1. Le fonti del diritto ed il diritto vivente
Ius dicere, dire il diritto: significa interpretarlo, spiegandone il significato attraverso la parola, per poterne fare applicazione nella mutevole realtà del vivere sociale. E’ questa l’opera della giurisprudenza – la giurisprudenza pratica – che si manifesta nelle decisioni dei giudici e che si avvale dell’indispensabile apporto della giurisprudenza teorica cui attende la dottrina.
Ma dire il diritto non è un’operazione meccanica che si risolva in una funzione meramente applicativa del diritto positivo[1]. Tradurre la regola generale ed astratta enunciata dal legislatore in regola del caso concreto, tenendo necessariamente conto delle infinite varianti di ciascuna singola vicenda, significa anche concorrere a conformare il diritto ed a farlo vivere nella realtà. Perciò si suole parlare di diritto vivente[2], ossia di quella forma che il diritto assume nel suo aderire al mutevole e multiforme andamento della vita delle persone e delle istituzioni.
Non è un’operazione banale: tutt’altro, perché richiede non solo un’approfondita conoscenza dei testi di legge, di ciò che li ha ispirati e delle finalità cui tendono, ma anche la capacità di comprendere quali sono di volta in volta i concreti interessi delle parti in causa, le motivazioni del loro agire e gli effetti che la decisione può produrre sulla loro vita[3]. E richiede anche – in tutti i gradi del giudizio, ma soprattutto nel giudizio di cassazione – la consapevolezza che ogni decisione è potenzialmente idonea a fungere da precedente in decisioni future di analogo tenore, contribuendo al nascere ed all’evolversi di quel formante giurisprudenziale di cui da sempre il diritto si alimenta. Il che rende necessaria una sensibilità umana, acanto alla scienza giuridica, affatto incompatibile con una concezione burocratica del ruolo del giudice, quasi si trattasse solo di smaltire pratiche il più presto possibile e nel modo formalmente più corretto. Dal giudice ogni cittadino si attende che gli sia resa giustizia, ma la giustizia – parola affascinante e terribile al tempo stesso – non si identifica mai appieno con la semplice legalità: richiede di essere amministrata in forme ben stabilite, ma pretende di aderire, al di là della forma, alla sostanza delle vicende umane e di preservarne i valori che la comunità vi riconosce[4].
Non nego che in ciò possa annidarsi il pericolo di un eccesso di protagonismo giudiziario, che andrebbe sempre evitato, ma non per questo la funzione del giudice può essere ridotta alla mera attuazione di un comando legale predeterminato, perché l’interpretazione di un testo – e non solo in ambito giuridico – non è mai davvero neutra ed ancor meno lo è la sua applicazione ad una specifica fattispecie concreta. Né vale obiettare che il giudice difetta della legittimazione democratica derivante da una qualche investitura elettorale. L’investitura elettorale implica una competizione di tipo politico che rischierebbe fatalmente di compromettere il requisito essenziale della giurisdizione costituito, in uno stato di diritto, dall’indipendenza e dall’autonomia dell’ordine giudiziario, la cui funzione è di garanzia e non di governo. Il che però non implica indifferenza del giudice ai valori sociali, bensì attitudine a ricercare quei valori di riferimento nel quadro tracciato dalla Costituzione, e perciò richiede capacità di farsene interprete e di darne conto. In democrazia, del resto, non ogni forma di esercizio di un potere necessariamente presuppone che il titolare di quel potere sia stato eletto dal popolo. L’essenziale è che il suo operare sia circondato da regole stabilite dalla legge, che vi siano adeguati controlli, quanto al rispetto di tali regole, e che egli dia conto in modo trasparente dei criteri cui si attiene nello svolgere la sua funzione. Come appunto accade per l’esercizio della giurisdizione, che prevede molteplici gradi di giudizio ed il fondamentale dovere del giudice di motivare i propri provvedimenti.
Un punto va però messo subito bene in chiaro. Anche quando si parla di diritto giurisprudenziale, di funzione nomopoietica della giurisprudenza o di giurisprudenza come “fonte-fatto” del diritto[5], l’interpretazione e l’applicazione della legge, in un sistema di diritto scritto quale il nostro, necessariamente devono sempre muovere dal dato letterale espresso dal testo normativo, come inequivocabilmente indica l’art. 12 delle preleggi. Nel quadro della pur sempre necessaria separazione dei poteri – intesa come separazione tra funzioni e istituzioni di governo e di garanzia[6] – è ovvio che il giudice si collochi in questo secondo campo e ciò comporta che egli non sia libero di decidere a proprio arbitrio ma sia invece tenuto al rispetto del quadro giuridico formato dalle norme costituzionali e da quelle poste dal legislatore nazionale e sovranazionale, quando applicabili nel nostro ordinamento.
Il giudice, quindi, nello sforzo di rendere giustizia, è comunque tenuto a muoversi in un ambito delimitato da un perimetro normativo preesistente[7]: un perimetro che può risultare più o meno esteso e del quale sta pur sempre al giudice di volta in volta individuare i limiti, ma sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum[8].
2. La discrezionalità interpretativa
Il giudice, come indica il capoverso dell’art. 101 Cost., è soggetto (soltanto) alla legge. La legge, in uno stato di diritto, è l’unico collegamento possibile tra il giudice, non elettivo né politicamente responsabile, e la sovranità popolare.
Ma la legge normalmente si manifesta attraverso un linguaggio fatto di parole, che richiedono di essere interpretate e, nell’interpretazione di un testo, qualsivoglia ne sia la natura e la funzione, esiste quasi sempre – lo si è già detto – un margine più o meno ampio di discrezionalità[9].
Il dogma dell’onnipotenza del legislatore, che presupporrebbe l’autosufficienza del dato positivo e lessicale contenuto nella legge, appare oggi più che mai incapace di corrispondere alla realtà, perché il testo normativo si offre sovente ad una pluralità di possibili significati e perciò richiede che si indaghi sul sottostante giudizio di valore che ha ispirato il precetto legale e sugli interessi che il legislatore ha inteso tutelare. L’interprete è perciò costretto spesso a scegliere, tra i diversi possibili significati che il dato letterale consente, pur senza mai eccederne i limiti, per individuare quello meglio in grado di realizzare nel caso concreto gli interessi che la legge ha inteso proteggere ed i valori ai quali essa è ispirata.
Quei valori e quegli interessi non sono però immutabili, non sono dati una volta per tutte, ma si evolvono lungo il corso della storia per il continuo variare delle condizioni materiali del vivere sociale e, conseguentemente, del modo di sentire dei consociati. Ciò sovente impone un’interpretazione diversa di disposizioni di legge pur rimaste immutate nel loro tenore letterale, ed inoltre, giacché le singole disposizioni reciprocamente si integrano e si influenzano, accade di frequente che il senso da attribuire ad una di esse si modifichi per effetto del mutamento di altre e del contesto normativo generale in cui essa è inserita.
D’altronde, la regola legale espressa in forma astratta e generale manifesta appieno la sua effettiva portata solo nel suo applicarsi alla mutevole e variabile realtà dei casi concreti. Il mestiere del giudice consiste nel colmare la distanza tra l’astratta formulazione del testo normativo e la concreta realtà fattuale cui esso deve applicarsi, nel testare i limiti di elasticità della regola legale e darne conto con adeguata motivazione. Non direi, perciò, che la giurisprudenza ha una funzione creativa, ma neppure meramente dichiarativa, quanto piuttosto integrativa del diritto: tanto più marcata quanto più il testo normativo si mostra inadatto a sciogliere i nodi interpretativi che il caso propone ed a fornire una sicura chiave di risoluzione ai quesiti cui il giudice deve comunque dare risposta.
Appare ormai davvero poco sostenibile l’idea che la decisione giudiziaria si formi attraverso il mero sillogismo risultante dal raffronto tra l’astratta fattispecie legale e la singola fattispecie concreta. Fatto e diritto sono reciprocamente legati da un rapporto di tipo circolare. Il diritto postula un’opera di interpretazione che sia funzionale all’applicazione di una determinata regola ad uno specifico fatto, il quale però non è materia grezza ma viene percepito e ricostruito proprio in considerazione della qualificazione giuridica che si ritenga di potergli dare e, quindi, in vista della regola di diritto che si reputi di volta in volta ad esso applicabile[10]. Interpretazione ed applicazione del diritto si pongono, perciò, in stretta correlazione e si aprono a valutazioni che, come ho già accennato, non possono mai prescindere dal dato normativo ma, nondimeno, implicano sempre un certo grado di discrezionalità.
Nel nostro tempo i confini entro i quali tale discrezionalità si esercita si sono però fatti più elastici e, soprattutto, meno agevolmente definibili. Indagarne a fondo le cause non è qui possibile, ma si può almeno segnalare le più evidenti tra esse.
Ad ampliare i margini di discrezionalità del giudice ha concorso, anzitutto, il progressivo affermarsi dei principi costituzionali (e di diritto europeo), ai quali l’interpretazione delle norme deve necessariamente adeguarsi. Ma vi contribuiscono altresì le accelerazioni della modernità, ed in particolare le sfide della tecnica ed il veloce mutamento della sensibilità sociale, che pongono problemi cui la legislazione non sempre è in grado di dare risposte tempestive e capaci di soddisfare le esigenze regolatorie che la società esprime. Onde accade che il legislatore oscilli spesso, contraddittoriamente, tra interventismo ed abdicazione, tra deregolamentazione e forme di esasperata iper-regolazione, quando non si rifugia in clausole generali il cui effettivo contenuto dev’essere determinato di volta in volta dal giudice servendosi di criteri extragiuridici ed attingendo al comune sentire. Si assiste poi alla crescita abnorme della legislazione, che appare spesso disordinata, perché frutto più di sollecitazioni momentanee che di un disegno normativo organico e coerente, ed è non di rado formulata in modo impreciso ed affrettato[11].
Tutto ciò inevitabilmente rende più complessa l’opera dell’interprete e determina sovente situazioni di incertezza del diritto cui al giudice si richiede di rimediare, accrescendo così evidentemente la sua discrezionalità e la sua conseguente responsabilità sociale.
Per mettere bene a fuoco ciascuno dei fattori d’incertezza cui ho fatto cenno occorrerebbe forse un intero trattato, ed occorrerebbe di certo una capacità di analisi storico-sociale ben al di sopra delle mie possibilità. Ma credo valga la pena di fare almeno un breve accenno, senza alcuna pretesa di completezza, a due degli aspetti che ho dianzi menzionato – l’interpretazione costituzionalmente orientata (la c.d. interpretazione adeguatrice) e gli effetti delle c.d. clausole generali – che ben si prestano ad esemplificare la crescente complessità che oggi caratterizza l’esercizio dello ius dicere e l’ampliamento del margine di discrezionalità che ne deriva.
3. Interpretazione costituzionalmente (ed eurounitariamente) orientata)
L’affermarsi dell’interpretazione costituzionalmente – ed ora anche eurounitariamente orientata[12] – è sotto gli occhi di tutti.
L’ingresso della Costituzione, e poi dei Trattati europei e della Convenzione europea sui diritti umani, in un ordinamento ancora formalmente caratterizzato da un sistema delle fonti che rispecchiava una concezione di sovranità assoluta del legislatore ordinario nazionale ha comportato la necessità di rileggere l’intera normativa in senso conforme ai principi costituzionali ed europei. Ma i principi, a differenza delle regole, che si attagliano (o dovrebbero per lo più attagliarsi) a fattispecie dai contorni ben delineati, sono non di rado soggetti a reciproca ponderazione e bilanciamento, e comunque chiamano in causa valori morali e visioni storico-sociali che molto spesso trascendono lo specifico campo del diritto.
Si è giustamente sottolineato che il bilanciamento dei principi e dei valori espressi dal testo costituzionale è un compito proprio del legislatore, perché implica scelte di carattere eminentemente politico, laddove al giudice compete solo di controllare che quel bilanciamento non abbia comportato un sacrificio sproporzionato di uno dei valori in gioco[13]. Nella realtà, però, accade sovente che il legislatore non assolva quel compito di bilanciamento, o lo faccia in modo ambiguo e compromissorio, ed allora inevitabilmente tocca al giudice farsene carico. D’altronde anche lo stabilire se sia o meno sproporzionato il sacrificio imposto dal legislatore all’uno o all’altro dei contrapposti principi da bilanciare implica una scelta valoriale il cui esercizio non può non comportare un certo grado di discrezionalità[14]. Condivisibilmente, mi pare, si è osservato che non è poi tanto facile distinguere tra una situazione nella quale si interpreta una norma alla luce di principi o interessi costituzionalmente garantiti e quella in cui si opera un vero e proprio bilanciamento riguardante il contenuto dei diritti fondamentali[15].
E’ stata la stessa Corte costituzionale ad incoraggiare il diffondersi dell’interpretazione costituzionalmente orientata da parte dei giudici ordinari, chiarendo che una legge è incostituzionale non quando la si potrebbe interpretare in modo incompatibile con la Costituzione, bensì soltanto quando non vi sia alcuna possibilità di interpretarla conformemente a Costituzione[16]. Al giudice ordinario resta perciò affidato il compito preliminare di vagliare ogni possibile interpretazione della legge che egli deve applicare, privilegiando quella meglio compatibile col dettato costituzionale ed investendo la Corte costituzionale solo se nessuna interpretazione conforme a Costituzione risulti possibile. Ma non sempre una tale valutazione è agevole. Non lo è quando occorra confrontare regole più o meno puntuali con principi di carattere generale, quali quelli enunciati nel testo costituzionale; e non lo è anche perché risulta problematico talvolta stabilire se, o sino a qual punto, il significato della regola possa essere piegato anche al di là del mero dato letterale per adeguarlo al principio costituzionale di riferimento.
Mi pare innegabile che della cosiddetta interpretazione adeguatrice alcune volte sia stato fatto un uso eccessivamente spinto, non solo per colmare vere e proprie lacune normative, ma anche per forzare le possibilità interpretative di un testo di legge sino al limite (e talora anche al di là del limite) consentito dal suo tenore letterale. D’altronde, è sempre la stessa Corte costituzionale, attraverso pronunce d’inammissibilità o interpretative di rigetto, a suggerire sovente al giudice ordinario la possibilità di ricorrere ad interpretazioni fortemente manipolatorie per rendere talune disposizioni di legge compatibili con la Costituzione[17].
Non intendo certo negare l’importanza del fatto che i valori costituzionali ed i principi del diritto sovranazionale europeo siano penetrati nel profondo della giurisdizione e siano ben presenti nell’operare dei giudici. Ma neppure ci si può nascondere che, se spinta oltre certi limiti, l’interpretazione adeguatrice presenta un pericolo di sovrapposizione di ruoli tra il giudice ordinario e la Corte costituzionale. V’è il rischio di una sostanziale disapplicazione ope iudicis di leggi ritenute non conformi alla Costituzione, con l’aggravante del carattere episodico di tale disapplicazione, destinata a realizzarsi in singoli casi ma non certo in grado di impedire che in altri casi si pervenga ad un esito diverso. Paradossalmente, perciò, l’abuso dello strumento dell’interpretazione costituzionalmente orientata può risolversi in una violazione dell’art. 101, secondo comma, della stessa Costituzione, che vuole il giudice soggetto alla legge. La fedeltà ai principi costituzionali, che prevedono un sistema di controllo accentrato di costituzionalità, dovrebbe suggerire molta cautela nell’eludere l’intervento del giudice delle leggi – che ha efficacia erga omnes ed elimina definitivamente la disposizione incostituzionale dalla circolazione giuridica – giacché altrimenti si rischia di rendere meno solido l’allineamento della normativa ordinaria ai precetti costituzionali cui quella è subordinata.
4. Clausole generali
La complessità dell’ordinamento giuridico è oggi accresciuta – lo accennavo già prima – anche dal frequente ricorso del legislatore a norme elastiche o alle c.d. clausole genarli, soprattutto in ambito civile (si pensi alle nozioni di giusta causa, di correttezza e buona fede, di adeguatezza organizzativa dell’impresa, ecc.), ma in qualche misura anche in ambito penale (basti pensare al comune senso del pudore, ai motivi abietti e futili o di speciale valore morale e sociale, alla nozione di speciale tenuità del fatto, e così via). Ne deriva la necessità di riempire il contenuto della norma giuridica facendo riferimento ad elementi extragiuridici, sovente desunti dal comune sentire, l’individuazione dei quali implica sempre un qualche più o meno elevato grado di discrezionalità.
Sulle clausole generali si è scritto tanto e non è certo questo il luogo per riproporre le molte questioni che esse sollevano[18]. Accennerò solo a come la forse più frequentemente applicata tra esse, la clausola di correttezza e buona fede, abbia in molti casi ampliato lo spazio dell’intervento giurisdizionale in un terreno, quello del contenuto dei regolamenti contrattuali, che tradizionalmente si riteneva in prevalenza riservato all’autonomia negoziale delle parti con i soli limiti posti inderogabilmente dal legislatore. E’ questo, per certi versi, un fenomeno singolare, perché mentre, da un lato, l’ordinamento giuridico è andato da ultimo caratterizzandosi per grandi aperture all’autonomia negoziale, in concomitanza col progressivo affermarsi dell’ideologia liberale (con risvolti, in economia, marcatamente liberistici), nel dichiarato intento di allentare la trama di regole considerate troppo rigide e di favorire il libero sviluppo della dinamica del mercato[19], dall’altro lato – ma forse anche proprio a causa di siffatta tendenza legislativa – si è assistito ad un ampliamento dello spazio dell’intervento giudiziario in ambito negoziale, al fine di assicurare forme di tutela più efficaci alle parti deboli dei contratti. Ed in ciò un ruolo di grande importanza ha svolto appunto la già ricordata clausola di correttezza e buona fede, richiamata a più riprese nella disciplina codicistica del contratto ma che solo negli ultimi decenni è stata, per così dire, riscoperta e fatta oggetto di applicazioni a largo raggio da parte della giurisprudenza[20].
Come è stato giustamente osservato, «ancorché si debba riconoscere che non esiste operazione ermeneutica che non implichi valutazioni da parte dell’interprete, certo è che le clausole generali accentuano l’elemento della valutatività e richiedono all’interprete un apprezzamento in un certo senso originario ed autonomo[21]».
Anche in questo campo, dunque, si aprono spazi interpretativi ed applicativi del diritto positivo (giacché le clausole generali pur sempre al diritto positivo appartengono) che sono da ultimo significativamente aumentati[22].
5. Principio di legalità ed istanza di giustizia
E’ in queste diverse situazioni che emerge il tema del complicato rapporto tra il principio di legalità e l’istanza di giustizia.
Su questo terreno si sono manifestate posizioni radicalmente opposte. C’è chi vede nella decisione del giudice il punto di emersione di un’elaborazione giuridica frutto della convergente funzione di dottrina e giurisprudenza che concorrono a formare la «comunità interpretativa[23]»; o chi parla di una funzione di “invenzione” (in senso latino) del diritto che connota la postmodernità giuridica[24]. C’è però anche chi, all’opposto, ha parlato addirittura di eclisse del diritto[25], oppure di un diritto incalcolabile e di crisi della fattispecie, sicché il solo salvagente del diritto risiederebbe nel rispetto delle forme del decidere, indipendentemente dal contenuto della decisione[26]. Occorre altresì farsi carico dell’obiezione secondo cui il venir meno dei tradizionali presupposti di natura religiosa o metafisica, sui quali la costruzione dello Stato si è per gran tempo fondata, avrebbe generato anche in campo giuridico un «politeismo» di valori nel cui ambito ciascuno sarebbe chiamato a scegliere, tra le tante possibili, la Grundnorm cui decide di attenersi[27].
A mio sommesso parere la questione non è se debba esservi o meno uno spazio di discrezionalità nell’opera interpretativa ed applicativa della legge che il giudice è chiamato a compiere. Quello spazio credo sia sempre esistito e, per le ragioni che ho cercato sinteticamente sopra di richiamare, piaccia o no, si è oggi notevolmente ampliato. Quello su cui val la pena di interrogarsi sono, invece, i limiti di tale discrezionalità ed il modo in cui essa dovrebbe essere esercitata.
Si tratta di comprendere come sia possibile coniugare, pur nelle sue assai diverse declinazioni che ogni singola vicenda suggerisce, il principio di legalità con l’esigenza di rendere effettivamente giustizia. Ripeto che un’istanza di giustizia, presente in ogni società umana (poco importa se per un fondamento giusnaturalistico o per ragioni storiche), non può mai essere del tutto ignorata da parte di un giudice che non voglia essere un mero burocrate. Il principio di legalità resta un pilastro fondamentale dello stato di diritto e segna il limite – che può apparire elastico, ma deve comunque esser individuato – oltre il quale il giudice non può spingersi: neppure in nome di un’ipotizzata superiore istanza di giustizia, la quale non può essere semplicemente rimessa alla sensibilità individuale del singolo ma va perseguita dalla giurisprudenza nel suo insieme. D’altronde, nasce proprio da un’elementare istanza di giustizia la necessità di garantire, nei limiti dell’umanamente possibile, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, che postula una qualche forma di almeno tendenziale certezza del diritto. Un’esigenza, questa, che si presenta in termini più rigorosi in campo penale ed in materia processuale, ma che resta in qualche misura ineludibile in qualsiasi ambito del diritto.
Occorre quindi saper trovare un punto di equilibrio tra la rigida applicazione del principio di legalità e l’esigenza di dare risposte adeguate alla complessità delle domande di giustizia. Donde la necessità di sottrarsi – come è stato molto efficacemente affermato – «ad ogni tentativo di dissociare la certezza dalla giustizia, quasi che possa esservi giustizia senza un minimo di razionalità e di calcolabilità e quasi che la certezza possa avere un qualsivoglia valore, se dissociata dalla giustizia[28]»
Per fare ciò non mi pare vi sia altra strada realisticamente praticabile che quella ricavabile dal quadro valoriale di riferimento offerto dalla Costituzione. Ma altrettanto importante è che ciascun giudice abbia sempre la consapevolezza che quello al quale è chiamato non è un esercizio individuale, perché ogni sua decisione deve confrontarsi con i precedenti e concorre a formare orientamenti giurisprudenziali, non certo immutabili, ma che solo un ben motivato ragionamento dovrebbe indurre a modificare.
L’indispensabile apporto della giurisprudenza alla certezza del diritto, in un’epoca nella quale il legislatore sembra più che mai non in grado di garantirla, risiede soprattutto in ciò: nell’essere sì il potere giudiziario un potere diffuso, ma non per questo disordinato. Le singole decisioni dei giudici ed i principi di diritto in esse enunciati non sono monadi isolate, ma concorrono a formare un quadro di orientamenti giurisprudenziali che dovrebbe trovare nella Costituzione e nelle pronunce della Corte costituzionale un solido ancoraggio. So bene che non è un risultato facile da conseguire e che vi fanno barriera le tante difficoltà che affliggono il concreto quotidiano operare dei nostri tribunali e delle nostre corti. Resto però convinto che la certezza del diritto è oggi soprattutto affidata alla nomofilachia, intesa in senso dinamico e, perciò, capace di evolversi con il mutare dei tempi ma sempre in modo ragionato e secondo linee di tendenza ben distinguibili.
Il fatto che nel nostro ordinamento il precedente non sia, di regola, vincolante non attenua la necessità di tenerne conto e discostarsene solo motivatamente. La pluralità dei gradi di giudizio funge, d’altronde, da baluardo ai possibili eccessi di soggettivismo del singolo giudice nell’esercizio della giurisdizione ed un presidio non meno essenziale è l’obbligo di motivazione: strumento mediante il quale il potere giurisdizionale si legittima in un sistema democratico[29]. L’affermazione che la sovranità appartiene al popolo, enunciata nel primo articolo della nostra costituzione, implica, tra le altre cose, che quella particolare espressione della sovranità che si manifesta nell’esercizio della giurisdizione debba risultare comprensibile per il popolo – qui inteso come pubblica opinione – perché deve essere consentito valutare come quella funzione viene concretamente svolta ed, inoltre, perché il legislatore, che dal popolo anche per questo è eletto, possa all’occorrenza calibrare ed eventualmente anche modificare le proprie leggi alla luce delle ragioni che hanno indotto la giurisprudenza ad interpretarle ed applicarle in un determinato modo anziché in un altro.
6. La virtù della prudenza
Si è parlato di discrezionalità interpretativa, di bilanciamento di principi, di contemperamento tra regole e principi, tra la certezza del diritto e la discrezionalità dell’interprete: espressioni tutte che ritornano sempre più di frequente quando si tratta dello ius dicere e del rapporto tra legalità e giustizia. E si è parlato del compito della giurisprudenza, sottolineando come esso si sia fatto sempre più difficile perché non solo richiede l’approfondita conoscenza dei testi di legge ma anche l’esercizio di quella virtù della “prudenza” che è insita nell’etimo stesso della parola iuris-prudentia.
Come già in molte altre occasioni mi è capitato di notare, in quest’ambito la prudenza non va però confusa con una qualche forma di tremebonda cautela, bensì intesa nel suo originario significato latino di avvedutezza, saggezza, consapevolezza del proprio agire ed attenzione alle conseguenze. La prudentia (come la greca a φρόνησις) figura, insieme alla giustizia, nel novero delle antiche virtù cardinali, ed anzi primeggia tra esse – la si è definita auriga virtutum – perché indirizza e conduce tutte le altre.
E’ di questa virtù, oltre che della scienza giuridica, che il giudice – e, più in generale, il magistrato – dovrebbe esser dotato affinché lo ius dicere risponda appieno alla sua funzione: decidere rimanendo sempre all’interno dei confini fissati dal legislatore ed in conformità ai principi costituzionali, ma dando voce al sentimento di giustizia che pervade la società del suo tempo.
[1] Sulla distinzione tra interpretazione della legge, intesa come analisi del significato oggettivo del testo normativo, ed interpretazione del diritto, aperta anche ai valori che permeano il vivere sociale ed agli interessi economici in gioco, si veda F. Petrillo, Interpretazione degli atti giuridici e correzione ermeneutica, Giappichelli, Torino, 2011, pagg. 123 e segg.
[2] M. Nardozza, Diritto vivente. Radici e tradizioni della scienza giuridica italiana, Aracne, Roma, 2018.
[3] Quanto più difficile sia oggi il mestiere del giurista teorico o pratico, a fronte di un ordinamento giuridico divenuto vieppiù complesso, è ben evidenziato nella prefazione di P. Grossi al volume Il mestiere del giudice, a cura di R.G. Conti, Wolters Kluver-Cedam, Milano, 2020.
[4] Cade acconcio richiamare qui lo stimolante confronto tra Massimo Cacciari e Natalini Irti, in margine ad uno storico saggio di Werner Jaeger, Elogio del diritto, La nave di Teseo, Milano, 2019.
[5] Cfr. A. Pizzorusso, Fonti del diritto, in Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli, Bologna 1997, pagg. 22 e segg.
[6] Sulla distinzione tra funzioni di governo e funzioni di garanzia, considerata oggi più aderente alla realtà della tradizionale tripartizione dei poteri enunciata da Montesquieu, si veda L. Ferrajoli, Principia iuris, Laterza, Roma-Bari, 2007, I. Teoria del diritto, pagg. 865 e segg.; e II. Teoria della democrazia, pagg. 200 e segg.
[7] V. Velluzzi, Commento agli artt. 12-14 delle Disposizioni sulla legge in generale, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Wolters Kluver-Utet, Milano, 2012, pagg. 2016 e segg. (al quale rinvio anche per ulteriori riferimenti bibliografici in materia), dopo aver passato in rassegna le diverse concezioni dell’interpretazione giuridica, opta per lo «scetticismo moderato», rilevando che «l’interpretazione giuridica è sempre attività di scelta, ma si tratta di una scelta tra più soluzioni alternative delimitate» (pag. 227).
[8] Orazio, Satire, I, 1, 106-107.
[9] Non può non condividersi l’osservazione di N. Lipari, Regole, clausole generali, principi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2024, pag. 1076, secondo cui «non esiste operazione ermeneutica che non implichi valutazioni da parte dell’interprete». «L’interpretazione non è attività da copisti», come chiosa icasticamente G. Zecca, in A. Bracciodieta e G. Zecca, Giudici “vil razza dannata”, Cacucci, Bari, 2024, pag. 169.
[10] Di «ermeneutica comprendente», ricollegandola alla nota figura del circolo ermeneutico, parla C. Castronovo, Ermeneutica esistenziale, in Europa e dir. privato, 2021, pagg. 173 e segg.
[11] L. Ferrajoli, Argomentazione interpretativa e argomentazione equitativa contro il creazionismo giurisprudenziale, in Interpretazione conforme, bilanciamento dei diritti e clausole generali, a cura di G. Bronzini e R. Cosio, Giuffrè, Milano, 2017, pagg. 166 e segg., a proposito dell’espansione degli spazi di discrezionalità e di potere della giurisdizione, ne individua quattro principali cause: l’incapacità del legislatore di far bene il suo mestiere, la struttura multilivello degli attuali ordinamenti, lo sviluppo e poi la crisi dello stato sociale e della sfera pubblica ed, infine, la tendenza del potere giudiziario di allargare la propria sfera di competenza dando vita ad un diritto di creazione giurisprudenziale.
[12] Sul concetto di interpretazione costituzionalmente orientata si vedano, ex multis, G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a Costituzione, Giuffrè, Milano, 2006; e M. Luciani, voce Interpretazione conforme a costituzione, in Encicl. dir.-Annali, Milano, 2016, vol. IX, pp. 391 e ss. Si veda anche, tra gli altri, R. Cosio, L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, in Interpretazione conforme, cit., pagg. 41 e segg.
[13] E. Scoditti, Trasformazioni della costituzione materiale: un manifesto, in Questione giustizia, 10 febbraio 2025; Id., Diretta applicazione della Costituzione da parte del giudice o necessario incidente di costituzionalità nel caso di lacuna legislativa?, ivi, 29 aprile 2024.
[14] Per una serie di esempi di bilanciamento fra diritti e valori fondamentali direttamente operato dalla Suprema corte, si veda R.G. Conti, Il bilanciamento come nuova frontiera dell’attività giudiziaria, in Interpretazione conforme, cit., pagg. 229 e segg.
[15] G. Bronzini, Il bilanciamento nella giurisprudenza: come bilanciare la sovranità popolare?, in Interpretazione conforme, cit., pag.152.
[16] Corte cost. 22 ottobre 1996, n. 356, in Giur. costit., 1996, 3096, con nota di E. Lamarque.
[17] Per limitarmi ad un paio di esempi, ricordo qui le note pronunce di Corte cost. n. 248/2013, in Foro it., 2014, I, 382, e Corte cost. n. 77/2014, ivi, 2014, I, 2035, commentate da E. Scoditti, Il diritto dei contratti tra costruzione giuridica e interpretazione adeguatrice; R. Pardolesi, Un nuovo super-potere giudiziario: la buona fede adeguatrice e demolitoria; e G. Lener, Quale sorte per la caparra confirmatoria manifestamente eccessiva?, che hanno escluso l’incostituzionalità dell'art. 1385, 2º comma, c.c., nella parte in cui non attribuisce al giudice la facoltà di ridurre ad equità una caparra confirmatoria manifestamente sproporzionata, diversamente da quanto previsto in tema di clausola penale, ritenendo perciò che il giudice possa senz’altro dichiarare d’ufficio la nullità della caparra esorbitante dai limiti dell’equo, alla luce dei principi posti dall'art. 3, secondo comma, Cost., pur in difetto di una disposizione normativa che lo preveda. E richiamo altresì Corte cost. n. 8 del 2023, in Foro it., 2023, I, 1348, la quale, facendo leva sulla clausola generale di correttezza e buona fede, ha sostanzialmente integrato la disciplina dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c. affermando che, in caso di affidamento dell’accipiens sulla spettanza della prestazione ricevuta, il credito restitutorio del solvens può risultare temporaneamente o anche parzialmente inesigibile, oltre eventualmente a potersi generare una responsabilità risarcitoria di tipo precontrattuale per la lesione di detto affidamento.
[18] Si vedano, ex multis, S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1967, pagg. 83 e segg.; e, più di recente, Principi, clausole generali, argomentazione e fonti del diritto, a cura di F. Ricci, Giuffrè, Milano, 2019; M. Libertini, Ancora a proposito di principi e clausole generali, a partire dall'esperienza del diritto commerciale, in Giurisprudenza e autorità indipendenti nell'epoca del diritto liquido - Studi in onore di Roberto Pardolesi, a cura di F. Di Ciommo e O. Troiano, Foro italiano-La Tribuna, Roma-Piacenza, 2018, pagg. 495 e segg.; Aa. Vv., Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, a cura di G. D’Amico, Giuffrè, Milano, 2017; e S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, Giuffrè, Milano, 2016.
[19] Si pensi, ad esempio, alle riforme del diritto societario e del diritto concorsuale intervenute in questo primo quarto di secolo, le quali, benché non senza qualche contraddizione, hanno certamente inteso valorizzare maggiormente la funzione dell’autonomia privata, sia accrescendo lo spazio dell’autonomia statutaria in ambito societario sia favorendo la risoluzione delle crisi d’impresa attraverso strumenti di tipo negoziale.
[20] Spero mi si vorrà perdonare l’ineleganza dell’autocitazione se, per ragioni di brevità, rinvio qui al mio scritto Autonomia negoziale e “giustizia del contratto” in tempo di pandemia, in Annuario del contratto 2021, a cura di Andrea D’Angelo e Vincenzo Roppo, Torino, Giappichelli, 2022, pagg. 79 e segg.
[21] N. Lipari, Regole, clausole generali, principi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2024, pag. 1076.
[22] Mi limiterò anche qui a due soli esempi, tra i tanti che si potrebbero fare. Il promo è offerto da Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in Foro it., 2010, I, 85, con nota di A. Palmieri e R. Pardolesi, Della serie «a volte ritornano»: l'abuso del diritto alla riscossa, la quale, nel noto caso Renault, facendo leva sui principi di correttezza e buona fede, ha affermato il dovere delle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto, ove necessario per salvaguardarne l'utilità per la controparte, consentendo al giudice di intervenire anche in senso modificativo sul contenuto del regolamento negoziale ogni qual volta ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto. Il secondo esempio è fornito da Cass. 24 agosto 2016, n. 17291, in Corriere giur., 2016, 495, con nota di V. Carbone, Apertura di credito, recesso della banca e violazione del dovere di correttezza verso il cliente, che, sempre invocando il principio di buona fede, ha negato la legittimità del recesso ad nutum della banca da un rapporto di apertura di credito, quantunque esso fosse stato convenzionalmente previsto (come consente l’art. 1845, comma 1, c.c.), qualora tale recesso in concreto assuma connotati imprevisti ed arbitrari, contrastando con la ragionevole aspettativa del cliente di poter disporre della provvista per tutto il tempo convenuto.
[23] Mi riferisco al pensiero di N. Lipari, espresso in molti scritti, tra cui Il diritto civile tra legge e giudizio, Giuffrè, Milano, 2017, pagg. 46 e segg.
[24] Penso, naturalmente, ai molteplici scritti di Paolo Grossi, tra i quali La invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2017, pagg. 831 e segg.
[25] C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Giuffrè, Milano, 2015.
[26] N. Irti, Il salvagente della forma, Laterza, Roma-Bari, 2007; Id., La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, pagg. 36 e segg; Id., Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., 2015, pagg. 11 e segg.
[27] Ancora N. Irti, Diritto senza verità, Laterza, Roma-Bari, 2011.
[28] E. Navarretta, Costituzione europea e diritto privato, Giappichelli, Torino, 2017, pag. 222.
[29] Sul ruolo dell’argomentazione giuridica come baluardo della certezza del diritto in un’epoca che ben poca certezza garantisce, si veda A. Abignente, L’ordine e il molteplice, Editoriale scientifica, Napoli, 2020.
Nota dell'Autore: Cesare Ruperto, che giunge ora all’invidiabile traguardo dei cento anni di età, ha speso gran parte della sua vita al servizio della giurisdizione, prima come giudice di merito, poi in Corte di cassazione ed, infine, nella Corte costituzionale, che per alcun tempo ha presieduto. All’elaborazione della giurisprudenza egli ha dato un grande contributo, non solo con le sue sentenze ma anche con scritti di dottrina e coordinando plurime edizioni di una Rassegna di giurisprudenza sul Codice civile che è stato strumento prezioso di orientamento per generazioni di magistrati ed avvocati prima ancora che si diffondesse la ricerca informatica. E’ per questo che, in uno scritto a lui dedicato, mi è parso opportuno trattare il tema dello ius dicere, e quindi all’opera della giurisprudenza che a Cesare Ruperto deve molto ed alla quale egli si è così tanto appassionato.