Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Diritti e castighi

di Michele Passione
avvocato del Foro di Firenze

«La dignità umana non si acquista per meriti e non si perde per demeriti. Dignità e persona coincidono: eliminare o comprimere la dignità di un soggetto significa togliere o attenuare la sua qualità di persona umana. Ciò non è consentito a nessuno e per nessun motivo[1]».

Muovendo da questa considerazione e prospettiva, e riprendendo le fila di un discorso risalente nel tempo[2], è possibile commentare brevemente l’ordinanza emessa il 5 agosto u.s. dal Tribunale di sorveglianza di Torino, che può leggersi qui in allegato; prima di passarla rapidamente in esame, non solo per la soluzione offerta nel caso di specie, ma per le prospettive che potrebbe aprire, proviamo a riavvolgere il nastro, spigolando qua è là su alcuni precedenti.

Sono passati ormai quattordici anni da quando il Magistrato di sorveglianza di Lecce, con ordinanza del 9 giugno 2011[3], adottò un provvedimento definito «assolutamente nuovo nel panorama giurisprudenziale italiano», che tuttavia (oltre ad esitare in un risarcimento quantificato in soli € 220,00) rimase isolato, pur essendo stato richiamato (come eccezione) nella sentenza Torreggiani e altri c. Italia[4]. Ed infatti, a chiudere ogni spazio per via giurisprudenziale intervenne la Corte di legittimità (sent.n.4772 del 15 gennaio 2013, Sez. I), ritenendo che la materia in questione fosse riservata agli organi della giustizia civile.

Pur non essendo rimasta affatto inosservata in dottrina e tra i pratici[5] l’ordinanza citata, ed anzi costituendo l’occasione per approfondite analisi anche di tipo comparatistico,  si è così dovuto attendere l’introduzione del reclamo giurisdizionale, ex art. 35 bis o.p., e del rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti dei soggetti detenuti o internati, ex art. 35 ter o.p., per poter (provare a) garantire protezione e tutela ai diritti dei detenuti, raccogliendo (tardi e male) il monito del Giudice delle leggi (sent.n.26/1999).

Tardi e male, abbiamo detto[6], giacché sebbene l’art.35 ter o.p. sia stato introdotto per effetto di un’accertata violazione sistemica delle condizioni detentive nelle carceri italiane, si è assistito ad una declinazione del tema in termini catastali, perdendo di vista il cuore del problema; ed infatti, con la sua solita lucida analisi, particolarmente feconda nella prospettiva alsaziana, Vladimiro Zagrebelsky, che da pochi giorni ci ha lasciato, ebbe modo di chiarire[7] che «un diritto fondamentale, tra i più fondamentali, viene quindi trattato come un diritto qualunque, la cui violazione è monetizzabile. L’intenzione di estendere la protezione si traduce nella riduzione della natura e posizione del diritto. La sua banalizzazione, appunto, che, una volta avvenuta, diventa caratteristica del diritto che ne è stato colpito…la confusione di piani è deleteria e frustrante quando porti alla constatazione dell’inefficacia della protezione giudiziaria».

Tra i diritti fondamentali, manco a dirlo, c’è quello alla salute.

Certo, lo sappiamo, il carcere è un posto dove anche se entri sano ti aprono una cartella clinica, e dunque il concetto di salute quale diritto fondamentale indicato in questi termini dall’OMS («uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto l’assenza di malattia o infermità») è una pura illusione. E tuttavia, nella sopra citata ordinanza salentina quel Giudice affermava come «appaia assolutamente pacifico che all’ingresso del circuito penitenziario il detenuto si vede riconosciuto dall’ordinamento giuridico nei confronti dell’amministrazione penitenziaria un patrimonio di situazioni soggettive meritevoli di tutela». Sembra scontato, ma non è affatto così, tanto più in presenza di dati quali quelli che, al 31 luglio scorso, indicano un tasso di sovraffollamento nazionale pari al 122% sui posti regolamentari e al 134% su quelli effettivamente disponibili (in ben 62 istituti il sovraffollamento supera il 150%, e in 8 casi addirittura il 190%). Mentre scriviamo, il numero dei suicidi accertati in carcere è pari a 57).

Ed infatti, che il numero di posti in rapporto alle presenze costituisca un fattore incidente sulla salute e sulle condizioni di vita più in generale dei reclusi veniva ancora una volta evidenziato nell’ordinanza richiamata, laddove si affermava (pur non ritenendosi violato l’art.3 CEDU) che «la presenza di un trattamento degradante (ill-treatment) implica sempre la presenza di una lesione della dignità umana. Una simile eventualità può essere generata anche dal sovraffollamento (overcrowding)».

L’insistito richiamo al precedente di merito poggia sul legame in allora disegnato tra overcrowding e percorso rieducativo (ritenendosi in quel caso violato, per effetto delle condizioni detentive, l’art.27, comma 3, Cost.), all’evidenza vanificato dalle condizioni di sovraffollamento (che, è bene sempre ricordarlo, non costituiscono una calamità naturale, ma sono il precipitato di precise e scellerate scelte politiche); scriveva ancora quel Giudice che «quanto più il Legislatore decide di premere sul pedale della carcerizzazione, tanto più deve assicurare che il luogo in cui la stessa si realizza mantenga la vocazione costituzionale impressa dall’art. 27 Cost., a pena di rottura di quel dialogo tra singolo e collettività, che si connota per un necessario mutuo soccorso nei termini fissati dagli artt. 2 e 3 Cost.».

Si affacciava dunque, certo in una stagione diversa dall’attuale, ove il panpenalismo ormai dilaga (a quando l’introduzione del reato di «manipolazione emotiva e psicologica»? – cfr. ddl n. 1515 Senato), una relazione tra condizioni detentive e percorsi di inclusione sociale che oggi appare ormai relegata nell’angolo, attenti come siamo a contare i morti senza chiedersi perché accada.

Di più; si è di recente perfino prospettato che il sovraffollamento possa essere fattore utile a impedire i suicidi[8], senza che l’Autorità di garanzia abbia battuto ciglio, anzi affrettandosi a smentire se stessa[9], dichiarandosi su numeri e soluzioni prospettate «in linea con quanto rilevato dal Ministero della Giustizia».

Poste queste premesse, è dunque opportuno segnalare i passaggi di maggior interesse contenuti nell’ordinanza torinese, che come un temporale estivo ha scosso (per un attimo?) l’aria ferma e malata della realtà penitenziaria.

Innanzitutto un dato: col provvedimento de quo il Tribunale ha ordinato l’espiazione della pena detentiva residua (il fine pena è indicato al 15.6.2027) in regime di detenzione domiciliare presso l’abitazione familiare, ai sensi dell’art. 47 ter, comma 1, lett. c), o.p., senza indicare un termine di durata.

Come si vedrà nel proseguo, per quanto l’indicazione del termine sia posta al comma 1 ter (che fa rinvio alle ipotesi di cui agli artt. 146 e 147 c.p.), e non al comma 1, lett. c), che contempla ipotesi leggermente diverse da quelle di cui al rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, nella prassi il termine viene indicato anche in dette circostanze, in ragione della possibile modifica delle condizioni di salute nel corso del tempo.

Com’è noto, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che «l’istanza di differimento facoltativo dell’esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute può essere accolta anche se, pur non sussistendo un’incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ricorra una situazione nella quale l’infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, ovvero non assicurino la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, causino al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario» (Cass. sez. I, n.27352 del 17.5.2019, Nobile, Rv.276413 – 01). 

«Sotto tale profilo, quindi, allorché il condannato è affetto da grave infermità fisica per malattia la cui prognosi può essere infausta, l’istanza di differimento, e così anche la domanda di detenzione domiciliare, deve essere considerata previa valutazione dell’aspettativa di vita del condannato stesso, poiché, quando questa è ridotta, è frustrato lo scopo del reinserimento sociale, impossibile per motivi estranei al trattamento o al comportamento del soggetto, e la sanzione diviene sofferenza inutile e contraria al senso di umanità» (Cass, n. 27352, cit.;).

Come si vede, per quanto la giurisprudenza richiamata si riferisca al finitimo istituto di cui all’art.147 c.p., anche le ipotesi di cui all’art. 47 ter, comma 1, lett. c), o.p., mettono in relazione l’aspetto sanitario e quello del reinserimento sociale; in caso di incapacità psico-fisica non è infatti possibile assegnare alla detenzione alcuna finalità costituzionalmente orientata[10].

Nel caso che ci occupa, invece (da qui la novità della pronuncia), le condizioni di salute (già valutate in via di urgenza dal Magistrato monocratico, che aveva respinto la richiesta avanzata in via provvisoria), per quanto serie, non sono state ritenute incompatibili con il regime carcerario. Ciononostante, si legge, «il Tribunale ritiene che l’attuale quadro di sovraffollamento delle strutture penitenziarie imponga una doverosa riflessione rispetto alla necessità di protrarre lo stato di detenzione per soggetti affetti da serie patologie (ancorché adeguatamente monitorate e non in fase d’immediato peggioramento)».

Si è ancora osservato che «inoltre la detenzione di un soggetto affetto da gravi patologie richiede, per garantire idonea assistenza, un impegno straordinario di risorse – anche sotto il profilo del personale di Polizia penitenziaria impegnato per accompagnare i detenuti ad effettuare le visite mediche presso strutture sanitarie esterne – risorse, allo stato, oggettivamente carenti, che possono essere recuperate soltanto sottraendole ad altri incarichi».

Per chiunque frequenti le prigioni d’Italia e abbia confidenza col male che le abita (il male provocato, il male patito, le malattie dei detenuti) è un dato assodato come la carenza dei nuclei traduzioni impedisca difatti i costanti contatti con i presidi sanitari territoriali, di cui alla lett. c) della citata disposizione ordinamentale, e dunque finisca col negare il diritto all’assistenza sanitaria, se non proprio alla salute, in una dimensione purtroppo anche meno che olistica.

Ed è pertanto alla luce di questo pragmatismo che il Collegio si è interrogato sul da farsi, ritenendo «doveroso valutare, caso per caso, se le problematiche sanitarie di cui è affetto il detenuto – esaminate congiuntamente alla tipologia di reati commessi, alla risalenza nel tempo dei fatti, all’entità della pena residua da espiare e alla pericolosità in concreto del condannato – possano giustificare un’interpretazione estensiva del disposto dell’art. 47 ter, comma 1, lett. c), o.p., conforme ai principi costituzionali di tutela della salute e umanità dell’esecuzione della pena». 

Si è ancora aggiunto come «tale riflessione ha trovato il pieno assenso del Procuratore Generale che, nell’articolato parere favorevole all’accoglimento dell’istanza esposto in udienza, ha evidenziato come il magistrato – a prescindere che svolga le funzioni di Pubblico Ministero o di Giudice – nell’assumere una decisione sia chiamato a contemperare esigenze tenendo conto anche della realtà territoriale e del momento storico in cui opera».

Vengono a mente le argomentazioni spese dall’allora primo Presidente della Corte di Cassazione Ernesto Lupo[11], che con parole come pietre (ricordando, senza citarla, l’ordinanza leccese precedentemente commentata) ricordò come «occorre riaffermare che, se il carcere non può essere un terreno avulso dallo stato di diritto, occorre che il magistrato, cui spetta di vigilare sulla coerenza tra norme di legge e regime penitenziario, eserciti con pienezza e ne veda riconosciuti i risultati dall’Amministrazione, che non può arrogarsi di decidere qual è il diritto, essendo la parte nei confronti della quale il diritto viene fatto valere».

Non è sempre così.

Con sentenza n.7246/2025, emessa il 7.11.2024, depositata il 20.2.2025, la Corte di Cassazione, Sez. I, ha respinto il ricorso proposto con il quale, inter alia, veniva chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’istituto del differimento della pena di cui all’art.147 c.p. (anche nelle forme di cui all’art.47 ter, comma 1 ter, o.p.) con riferimento alla mancanza di tutela nel caso in cui l’esecuzione della pena si svolga in condizioni contrarie al senso di umanità, nei termini di cui alla sentenza n.279 del 2013 della Corte costituzionale.

Chiudendo gli occhi su dati di realtà, invero, la Corte di legittimità ha richiamato i «rimedi interni di tutela» introdotti nell’ordinamento dopo la condanna inflitta all’Italia dalla Corte EDU, la cui inefficacia è già stata evidenziata, ed anche l’introduzione delle pene sostitutive, sull’inapplicabilità delle quali per i reati di cui all’art. 4 bis o.p. (sono circa 9.000 i detenuti per questi delitti) la Corte costituzionale ha peraltro appena preso posizione, confermando la preclusione[12].

Pur a fronte di un dato notorio (tanto e più del sovraffollamento, specularmente e meritoriamente valutato dal Tribunale di sorveglianza di Torino), qual è quello del totale disastro del carcere di Sollicciano (e della maggior parte delle carceri italiane, come già evidenziato[13]), in relazione al quale non si contano più le (inutili, in quanto inefficaci all’uopo) ordinanze di accoglimento di reclamo ex art. 35 bis o.p. o 35 ter o.p., la Corte di legittimità ha stabilito che «nel caso concreto il mancato riconoscimento della violazione dell’art.3 CEDU da parte del Tribunale di sorveglianza competente – che pure è stato adito sul punto ma non si è ancora espresso» (con reclamo precedentemente proposto ex art.35 bis o.p., con tempi di attesa di circa un anno!) «impone di ritenere che la questione non sia rilevante. Come evidenziato dal Tribunale, infatti, il differimento della pena di cui all’art.147 c.p., eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter o.p., potrebbe essere in astratto invocato come rimedio estremo al quale ricorrere nel solo caso in cui la violazione dei diritti del detenuto sia stata riconosciuta e la condizione dello stesso, interamente e favorevolmente esperito l’intero iter procedimentale stabilito dagli artt. 35 bis e 35 ter o.p., non sia mutata perché l’amministrazione rimane inadempiente all’ordine di rimuoverne le cause».

Nel frattempo i rimedi estremi sono altri (57, salvo errori) e sono i corpi, non le cause (che sono note, con buona pace del Ministro e del Garante nazionale) a dover essere rimossi, un giorno dopo l’altro.

Nel frattempo, mentre su iniziativa del Deputato Magi è stata presentata la proposta di legge avente ad oggetto Misure alternative alla detenzione in carcere nel caso di inadeguata capienza dell’istituto di pena, prima che il Parlamento (o il Governo, con decretazione di urgenza) modifichino l’art.27 Cost., aboliscano il reato di tortura, implementino ulteriormente il catalogo monstre di cui all’art.4 bis o.p., spetta a donne e uomini di buona volontà continuare a cercare una via per il rispetto dei diritti e della dignità, per l’immane concretezza che il dolore recluso sbatte in faccia tutti i giorni, poiché il tempo dell’attesa è scaduto («nel dichiarare l’inammissibilità questa Corte deve tuttavia affermare come non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia» – Corte cost, sent. n. 279/2013).

A Torino si è aperta una breccia, che potrà essere allargata per consentire di far respirare chi oggi soffoca; come sempre capita, potranno e dovranno affinarsi ulteriori aspetti motivazionali, giacché il Giudice (ogni Giudice) è chiamato ad interpretare la legge e a porsi il tema grande del bilanciamento di interessi contrapposti, individuando eventuali priorità tra essi e i limiti del proprio agire.

Si può e si deve, usando cuore e cervello, continuare a pretendere un’ermeneutica costituzionale, se del caso per tornare a Corte; perché «chi salva una vita salva il mondo intero», come si legge nella Mishnà ebraica, anche se ora in quella parte di mondo hanno dimenticato sul punto la legge biblica.


 
[1] G. Silvestri, La dignità umana dentro le mura del carcere (Intervento del Presidente Silvestri al convegno Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torregiani della CEDU, Roma, Carcere di Rebibbia, 28 maggio 2014).

[2] Diritti e castighi: storie di umanità cancellata in carcere, è il titolo del libro pubblicato nel 2009 da Donatella Stasio e Lucia Castellano per Il Saggiatore.

[3] In www.dirittopenalecontemporaneo.it, 16 settembre 2011.

[4] Sia consentito un richiamo a M. Passione, La tutela dei diritti dei detenuti, alla ricerca del principio di effettività: i casi Sulejmanovic e Slimani, in www.europeanrights.eu, 15 febbraio 2012, n. 31.

[5] Cfr. Diritti reclusi, Antigone, Quadrimestrale di critica del sistema penale e penitenziario, edizioni GruppoAbele, anno VI – n. 2-3, 2011.

[6] Volendo, M. Passione, 35 ter o.p.: effettivamente, c’è un problema, in Giurisprudenza Penale Web, 25 marzo 2017.

[7] V. Zagrebelsky, Allargare l’area dei diritti fondamentali non obbliga a banalizzarli, in Questione giustizia, 1/2015.

[8] «Paradossalmente il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella»; questa la surreale affermazione del Ministro Nordio, nell’intervista rilasciata a Virginia Piccolillo sul Corriere della sera del 17 luglio scorso.

[9] Cfr. il Comunicato stampa contenente Precisazioni del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, pubblicato sul sito dell’Autorità di garanzia l’11 agosto scorso.

[10] A tal proposito, riprendendo e approfondendo sotto prospettiva ancor più peculiare gli spunti giurisprudenziali sopra richiamati, si segnala l’ordinanza (N.123 del 2025, in G.U. del 25.6.2025, N.26) con la quale il Tribunale di sorveglianza di Bologna in data 29.4.2025 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.147 c.p., per violazione degli artt. 3 comma 2, 24, 27 comma 3, 111 comma 2 e 117 Cost., in relazione all’art.6 CEDU, nella parte in cui non prevede che «se a seguito degli accertamenti esperiti, ove occorra anche mediante perizia, risulta che lo stato psicofisico del condannato è tale da impedire la cosciente sottoposizione all’esecuzione della pena e che tale stato è irreversibile, il giudice pronuncia ordinanza di non luogo a procedere o ordinanza di doversi procedere».

[11] Inaugurazione dell’anno giudiziario 2012: la relazione del primo Presidente Lupo e gli altri interventi, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 27 gennaio 2012.

[12] Sent. n.139/2025.

[13] Per un esame complessivo del disastro penitenziario, cfr. Senza respiro, XXI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, 2025.

10/09/2025
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