Niente è più difficile che giudicare gli altri; ed eventualmente punirli. Le persone che assumono il compito pubblico di accusare e processare penalmente – se sono professionalmente adeguate, consapevoli, empatiche – non possono che riconoscere, con la dovuta saggezza, di trovarsi in una posizione scomoda. Eppure, non giudicare – non condannare i responsabili di azioni proibite penalmente – non è un’opzione praticabile. La vita sociale è conflittuale; e le controversie richiedono soluzioni. Per convivere pacificamente, un soggetto terzo rispetto alle parti in conflitto deve esercitare l’autorità di giudicare, sulla base di regole e di prove.
Per questo, secondo l’Antico Testamento, Mosè disse al popolo d’Israele: «Costituirai giudici e magistrati in tutte le città che il Signore, tuo Dio, ti darà, tribù per tribù: essi giudicheranno il popolo con sentenze giuste. Non farai violenza al diritto, non avrai riguardi personali e non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti. Seguirai la giustizia, e solo giustizia» (Dt 16,18-20).
Qual è, allora, il significato del principio cristiano nolite iudicare, ut non iudicemini? Il Vangelo dice: «Non giudicate, per non essere giudicati» (Mt 7,1); «Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati» (Lc 6,37).
Si tratta di un principio morale, che possiamo interpretare come un invito alla moderazione e all’umiltà nell’esercizio della giurisdizione; in particolare nelle questioni penali, dove in ballo è l’amministrazione di una violenza che può essere brutale. Nolite iudicare non va inteso nel suo significato letterale. Non è propriamente un divieto. È un monito di cautela per coloro che hanno il dovere di giudicare. È, insomma, un criterio di azione rivolto a tutti i soggetti coinvolti nell’esercizio del potere punitivo: tendente all’umanizzazione delle loro decisioni e degli atti che ne conseguono.
Perfecto Andrés Ibáñez ha scritto che «quella del giudice è sempre stata e continua a essere una figura inquietante, proprio in virtù della sua posizione istituzionale: connotata, si potrebbe dire, da una strutturale arroganza. Quella tipica di un soggetto che, funzionalmente, dà e toglie agli altri la ragione; il che implica che egli la possieda, sempre e per principio. Per giunta, questa ragione istituzionalizzata è amministrata in un regime di discrezionalità, inevitabile, e talora immensa»[1].
Gustavo Zagrebelsky ha osservato che «c’è qualcosa di ostico, di duro da sopportare, nella figura del giudice. Come puoi tu pretendere di giudicarmi senza ch’io, a mia volta, possa giudicarti? […] Chi sei tu per giudicarmi? A bene pensarci, il giudizio è qualcosa di repellente la comune umanità che ci lega tutti nella medesima e uguale natura. Con quale coraggio un uomo o una donna possono ergersi a giudice d’un altro uomo o di un’altra donna?»[2].
Siamo invitati a interrogaci sul nesso tra potere giudiziario e verità. Ma cos’è la verità invocata come assioma nelle decisioni delle autorità? Gesù Cristo, a cui Pilato domandò «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38), si rifiutò di rispondere a questa domanda proveniente dal potere, essendo egli stesso la verità e testimone della verità (Gv 14,6).
Possiamo forse pensare che il potere di giudicare derivi dalla giustizia. Ma il dubbio solleva quesiti radicali: «che cos’è la giustizia e chi può dire di essere giusto?». Di fronte a questo interrogativo, Zagrebelsky riconosce che è solo la forza a regolare il giudizio: «È, infatti, dalla forza, la forza della legge, che una persona tra le tante è eretta a giudice»[3].
Di fronte all’esercizio della forza pubblica, irrimediabilmente violento, il principio nolite iudicare sollecita l’attenzione e la prudenza degli agenti del sistema penale: i quali «tremando dovrebbero reggere le vite e le fortune degli uomini»[4]. La pena inflitta al responsabile di un crimine è un male, che – come l’amputazione di un arto – sarebbe preferibile non dover compiere. Anche se necessaria, la pena resta un male: in sé e in quanto conferisce ad alcune persone il potere di giudicare e punire altre persone.
Lo ha spiegato bene, di recente, un filosofo del diritto: «la legge penale porta in sé il male a cui apporta rimedio. Contiene la violenza nel duplice senso del verbo: la limita e la incorpora; la limita in quanto la incorpora. Se è vero che non possiamo permetterci di farne a meno, non possiamo neppure farci illusioni: proibizioni e sanzioni sono decisioni assunte da uomini; da uomini dotati di potere»[5].
A fronte di questa consapevolezza, possiamo trarre qualche indicazione dal principio nolite iudicare, inteso come direttiva per l’umanizzazione dell’esercizio del potere di punire. Innanzitutto, dovremmo preoccuparci che la violenza della pena sia regolata con la compassione che si esige da chi ne avverte l’intrinseca aporia: la legittimità morale della sua applicazione, infatti, non è mai incontestabile.
Per questo, la funzione del giudice – tenuto a decidere se punire – deve essere svolta con profondo rispetto e autentica comprensione nei confronti delle persone coinvolte nel processo; dei loro interessi e delle loro emozioni. Il potere istituzionale, di cui il giudice è investito, deve accompagnarsi alla capacità personale di resistere alla tendenza – storicamente comprovata dall’esperienza – di inclinare all’abuso, all’arbitrio, all’indolenza.
Come ha giustamente sottolineato Luigi Ferrajoli, nello Stato costituzionale di diritto il principio nolite iudicare implica il divieto di inquisire la soggettività delle persone e la moralità dei comportamenti non qualificati dalla legge come reati; in modo che, nel processo e nel giudizio, rilevi soltanto il disvalore giuridico delle azioni, determinato in base a ciò che i diritti fondamentali ammettono possa essere proibito ed eventualmente punito[6].
Occorre essere consapevoli, lo ribadisco, di tutte le asperità della funzione giudiziaria (ben descritte e analizzate nell’opera di Andrés Ibáñez[7]): dal dilemma morale di giudicare gli altri, con il giudice nella posizione di terzo, alla difficoltà di giudicare i soggetti pubblici, con il giudice nella posizione di terzo potere.
Da questa prospettiva garantista, l’uso sociale dei beni confiscati, per gravi reati compiuti da organizzazioni criminali, è uno strumento di grande utilità nell’umanizzazione della giustizia penale, poiché non riduce la risposta punitiva alla mera reazione contro la libertà del colpevole, ma riconduce alla comunità i patrimoni accumulati attraverso le attività delittuose che le arrecano danno.
Nel progetto di civiltà del diritto, consegnato alle pagine di Per una Costituzione della Terra, Ferrajoli ha illustrato la nozione di «crimini di sistema»[8]: quelli che colpiscono l’intera umanità e la dignità di tutte le persone. Papa Francesco, indirizzando una lettera al Congresso di Costituente Terra, ha sottolineato il valore del progetto costituzionale promosso da Ferrajoli: «Per fronteggiare i pericoli di carattere globale, che l’azione stessa degli uomini ha generato e continua a generare, sono necessari accordi vincolanti […]; il diritto deve essere attuato e reso effettivo, differenziandosi dalle mere dichiarazioni di principio»[9].
L’applicazione della pena ai responsabili dei più gravi reati è funzionale all’effettività del diritto. E la confisca dei beni è funzionale al loro utilizzo a vantaggio della collettività colpita da quei reati. Nell’orizzonte della concezione umanistica del diritto di punire, si configura poi l’esigenza di sostituire la pena privativa della libertà, centrale nei sistemi penali contemporanei, con il risarcimento dei danni patrimoniali causati dal reato, accettando tale alternativa come sufficiente per ogni tipo di lieve devianza ed escludendo la punibilità se il fatto non è grave.
In sintonia con l’opera riformatrice di papa Francesco, che ha schierato la Chiesa cattolica contro l’ergastolo e la pena di morte[10], dobbiamo procedere verso una riduzione al minimo del potere penale di privazione della libertà, limitandone l’esercizio alle sole lesioni di beni e diritti fondamentali. Negli altri casi, occorre sostituire completamente la sanzione penale o combinarla con soluzioni alternative, come quelle risarcitorie. Su questa strada, indirizzeremo la politica del diritto verso l’attuazione del principio nolite iudicare: non già allo scopo di non giudicare, bensì di non giudicare (e condannare) sempre e solo penalmente.
[1] P. Andrés Ibáñez, Tercero en discordia. Jurisdicción y juez del estado constitucional, Trotta, Madrid, 2015, p. 346.
[2] G. Zagrebelsky, La giustizia come professione, Einaudi, Torino, 2021, pp. 127-128.
[4] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), a cura di P. Calamandrei, Le Monnier, Firenze, 1945, p. 136.
[5] D. Ippolito, Efficientismo versus garantismo. La giustizia penale nel contratto sociale, in F. Biondi e R. Sacchi (a cura di), Garanzie ed efficienza nella giustizia in una prospettiva multidisciplinare, Giappichelli, Torino, 2024, p. 48.
[6] L. Ferrajoli, La ética de la jurisdicción penal, in Id., Escritos sobre derecho penal, a cura di N. Guzmán, Hammurabi, Buenos Aires, 2014, vol. 1, p. 425.
[7] Cfr. P. Andrés Ibáñez, Tercero en discordia, cit., p. 27.
[8] L. Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, Milano, 2022, pp. 40-47.
[9] Un estratto della lettera di papa Francesco è apparso in «Il Manifesto», 22 maggio 2024: https://ilmanifesto.it/il-diritto-serve-se-cambia-davvero-il-mondo.
[10] Cfr. L. Arroyo Zapatero (a cura di), La pasión de la crueldad. El Papa Francisco contra la pena de muerte, Ediciones de la Universidad de Castilla-La Mancha, Cuenca, 2016; G. Gonnella e M. Ruotolo (a cura di), Giustizia e carceri secondo papa Francesco, Jaca Book, Milano, 2016.
Si pubblica il testo dell’intervento che l’illustre penalista argentino ha svolto presso la Pontificia Accademia delle Scienze, in occasione del convegno L’uso sociale dei beni confiscati. La traduzione dal castigliano è di Dario Ippolito.