1. Presentazione
Il diritto vive nei casi vivi e di essi si alimenta, con la conseguenza che i temi giuridici più complessi sono sempre illuminati e chiarificati dal caso paradigmatico che meglio li rappresenta. Così avviene anche per il “caso Almasri” che, sottratto e depurato dalle contingenze che lo circondano e dalle diverse narrazioni cui è sottoposto, ben si presta a sviluppare una riflessione su un tema cruciale per lo stesso futuro del diritto internazionale, qual è appunto quello della interpretazione nella cooperazione giudiziaria penale. La presente trattazione verrà articolata sinteticamente in: una prima parte introduttiva, volta ad esplicitare in generale le peculiarità del tema costituito dall’interpretazione nella cooperazione giudiziaria penale; una seconda parte volta a trarre alcune indicazioni metodologiche generali tratte appunto dal paradigmatico “caso Almasri”, che consente di dare concretezza e migliore intelligibilità a un argomento di straordinaria vastità e complessità come quello in esame, oltre che a evidenziarne l’eccezionale importanza pratica; una terza ed ultima parte dedicata alle prime conclusioni e alle prospettive di approfondimento.
2. Cosa vuol dire parlare di interpretazione nella cooperazione
Parlare di “interpretazione” in riferimento alla “cooperazione giudiziaria” significa evocare una serie di problemi ulteriori e peculiari rispetto a quelli che ricorrono in generale per ogni “interpretazione giuridica”. Quest’ultima (interpretazione giuridica in generale), infatti, pone essenzialmente il problema (certo non trascurabile, ma più arato) del rapporto tra testo e interprete – cioè, il problema dei vincoli derivanti dal testo normativo (“disposizione”) per chi deve attribuirgli un significato (cioè, ricavarne una “norma”) – mentre, nel caso della interpretazione nella cooperazione giudiziaria si presentano ulteriori difficoltà derivanti dalla presenza di “fonti” dell’interpretazione e di “attori dell’interpretazione, appartenenti ad ordinamenti diversi (statali, internazionali e sovranazionali): si può dire che l’interpretazione nella cooperazione è caratteristica del passaggio dal diritto statale del “territorio”, a quello degli “spazi giuridici” (che ora si sta aprendo, come ha osservato Garapon, a un vero e proprio diritto «a-spaziale» con l’avvento delle piattaforme digitali e dei social network).
Esistono infatti modelli diversificati di cooperazione – si potrebbe parlare di micro-sistemi di cooperazione, per i quali valgono limiti e criteri ermeneutico-applicativi diversi e diversificati rispetto a:
- le “fonti” che disciplinano la cooperazione, con connessi problemi di “rango” delle medesime (comprese le “disposizioni interpretative” in esse contenute: si pensi alla Convenzione di Vienna sull’interpretazione dei trattati) e di ’“adattamento” del diritto statale interno, con particolare riguardo alle differenze che corrono tra diritto internazionale generale, diritto convenzionale (dei trattati) e diritto dell’Unione europea (con i connessi problemi di cd “disapplicazione;
- i “principi” e “limiti” operanti nei diversi modelli cooperativi, a seconda che si tratti di modelli rogatoriali-estradizionali, modelli basati sul “mutuo riconoscimento” (che presuppongono il principio della reciproca fiducia tra gli Stati) con particolare riguardo agli strumenti operanti nell’ambito dell’UE (si pensi specialmente al mandato di arresto europeo o all’ordine europeo di indagine o ai provvedimenti di cd. “congelamento” e confisca di beni), ovvero modelli ibridi (quali quelli relativi alla cooperazione con le Corti penali internazionali;
- gli “attori dell’interpretazione”, a seconda che si tratti di organi lato sensu politici (dotati, cioè, di poteri di rappresentanza politica, come ad es. i Ministri), organi giurisdizionali, distinguendo tra questi quelli internazionali (ad es. CPI), transnazionali (ad es. Corte europea di giustizia), superiori (come la Corte costituzionale) e comuni (con l’ulteriore distinzione tra quelli di merito e di legittimità) e organi di polizia (distinguendo anche qui tra quelli internazionali, sovranazionali e statali), a ciascuno dei sono quali attribuite “competenze” e “limiti” connessi al ruolo ad essi riservato nell’ambito del singolo micro-sistema cooperativo, nell’ambito del quale esiste una complessa rete di prerogative esclusive (riserve di valutazione politica, monopoli interpretativi dei singoli organi giurisdizionali, etc.) e corrispondenti limiti valutativo-applicativi che ciascuno di questi attori è chiamato a rispettare.
L’interpretazione nella cooperazione si presta dunque ad evidenziare l’insufficienza e la non esaustività dei tradizionali approcci all’interpretazione: siano essi gli antiquati modelli sussuntivi della teoria cognitiva dell’interpretazione, o i più avanzati modelli del bilanciamento, affermatisi nell’ambito cd. teoria ermeneutica dell’interpretazione giuridica, quella per intendersi del circolo ermeneutico, degli orizzonti di attesa e della cd. semiosi illimitata, avvaloranti un ruolo sempre più determinante dell’interprete (giudice), rispetto all’autore del testo (legislatore). Si evidenzia, invece, l’utilità (se non la necessità) di vedere l’interpretazione giuridica sempre più come una rete di “autorizzazioni” e “impegni” che, dal punto di vista metodologico, portino prima a domandarsi sempre e giustificare cosa autorizzi quel determinato attore-interprete ad effettuare quella determinata operazione interpretativo-applicativa nel contesto del micro-sistema in cui è chiamato ad operare (legittimazione) e, poi, ad evidenziare quali impegni (da rispettare in futuro) esso si assume con quella determinata asserzione interpretativa e con quella specifica attività applicativa e se essi siano accettabili nel sistema. Si tratta, cioè, di sfruttare e sviluppare in ambito tecnico giuridico le possibilità offerte dall’impostazione della cd. pragma-linguistica americana nell’ambito delle più recenti teorie dell’argomentazione, risalente alle teorie di Dummet a Brandom, cui non mi pare si sia prestata fino ad ora la dovuta attenzione.
Di fronte a un tema così ampio e complesso, è opportuno vedere in action la teoria in un caso attuale, sufficientemente noto e paradigmatico: questo può essere utilmente individuato nel recente “caso Almasri”.
3. Cosa ci insegna il caso “Almasri”
Nel trattare il caso “Almasri” va subito precisato che non mi interessa – né mi compete – indagare lo sviluppo concreto che esso ha avuto o esaminare gli eventuali errori che siano stati commessi in una fattispecie oltre tutto ancora sub judice. Ciò che davvero è utile e interessante al fine dell’approccio scientifico al tema oggi in esame, è il valore di “paradigma metodologico” delle questioni che solleva e che toccano praticamente tutti i punti che si sono sopra evidenziati: ciò mi induce a preferirlo ad altri casi – forse più comodi e meno delicati – come quello, ad esempio dei cd. “criptofonini” nell’ambito dell’ordine europeo di indagine, che tuttavia risulterebbero parziali rispetto all’integralità delle problematiche teoriche che vanno esaminate per studiare il tema dell’interpretazione nella cooperazione.
Il caso “Almasri”, infatti, pone in modo icastico:
- Il problema della delimitazione del ruolo interpretativo applicativo dei diversi attori coinvolti, in un micro-sistema cooperativo – come il modello della “consegna” alla CPI – che si presta ad evidenziarne complessità e problematicità;
- Il problema interpretativo-applicativo delle lacune, con particolare riferimento alla disciplina delle pre-cautele in un caso non esplicitamente disciplinato, quando cioè la richiesta sia stata già presentata ma non trasmessa dal Ministro;
- Il problema della individuazione dei diversi principi operanti in differenti e contigui modelli di cooperazione (quello della “estradizione” e quello della “consegna”);
- Il problema del concorso di possibili differenti modelli cooperativi (come quello relativo alla cooperazione con la CPI e quello della Convenzione internazionale sulla tortura).
Inoltre, il caso “Almasri” evidenzia altresì come, sullo sfondo di tali problemi ermeneutico interpretativi peculiari della cooperazione, resti quello generale dei vincoli del testo normativo (e quindi quello di sottoposizione del giudice alla legge), come evidenziato dalla recentissima ordinanza – invero problematica – con la quale la Corte di appello di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale.
La Corte penale internazionale con sede all’Aja – da non confondersi con la Corte internazionale di giustizia dell’Onu avente parimenti sede all’Aja – è stata istituita con il trattato internazionale stipulato a Roma il 17 luglio del 1988 (cd. “Statuto di Roma”), ratificato dall’Italia con la legge n. 232 del 1999 ed entrato in vigore nel 2002 (dopo la ratifica del 60° Stato aderente). L’Italia, con la legge n. 237 del 2012, entrata in vigore il 23 gennaio del 2013, ha poi adottato le norme per l'adeguamento alle disposizioni dello Statuto.
Come tutti i Trattati internazionali esso deve essere interpretato secondo buona fede secondo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo (art. 31 della Convenzione di Vienna), facendo eventualmente ricorso ai mezzi sussidiari, ivi compresa la registrazione delle negoziazioni delle parti (art. 32 della citata Convenzione).
Ai fini che ci occupano è rilevante osservare che si tratta di un organo con giurisdizione sovranazionale complementare chiusa – nel senso che può processare individui (non Stati) responsabili di un catalogo tassativo di reati (crimini di guerra, genocidio, crimini contro l'umanità, crimine di aggressione) commessi sul territorio e/o da parte di uno o più residenti di uno Stato parte, nel caso in cui lo Stato in questione non proceda in base alle leggi di quello Stato – che non ha una propria polizia, né autonome strutture di law enforcement a disposizione, con la conseguenza che, nelle situazioni in cui ricorra la sua giurisdizione, sono gli Stati a dover assicurare la necessaria e piena cooperazione per le attività investigative e di acquisizione probatoria e, più in generale, per l’esecuzione delle decisioni della Corte. Fra queste particolare rilievo assumono quelle relative al «mandato di arresto» ex art. 58 dello Statuto, con i corrispondenti obblighi nazionali ai sensi degli artt. 59 e 89 dello Statuto, e al «fermo» («Provisional arrest» nel testo inglese) di cui all’art. 92.
Lo Statuto distingue nettamente – ed espressamente all’art. 102 – il modello di cooperazione in esso previsto della consegna (da parte di uno Stato alla Corte), da quello dell’estradizione (da parte di uno Stato ad un altro Stato), con correlativa restrizione dei margini di apprezzamento nazionale. Nello Statuto di Roma, infatti, le autorità dello Stato richiesto non possono esaminare la legalità del mandato o pronunciarsi sulla contestazione dell’habeas corpus. Lo Statuto, infatti, prevede che lo Stato, possa solo constatare le dichiarazioni e le informazioni della CPI e che i requisiti stabiliti dalla legislazione nazionale per la consegna non siano mai più gravosi di quelli applicabili all’estradizione interstatale, ulteriormente richiedendo che eventuali problemi ad essi inerenti siano risolti solo tramite le consultazioni con la Corte che lo Stato deve intraprendere “senza indugio” ai sensi dell’art. 97 del medesimo Statuto.
Ciò consente di comprendere come, da un lato, esista un limite interpretativo che radica nella fonte internazionale convenzionale a richiamare le norme interne sull’estradizione per giustificare margini di apprezzamento politico da parte del Ministro o sulla legalità del mandato da parte delle autorità giurisdizionali (giudicanti o requirenti) dello Stato (l’unica restrizione applicabile in base allo Statuto sembra quella relativa ai principi fondamentali dell’ordinamento dello Stato, oltre che ad alcune valutazioni procedurali); dall’altro, si capisce come ben possano e debbano, invece, essere applicate quelle norme interne sull’estradizione necessarie alla piena cooperazione stabilita dall’art. 86 dello Statuto e dalle altre norme sull’immediatezza della cooperazione che si sono sopra richiamate: in particolare l’arresto d’urgenza da parte della polizia ex art. 716 c.p.p. che avviene, proprio perché d’urgenza, in assenza della richiesta del Ministro e dell’intervento dell’autorità giudiziaria.
Né la normativa nazionale di adattamento di cui alla legge n. 237 del 2012 evidenzia un contrasto insuperabile in sede di interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata, che determini l’esigenza di sollevare questione di legittimità costituzionale.
Da un lato, infatti, l’art. 2, comma 1 (secondo cui «i rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal Ministro della giustizia») non può essere letto nel senso di autorizzare il Ministro ad effettuare apprezzamenti che gli sono consentiti nel diverso modello della estradizione e che la Convenzione, invece, espressamente preclude con il differente istituto della consegna, dovendo tale disposizione essere letta sistematicamente con il comma 3, secondo cui «il Ministro della giustizia, nel dare seguito alle richieste di cooperazione, assicura […] che l'esecuzione avvenga in tempi rapidi e con le modalità dovute»: perciò pare indubbio che al Ministro non competano valutazioni politiche sull’interesse nazionale; dall’altro, l’assenza nella legge n. 237 del 2012 di una disposizione omologa a quell’articolo 716 c.p.p. (che consente l’arresto d’urgenza da parte della polizia giudiziaria) non vuol dire che sia illegittimo il ricorso a tale disposizione: infatti, l’art. 3, della citata legge n. 237 del 2012 si limita a stabilire che nella cooperazione giudiziaria con la CPI. si applica il codice a meno che le disposizioni contenute nelle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e le norme di diritto internazionale generale «non dispongano diversamente», ma la legge italiana di esecuzione secondaria non regola diversamente, rispetto all’art. 716 c.p.p., l’arresto d’urgenza da parte della polizia, più semplicemente, non se ne occupa affatto, ragion per cui non può che operare la norma codicistica.
D’altro canto, è pur vero che l’art. 14, comma 1, della legge n. 237 del 2012 prevede che «il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, ricevuti gli atti, chiede alla medesima corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna», ma è pur vero che - a meno di non voler configurare un vero e proprio potere di veto nei confronti del mandato d’arresto della Corte in capo al Ministro, esercitabile tramite la mancata trasmissione della richiesta, in contrasto palese con gli obblighi internazionalmente assunti – una interpretazione teleologica ben potrebbe leggere e intendere come “ricezione” anche quella avvenuta in base alla trasmissione de «gli atti» in seguito alla cattura, da parte della polizia, al Procuratore generale per la procedura in Corte d’appello a Roma, laddove il lemma generico «atti» ben può riferirsi agli atti trasmessi, per l’appunto, dalla polizia, mentre l’uso dei verbi all’indicativo segnala sia la doverosità della richiesta da parte del PG, sia la doverosità dell’applicazione della custodia cautelare, al contrario di quanto avviene nell’art. 715 c.p.p., il cui comma 1 prevede che «la corte d’appello può disporre in via provvisoria, una misura coercitiva».
Simile conclusione interpretativa, nel pieno rispetto del vincolo di sottoposizione del giudice alle leggi (ex art. 101 Cost.), si sarebbe imposta anche in sede di interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto dell’art. 3 Cost., posto che non si potrebbe ritenere razionale, attribuire all’arresto per la CPI un risultato ampiamente più modesto, in termini di effettività, rispetto allo strumento estradizionale classico, pur in presenza, come detto, di precise differenziazioni terminologiche (art. 102 Statuto) e sistematiche, volte ad ampiamente potenziare il primo rispetto al secondo.
Semmai il vero problema interpretativo è posto nella specie dal concorso delle norme sulla Convenzione Onu contro la tortura. Si deve, infatti, considerare che l’art. 4, comma 2, della legge n. 110 del 2017 prevede che «nei casi di cui al comma 1», ovverosia nei casi di addebito dei reati di tortura (art. 613-bis c.p.) e istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613-ter c.p.) «lo straniero è estradato verso lo Stato richiedente nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, verso il tribunale stesso (…)». Si prospetta dunque una concorrenza tra le due fonti di origine internazionale teoricamente applicabili - la procedura ex lege n. 237 del 2012 e quella del detto art. 4 della legge n.110 del 2017. Si sarebbe potuto sostenere che la seconda fonte avrebbe potuto applicarsi in quanto lex posterior e lex specialis, in considerazione della specificità dei crimini contemplati nella Convenzione contro la tortura, a fronte dei molti istituti di cooperazione invece contenuti nel capitolo IX dello Statuto di Roma. In questo caso, peraltro, diversamente si sarebbero atteggiati i poteri del Ministro (considerato il riferimento all’estradizione) e ciò porta a più complesse considerazioni sulla prevalenza di criteri interpretativi orientati al principio di effettività nell’ambito dell’ermeneutica internazionalistica, che in questa sede non si ha lo spazio per approfondire, a tacere del fatto che tale procedura non era stata comunque instaurata.
Ecco all’opera l’«interpretazione nella cooperazione» come (complessa) rete di autorizzazione e impegni nel contesto del microsistema di cooperazione, di cui si diceva nella prima parte.
4. Conclusioni e prospettive
Studiare l’interpretazione nella cooperazione come vive in action, nella concretezza dei casi vivi, consente di acquisire consapevolezza del fatto che, dopo l’ubriacatura della svolta ermeneutica (che ci ha fatto scoprire le infinite possibilità dell’interpretazione), si impone l’esigenza di un’“ermeneutica dei limiti”, esattamente come aveva fatto Umberto Eco che, dopo aver illustrato le possibilità della semiosi illimitata in Opera aperta, aveva sentito il bisogno di un saggio sui Limiti dell’interpretazione. Si tratta di una questione di sopravvivenza per non finire vittime del proprio successo.
Non è un caso, del resto, che proprio nel momento in cui la cooperazione giudiziaria sembrava aver raggiunto l’apice della sua espansione (nel progressivo arricchirsi di strumenti, almeno nello spazio dell’UE), essa abbia anche raggiunto il punto di sua massima crisi nella concretezza dei casi vivi della cooperazione: una crisi che è di livello globale e di tale portata da portare a interrogarsi sulla stessa sopravvivenza, non solo della cooperazione, ma dello stesso diritto internazionale, che sta diventando sempre meno “diritto” e sempre più “nuda forza”.
Il problema è che, superato un certo limite di complessità – e, come si è visto, nel caso della cooperazione giudiziaria questo limite è stato abbondantemente superato – diventa praticamente impossibile un “controllo pubblico” di quanto gli attori istituzionali sono “autorizzati” a fare e del rispetto degli “impegni” che gli attori istituzionali (politici e giurisdizionali) hanno assunto: in assenza di uno “score-keeper”, di un controllore delle autorizzazioni e degli impegni, ogni fatto, con le esigenze particolari che esso porta con sé, rischia di diventare regola a se stesso, decisione sovrana e non diritto.
Bisogna dunque lavorare per sciogliere questa complessità, perché non bisogna dimenticare che, come ci ha insegnato la storia del secolo scorso, quando la “confusione è grande sotto il cielo” c’è sempre il rischio che essa diventi “il momento propizio” per qualcuno.
Lo studio della interpretazione nella cooperazione non deve perciò essere considerato come un vuoto ed inutile esercizio teorico, ma come una necessaria missa in tempore belli: scoperta della forza dello spirito (altri direbbe della ragione argomentativa) proprio quando fuori sembra infuriare soltanto la forza bruta dei fatti.