Le pronunce di maggio della Corte Edu qui selezionate riguardano il diniego di una licenza per esercitare attività di raccolta scommesse, nella prospettiva del diritto alla “vita privata sociale”; la legittimità della sanzione penale irrogata per aver indossato una visiera di plastica durante una manifestazione pacifica; l’equità della procedura in caso di mancata audizione dei computati.
All’origine di Versaci c. Italia, vi è il provvedimento con cui il questore nega l’autorizzazione alla raccolta di scommesse per conto di un allibratore estero, sulla base di precedenti penali o amministrativi di familiari e frequentatori del ricorrente. La Corte, con decisione non unanime, valorizza la prevedibilità del concetto di “buona condotta” grazie ai chiarimenti forniti a livello amministrativo e giurisprudenziale, nonché l’adeguatezza del controllo giurisdizionale.
In Russ c. Germania, la Corte di Strasburgo condanna il governo convenuto per la violazione della libertà di riunione. I giudici penali tedeschi non avevano sufficientemente bilanciato il diritto di manifestare con l’obiettivo di prevenire disordini; inoltre, la visiera, considerata arma di protezione, non sembra costituire una reale minaccia alla sicurezza pubblica.
In Engels c. Belgio, i giudici sovranazionali estendono il test sull’equità della mancata audizione dei testimoni dell’accusa (validato in più occasioni dalla Grande Camera) anche ai coimputati, quando la “mancanza” dipende dall’assenza non dei testimoni ma dell’imputato ricorrente.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 15 maggio 2025, n. 3795/22, Versaci c. Italia
Oggetto: artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 6 § 1 della Convenzione (equo processo) – rifiuto del questore di rilasciare al ricorrente una “licenza di pubblica sicurezza” per svolgere attività di raccolta scommesse per conto di una società straniera, ricollegando il mancato soddisfacimento del requisito di “buona condotta” al contesto familiare e sociale del ricorrente – concetto di “buona condotta” sufficientemente prevedibile alla luce dei chiarimenti forniti a livello amministrativo e giurisprudenziale – provvedimento adeguatamente motivato da parte del questore – controllo giurisdizionale sufficiente a garantire l’individuo contro ingerenze arbitrarie da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, titolare di un ampio potere discrezionale nel rilascio delle licenze.
Nell’ottobre 2014, il ricorrente avviava un’attività di ricevitoria di scommesse per conto di un allibratore austriaco all’epoca non consentita nello Stato convenuto (sulla mancata considerazione di questo aspetto e, più in generale, dell’evoluzione del contesto normativo e giurisprudenziale del gioco d’azzardo v. l’opinione in parte dissenziente in parte concorrente del giudice Sabato). Invero, pochi mesi dopo, la società estera aderiva alla procedura di regolarizzazione prevista per i soggetti che offrivano scommesse con vincite in denaro in Italia senza collegamento al totalizzatore nazionale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, introdotta dall’art. 1, co. 643, legge 23 dicembre 2014, n. 190. In attuazione di tale disciplina, il ricorrente presentava alla Questura di Reggio Calabria la domanda di rilascio di titolo abilitativo ai sensi dell’art. 88 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (r.d. 18 giugno 1931, n. 773).
La domanda veniva respinta.
Nel preavviso di rigetto e nel successivo provvedimento di diniego, veniva rilevata la mancanza del requisito di “buona condotta” previsto dal T.U.L.P.S, a motivo dei procedimenti penali pendenti per traffico di stupefacenti a carico del fratello del ricorrente e delle frequentazioni di quest’ultimo con persone attinte da precedenti penali per reati analoghi, nonché da varie segnalazioni presso il Centro Elaborazioni Dati (CED) interforze.
In considerazione di tali elementi, il questore riteneva che il ricorrente non disponesse dei requisiti di affidabilità morale e personale richiesti per il rilascio della licenza, paventando il rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività di raccolta scommesse ovvero il suo utilizzo quale strumento per il riciclaggio di proventi illeciti.
Il ricorrente proponeva, quindi, ricorso al TAR, sostenendo che il provvedimento amministrativo in parola fosse fondato su elementi generici e che, peraltro, non fosse stata tenuta in considerazione la totale assenza di precedenti penali o di polizia a suo carico. A seguito del rigetto del TAR, il ricorrente si rivolgeva, poi, al Consiglio di Stato, che parimenti rigettava il ricorso, e, infine, alla Corte europea dei diritti dell’uomo, denunciando la violazione degli artt. 8 e 6 § 1 della Convenzione.
In punto di ammissibilità, la Corte respinge le eccezioni formulate dal Governo, relative al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e all’inapplicabilità dell’art. 8 CEDU alla vicenda in esame. Rispetto alla prima, la Corte ritiene che il ricorrente abbia sollevato dinanzi alle autorità interne, almeno nella sostanza, le medesime questioni convenzionali sottoposte al suo esame. Quanto alla seconda, la Corte sostiene che, sebbene l’art. 8 non conferisca alcun diritto generale di scegliere una determinata professione, nel caso specifico il provvedimento di rifiuto era legato alla vita privata del ricorrente, poiché la decisione si basava su legami sociali e familiari, e, dunque incideva sul «diritto di ciascun individuo di avvicinarsi agli altri per stabilire e sviluppare relazioni con loro e con il mondo esterno, cioè il diritto a una “vita sociale privata”» (critica rispetto a tale impostazione, l’opinione del giudice Sabato).
Nel merito, con riguardo al primo parametro invocato e, nello specifico, al requisito per cui la misura limitativa deve essere prevista dalla legge, i giudici europei, dopo aver dato conto della giurisprudenza costituzionale in merito alla vaghezza del concetto di «buona condotta» (per una diversa lettura, v. ancora l’opinione del giudice Sabato), osservano come, nonostante tale formula possa effettivamente generare incertezza e ambiguità applicative, i chiarimenti operati dalla Circolare n. 1763/1996 del Ministero dell’Interno e, soprattutto, le specificazioni emergenti dalla elaborazione del Supremo giudice amministrativo, abbiano contribuito a renderla sufficientemente prevedibile.
I giudici europei evidenziano, poi, che è essenziale considerare le garanzie procedurali che presidiano l’individuo da ingerenze arbitrarie delle autorità amministrative, le quali variano, almeno in parte, in funzione della natura e della portata dell’ingerenza, nonché dal contenuto tecnico o discrezionale della decisione impugnata, dalla rilevanza dei diritti coinvolti e dagli obiettivi perseguiti dalla legge. In tale prospettiva, la sentenza per un verso chiarisce, come, sebbene la regolamentazione del gioco d’azzardo – in considerazione della natura del settore – richieda una vigilanza particolare e implichi un tipico esercizio di discrezionalità amministrativa, concetti vaghi come quello di “buona condotta” debbano comunque essere sottoposti a un attento esame giudiziario, visto l’ampio margine di discrezionalità del questore. Per l’altro, rileva che la decisione amministrativa in questione poteva essere impugnata davanti al tribunale amministrativo e al Consiglio di Stato, dinanzi ai quali il ricorrente aveva potuto contestare le motivazioni su cui era fondato il diniego e presentare le proprie osservazioni, concludendo che il sistema di controllo predisposto era idoneo a prevenire interferenze arbitrarie dell’autorità amministrativa.
Accertata, poi, l’assenza di contestazioni circa il requisito della legittimità dello scopo della misura, ossia la prevenzione dell’ordine pubblico e della criminalità, la Corte EDU esamina quello della sua necessità in una società democratica.
In proposito, il Giudice di Strasburgo rammenta, anzitutto, che le autorità nazionali possono legittimamente impedire a determinati individui di svolgere professioni in settori particolarmente critici, purché siano rispettati specifici requisiti (cfr. parere consultivo [GC], richiesta n. P16-2023-001, Conseil d’État del Belgio). Segnatamente, le autorità devono effettuare un’analisi del rischio che tenga conto della natura del ruolo specifico in questione, attraverso una valutazione individuale e approfondita relativa, in primo luogo, alla situazione personale dell’interessato, senza però trascurare il contesto generale. Inoltre, deve sussistere un rischio reale, serio e rilevante e non meramente ipotetico, che non può essere considerato conforme a un bisogno sociale impellente e non potrebbe giustificare misure preventive. In questa prospettiva, le autorità sono tenute, poi, a valutare l’entità potenziale delle conseguenze derivanti dalla concretizzazione del rischio. Infine, sia la valutazione individuale del rischio sia quella della sua portata devono essere soggette a controllo da parte di un’autorità giudiziaria indipendente, che deve poter condurre uno scrutinio effettivo della misura.
Passando all’analisi della vicenda sottopostale, la Corte premette come l’ampiezza del margine di discrezionalità accordato alle autorità nazionali dipenda dalla natura degli interessi in gioco e dalla gravità dell’ingerenza. In proposito, rileva che l’art. 8 della Convenzione non riconosce, in quanto tale, un diritto all’ottenimento di una licenza per il gioco d’azzardo e che il rifiuto di concedere al ricorrente una licenza di pubblica sicurezza abbia inciso sulla sua vita privata solo nella misura in cui la decisione delle autorità nazionali si fondava su motivi connessi alla sua vita privata. La discrezionalità di cui godevano le autorità nell’ambito in esame era, pertanto, ampio. In questa prospettiva, la Corte soggiunge di essere consapevole del contesto regionale specifico e della necessità per le autorità nazionali di assicurare che la licenza di pubblica sicurezza venga concessa solo a soggetti affidabili, in grado di evitare rischi di riciclaggio di denaro o altri reati nell’ambito dell’attività di gioco.
Tanto chiarito, la Corte procede a valutare (i) se il questore avesse fornito motivazioni pertinenti e sufficienti per il rifiuto, (ii) se il provvedimento fosse stato sottoposto a un controllo giurisdizionale adeguato.
In merito alla prima questione, la Corte, pur rilevando la stringatezza delle argomentazioni del provvedimento questorile (anche su questo aspetto, v. ancora l’opinione del giudice Sabato, con particolare riferimento al rapporto tra preavviso di rigetto e successivo provvedimento di rigetto), conclude che l’autorità di pubblica sicurezza aveva basato il rifiuto su una valutazione adeguata dei fatti e fornito motivazioni pertinenti e sufficienti per giustificare il diniego, sottolineando, in modo particolare, la natura specifica dell’attività oggetto della licenza e la rilevanza del contesto geografico nella valutazione condotta dalle autorità nazionali, le quali sono «in linea di principio meglio posizionate rispetto a una corte internazionale per valutare i bisogni e le condizioni locali».
Quanto all’adeguatezza del controllo giurisdizionale, la Corte ricorda, in primo luogo, che, già in casi precedenti – sebbene su questioni di natura differente – ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’art. 6 § 1 della Convenzione, il controllo giurisdizionale esercitato dai tribunali amministrativi italiani. Nel caso di specie, poi, la Corte osserva che la decisione impugnata è stata sottoposta a un esame effettivo in due gradi di giudizio, nel corso dei quali sono state puntualmente esaminate le argomentazioni esposte dal ricorrente e che non ricorresse, dunque, una situazione di palese arbitrarietà nell’operato dalle autorità interne, tale da indurre il giudice sovranazionale a metterne in discussione l’interpretazione del diritto nazionale.
La Corte respinge altresì la doglianza formulata dal ricorrente ai sensi dell’art. 6 § 1 della Convenzione. Invero, come ribadito in precedenti occasioni, anche laddove nella fase amministrativa fossero effettivamente riscontrabili talune carenze, non può essere rilevata alcuna violazione della Convenzione se la decisione che ne scaturisce è oggetto di un controllo successivo da parte di un organo giurisdizionale che garantisca le tutele previste dal parametro convenzionale invocato, come nel caso di specie.
Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 20 Maggio 2025, n. 44241/20, Russ c. Germania
Oggetto: art. 11 della Convenzione (libertà di riunione e di associazione), alla luce dell’art. 10 (libertà di espressione) – condanna penale per aver indossato una visiera di plastica durante una manifestazione pacifica, perché in violazione del divieto nazionale di “armi protettive” durante le assemblee pubbliche all’aperto – mancanza di motivazioni sufficienti – mancato bilanciamento tra il diritto del ricorrente e gli obiettivi legittimi perseguiti – interferenza non necessaria in una società democratica.
Il caso riguarda un cittadino tedesco che partecipò a una manifestazione anticapitalista contro l’inaugurazione della nuova sede della Banca Centrale Europea a Francoforte. Quel giorno si tennero diverse proteste in varie zone della città, alcune delle quali sfociarono in episodi violenti. La manifestazione a cui partecipò il Ricorrente era intitolata “colorata, rumorosa – ma pacifica” (bunt, laut – aber friedlich). Indossava una visiera di plastica improvvisata che copriva fronte e occhi, tenuta da un elastico e recante la scritta “smash capitalism”.
A distanza di un anno, il ricorrente riceveva un decreto penale per aver indossato la visiera durante la manifestazione. Dopo essersi opposto, fu condannato e multato per aver violato la legge sulle assemblee pubbliche e i cortei (Versammlungsgesetz), che vieta di portare armi di protezione. Tali armi comprendono oggetti, attrezzature o costruzioni artigianali in grado di respingere attacchi o misure coercitive, anche se non armi in senso tecnico.
Il tribunale di Francoforte ritenne che la visiera, per quanto semplice, potesse proteggere gli occhi dallo spray urticante e quindi fosse un’arma di protezione. Diversamente, se l’avesse indossata sulla nuca, sarebbe stata considerata solo un’espressione di opinione. Il ricorrente presentava ricorso avverso tale decisione di fronte al tribunale regionale di Francoforte e successivamente alla Corte d’appello. Entrambi i ricorsi venivano respinti. La Corte costituzionale federale rifiutava di esaminare il reclamo senza fornire motivazioni.
Di fronte alla Corte di Strasburgo, il ricorrente invocava gli artt. 7 (nessuna pena senza legge), 10 (libertà di espressione) e 11 (libertà di riunione e associazione), sostenendo che la condanna penale per aver indossato la visiera durante una manifestazione pacifica, e la motivazione fornita, avevano violato i suoi diritti convenzionalmente protetti, in quanto l’interpretazione data al concetto di “arma di protezione” fosse eccessivamente rigida e la visiera non fosse in realtà vietata dalla legge tedesca.
La Corte analizza il caso sotto l’art. 11, in combinato disposto con l’art. 10, poiché il motivo della sanzione riguardava l’uso della visiera come “arma di protezione” e non il contenuto scritto nell’elastico a cui la maschera era agganciata.
Rispetto all’esistenza dell’interferenza, la Corte valuta che nonostante vi fossero stati episodi di violenza a Francoforte il giorno della manifestazione, non era stato dimostrato che questi fossero avvenuti nella manifestazione pacifica a cui il ricorrente aveva partecipato, né che lui o gli organizzatori intendessero promuovere violenza.
Con riguardo invece ai requisiti di giustificazione dell’interferenza, la Corte rileva che la misura era formalmente “prevista dalla legge”. Infatti, sebbene la legge tedesca non fornisca una definizione precisa di “arma di protezione”, i materiali legislativi accessibili pubblicamente fornivano definizioni ed esempi in linea con l’interpretazione data dai giudici nazionali, che quindi non poteva dirsi essere arbitraria.
Al contrario, la misura difettava del requisito della necessità in una società democratica. Innanzitutto, la visiera, qualificata come “arma di protezione”, era costituita da semplice plastica rigida e da un elastico. Inoltre, il ricorrente non era stato ammonito durante la manifestazione. Anche se la multa era contenuta, si trattava comunque di una sanzione penale e non amministrativa. La Corte ribadisce che le sanzioni penali richiedono una giustificazione rafforzata, e che le manifestazioni pacifiche non dovrebbero comportare simili sanzioni. I giudici devono valutare se la condanna sia proporzionata e necessaria in una società democratica. I tribunali nazionali, pur considerando la libertà di espressione, non avevano bilanciato adeguatamente la libertà di riunione con l’obiettivo di prevenire disordini, né spiegato in modo sufficiente il rischio per la sicurezza pubblica.
Per questa ragione la Corte ritiene l’interferenza non necessaria in una società democratica e lesiva dell’art. 11 della Convenzione.
In ordine alla doglianza sollevata ai sensi dell’art. 7 della Convenzione, la Corte, anche alla luce delle conclusioni sull’art. 11, dichiara quella parte di ricorso inammissibile.
Per quanto riguarda le prescrizioni relative alla riparazione dell’interferenza, la Corte afferma di non dover liquidare un’equa soddisfazione, ritenendo che la mera constatazione della violazione costituisce di per sé una sufficiente soddisfazione. Tuttavia, precisa che la riapertura del procedimento penale sarebbe l’approccio più appropriato per un’effettiva riparazione in integrum.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 27 Maggio 2025, n. 38110/18, Engels c. Belgio
Oggetto: art. 6 §§ 1 e 3 della Convenzione (equo processo – aspetto penale – audizione dei testimoni) –
dichiarazioni incriminanti rese da coimputati in fase istruttoria e confermate dinanzi al giudice di primo grado – assenza sia dell’imputato che del suo difensore nella maggior parte delle udienze – rigetto da parte della Corte d’Appello della richiesta del ricorrente di interrogare in udienza i coimputati – decisività delle dichiarazioni dei coimputati nell’ambito della decisione di appello.
Il ricorrente veniva sottoposto a procedimento penale a seguito di denunce anonime per falso, corruzione al fine d’influenzare appalti pubblici e associazione a delinquere. Durante le indagini, alcuni coimputati indicavano il ricorrente come perno di un sistema corruttivo operante da diversi anni.
Nel processo, il difensore del ricorrente si presentava alla prime tre udienze, il ricorrente solo alla terza, ma nessuno dei due in sede di interrogatorio dei coimputati. Il Tribunale emetteva sentenza di condanna, cui il ricorrente inutilmente si opponeva. L’appello si svolgeva previa separazione del procedimento del ricorrente da quello dei coimputati e senza partecipazione del primo, per concludersi nuovamente con la conferma di condanna. Nell’opporsi alla decisione di appello, il ricorrente eccepiva l’inutilizzabilità delle dichiarazioni proprie e dei coimputati, rese in corso di indagini senza la presenza dell’avvocato; in subordine, ne contestava l’attendibilità e chiedeva una nuova audizione. La Corte di appello, pur escludendo le dichiarazioni di chi aveva lamentato l’assunzione delle medesime in assenza dell’avvocato, ne manteneva altre e confermava la condanna. Da ultimo, la Corte di cassazione rigettava il ricorso.
Dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo il ricorrente lamentava l’iniquità del processo penale a suo carico ai sensi dell’art. 6 §§ 1 e 3 (d) della Convenzione.
Nel merito, la Corte ricorda il “significato autonomo” del termine “testimone” ai sensi della Convenzione, comprensivo anche della figura del coimputato, e la necessità di verificare l’equità del processo nel suo complesso, soppesando i diritti di difesa con l’interesse pubblico e delle vittime al perseguimento del colpevole. A tal fine, richiama il test, validato da diverse pronunce della Grande Camera, sull’equità in caso di mancata audizione dei testimoni dell’accusa (Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito e Schatschaschwili c. Germania), test a tre livelli in cui la Corte si chiede (i) se esiste un buon motivo per l’assenza, (ii) se la prova non verificata è unica o decisiva, (ii) se soccorrono diversi fattori procedurali di bilanciamento.
Nel caso di specie, la mancata audizione dei testimoni dell’accusa è avvenuta a causa non dell’assenza di questi ultimi ma del ricorrente, sicché la Corte ritiene di dover riadattare il sopra menzionato test.
In ordine al buon motivo per la mancata audizione in sede di opposizione, i giudici avevano ritenuto la rinnovazione non necessaria. Siffatto elemento deve essere considerato alla luce del (pacifico) ruolo determinante delle dichiarazioni per l’esito del processo. Con riguardo agli elementi compensativi, la Corte rileva che la separazione del procedimento del ricorrente da quello dei coimputati ha privato il primo della possibilità di confronto; d’altronde, il fascicolo contiene alcuna richiesta di rinvio da parte del difensore per ottenere il confronto, benché in primo fosse possibile; invero, la richiesta di audizione è pervenuta solo nella fase finale del procedimento. Considerata la possibilità offerta al ricorrente di contestare, sia in fase di indagini che dibattimentale, le dichiarazioni a suo carico, considerata l’ampiezza della pertinente motivazione, la Corte esclude l’iniquità della procedura.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa