudizio, il ricorrente venne condannato alla pena detentiva di un anno; il ricorso in appello del sig. Mihalache venne rigettato. Nel marzo 2013, infine, il pubblico ministero chiese all’amministrazione finanziaria di procedere al rimborso dell’ammenda: nonostante il ricorrente fosse stato informato delle modalità, ad oggi non risulta aver presentato alcuna richiesta.

La Grande Camera, anzitutto, ricorda che il principio del «ne bis in idem» si compone di tre elementi: entrambi i procedimenti devono avere natura penale, devono riguardare il medesimo fatto e, infine, deve essere integrata la ripetizione delle procedure.

In merito al primo profilo, la Corte afferma che entrambe le procedure presentano carattere penale. In egual modo, viene confermato dai giudici della Corte Edu anche il secondo profilo: le due procedure vertono infatti sui medesimi fatti. Relativamente al terzo elemento la Grande Camera ricorda come la disposizione in oggetto impone il divieto di ripetizione circa i procedimenti penali già conclusi con provvedimento irrevocabile. L’ordinanza, che disponeva l’ammenda, costituisce una condanna divenuta definitiva ex art. 249 del cpp, in vigore all’epoca dei fatti. La Corte Edu sottolinea che l’unica modalità di ricorso perseguibile sia quella prevista dalla medesima disposizione, negando la possibilità di un annullamento d’ufficio, azione intrapresa dalla pubblica accusa. Di conseguenza, la riapertura del procedimento non è stata giustificata, poiché non è stata integrata la fattispecie del comma 2 dell’art. 4 Protocollo 7, la quale prevede con rigore che la riapertura del procedimento può avvenire esclusivamente se si presentano «fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente».

Costituendo l’ordinanza del 2008 una decisione definitiva ed essendo la riapertura del procedimento da parte del pubblico ministero ingiustificata, la Corte Edu riconosce che il ricorrente è stato sottoposto a due procedimenti penali riguardanti i medesimi fatti: vi è stata dunque violazione del principio del «ne bis in idem», ossia violazione dell’art. 4 Protocollo 7 alla Convenzione.

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29/11/2019
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