Magistratura democratica
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L’incerta tutela della legalità costituzionale nel caso degli stranieri irregolari

di Francesco Pallante
Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Torino

A breve commento della sentenza n. 96/2025 della Corte costituzionale

1. Pronunciando la sentenza n. 96/2025[1], la Corte costituzionale è tornata a occuparsi della legittimità costituzionale della limitazione della libertà personale degli stranieri respinti alla frontiera e in attesa di espulsione dal territorio dello Stato (artt. 10 e 14 del d.lgs. n. 286/1998), con esiti, come già accaduto in passato, e in particolare con la sentenza n. 105/2001, tanto sicuri sul piano teorico, quanto incerti sul piano pratico.

 

2. Per inquadrare la vicenda dalla prospettiva del diritto costituzionale, occorre anzitutto considerare un elemento di carattere strutturale, che giustifica l’esigenza che lo Stato adotti una particolare cautela nell’esercitare i poteri coercitivi comportanti la detenzione dello straniero in attesa di espulsione per ingresso irregolare nel territorio italiano: vale a dire, il fatto che la persona privata della propria libertà non ha commesso reati, ma viene reclusa per via della sua condizione di migrante irregolare.

Nei casi in questione, lo stato di detenzione è, in effetti, determinato non da ciò che il detenuto ha fatto, ma da ciò che il detenuto è (dalla sua condizione personale): una situazione che stride con l’idea, alla base della modernità giuridica, per cui lo Stato è tenuto a rapportarsi nei confronti di coloro che sono soggetti alla sua sovranità (quantomeno) in base al principio di uguaglianza formale: principio che – come afferma l’art. 3, co. 1, della nostra Costituzione – non consente, tra l’altro, trattamenti deteriori motivati da «condizioni personali e sociali»[2].

 

3. A tale elemento di carattere strutturale occorre aggiungere due elementi di carattere funzionale, che ugualmente giustificano la massima cautela nel limitare la libertà personale degli stranieri per via della loro condizione di irregolari.

Il primo elemento consiste nella circostanza che lo straniero entrato irregolarmente nel territorio nazionale è privato della propria libertà a causa dell’inefficienza dello Stato, incapace di provvedere, in tempi ragionevoli, all’allontanamento dal proprio territorio di chi vi è entrato (o ha tentato di entrarvi) senza titolo. In tal modo, la responsabilità dell’inefficienza dello Stato è fatta gravare sullo straniero irregolare, senza peraltro che ciò serva a recuperare alcunché sul piano dell’efficienza dell’allontanamento, com’è dimostrato dal fatto che oltre la metà dei reclusi nei Cpr è rilasciata allo scadere del termine massimo di reclusione senza che lo Stato sia riuscito a procedere all’espulsione. Dunque, in oltre la metà dei casi la detenzione risulta una misura meramente afflittiva, priva di qualsivoglia titolo di giustificazione.

Il secondo elemento consta nel fatto la gestione dei Cpr è affidata dallo Stato a soggetti privati che – come hanno dimostrato diverse inchieste, dapprima giornalistiche e poi giudiziarie – operano con logica economica anche a discapito del rispetto della dignità delle persone recluse. Ciò significa che lo Stato affida quel che residua della libertà di un essere umano – il suo bene più prezioso, dopo la vita – alla gestione di operatori economici privati che hanno per obiettivo il profitto. C’è da stupirsi che in tanti Cpr le condizioni igieniche siano spaventose, il cibo sia immangiabile, gli abusi degli psicofarmaci siano all’ordine del giorno, gli atti di autolesionismo siano fuori controllo, e via dicendo? È, questo, un elemento particolarmente rilevante ai fini del discorso in atto, dal momento che tutto ciò ha direttamente a che fare con i «modi» della detenzione su cui si sofferma la sentenza n. 96/2025 della Corte costituzionale.

 

4. Il punto – afferma la Corte costituzionale – è la violazione della riserva di legge prevista dall’art. 13, co. 2, Cost., dal momento che l’art. 14 del d.lgs. n. 286/1998 disciplina solo i «casi», non anche i «modi», della detenzione nei Cpr. La disciplina dei «modi» è rimessa al regolamento governativo (art. 21, co. 8, del d.P.R. n. 394/1999), il quale a sua volta rimanda la definizione delle «disposizioni occorrenti per la regolare convivenza all’interno del centro, comprese le misure strettamente indispensabili per garantire l’incolumità delle persone, nonché quelle occorrenti per disciplinare le modalità di erogazione dei servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale e le modalità di svolgimento delle visite», a provvedimenti amministrativi prefettizi da adottarsi nel rispetto delle direttive impartite dal Ministro dell’Interno. In tal modo, non soltanto è violata la riserva di legge di cui all’art. 13, co. 2, Cost., ma è altresì ulteriormente violato il principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3, co. 1, Cost., dal momento che l’adozione degli atti da parte dei prefetti inevitabilmente conduce alla definizione di discipline tra loro differenziate sul territorio nazionale.

Insomma: il quadro normativo è tale per cui il soggetto costituzionalmente titolato all’uso legittimo della forza – il Governo – si dà da sé medesimo, secondo l’occasione, le regole del proprio agire, esigenze di tutela dei diritti costituzionali incluse, così vanificando un’altra idea-base della modernità giuridica (e, più precisamente, del costituzionalismo): quella per cui il diritto è strumento di eterolegittimazione (e quindi di limitazione) del potere, non di autolegittimazione dello stesso.

 

5. Nella sentenza n. 96/2025, la Corte costituzionale riconosce apertamente i gravissimi vizi di incostituzionalità del quadro normativo ora descritto; e, tuttavia, non adotta alcuna misura volta a sanare la situazione. Nemmeno rivolge un monito esplicito al Parlamento, affinché intervenga; si limita a constatare che «spetta, dunque, al legislatore adottare una disciplina che assicuri un’adeguata base legale alle enunciate istanze, tanto più urgente in considerazione della centralità della libertà personale nel disegno costituzionale» (punto 11 del Considerato in diritto).

È fin troppo facile ricordare, a contrario, il ricorrere nella giurisprudenza costituzionale di moniti dai toni assai più incisivi, se non di sentenze contenenti l’assegnazione di un termine al legislatore entro cui intervenire, pena, allo scadere, l’immediata dichiarazione d’incostituzionalità della normativa viziata.

A maggior ragione l’inanità della reazione della Corte costituzionale nel caso in parola costituisce, dunque, un precedente pericoloso, poiché potenzialmente suscettibile di minare alla radice la funzione di garanzia democratica della riserva di legge, trasformandola da strumento di garanzia dei diritti a strumento di abuso del legislatore contro i diritti medesimi. Rimanendo così le cose, la maggioranza potrebbe in ogni caso futuro ignorare la riserva di legge, senza rischiare conseguenze concrete, pur in esito all’accertamento dell’incostituzionalità della normativa adottata.

 

6. È chiaro che, alla base della posizione della Corte costituzionale, vi è la difficoltà di colpire l’incostituzionalità causata da una lacuna, senz’altro maggiore rispetto a quella dovuta a un’antinomia. Il giudice delle leggi nasce come “legislatore negativo” e inevitabilmente si trova in ambasce quando si tratta di dettare la normativa mancante ma necessaria affinché la Costituzione sia rispettata. Nel tempo, tuttavia, la stessa giurisprudenza costituzionale ha affinato i propri strumenti di giudizio, addivenendo alla definizione di un articolato insieme di rimedi, tale per cui sembra difficile argomentare che proprio il caso riguardante la tutela della libertà che fa da prototipo alla tutela di tutte le altre sia rimasto privo di protezione di fronte alla più clamorosa delle violazioni che possano riguardarla[3].

Cos’altro avrebbe, dunque, potuto fare la Corte costituzionale?

Lo contempla – per subito escluderlo – la stessa sentenza n. 96/2025: avrebbe potuto prendere a modello, in vista di una pronuncia additiva, la disciplina dell’ordinamento penitenziario, in modo da renderla, sia pure in via provvisoria, applicabile anche al caso della detenzione nei Cpr.

Sarebbe certamente stata una soluzione insoddisfacente, a causa della possibile confusione tra la condizione del recluso nel Cpr, per la sua condizione di soggiornante irregolare, e la condizione del recluso in carcere, per aver commesso un reato: confusione che giustamente la Corte costituzionale stigmatizza e afferma di voler scongiurare. Ma – a parte il fatto che (a) forse sarebbe venuta meno un’ipocrisia (risalente alla sentenza n. 105/2001) e che (b) la sentenza avrebbe potuto comunque argomentare l’addizione in termini adeguatamente prudenziali – il problema è che la soluzione alternativa scelta dalla Corte risulta ancor più insoddisfacente, in quanto viziata da un’insanabile irragionevolezza. Il risultato, infatti è che oggi, per decisione della Corte costituzionale, la situazione che meno giustifica la privazione della libertà (l’essere stranieri irregolari) è tutelata meno incisivamente della situazione che più giustifica la privazione della libertà (l’aver commesso un reato). Di fatto, la detenzione amministrativa è più afflittiva, in quanto meno garantita, della detenzione penale: un esito che, se fosse stato prodotto dal legislatore, la Corte non avrebbe esitato a bollare – appunto – come gravemente irragionevole.

Sotto questo profilo, il richiamo effettuato nella sentenza all’art. 700 c.p.c. e all’art. 2043 c.c., quali possibili rimedi “di chiusura”, è del tutto inadeguato, trattandosi di rimedi che, proprio per via della loro configurazione generale, valgono allo stesso modo anche per il detenuto a seguito di condanna penale.

Altrettanto inadeguato risulta, inoltre, il richiamo al precedente delle Rems (sentenza n. 22/2022): i reclusi in tali istituti lo sono, infatti, in quanto riconosciuti come soggetti socialmente pericolosi, condizione che non è affatto detto ricorra per le persone recluse nei Cpr.

 

7. Una sola altra soluzione era percorribile, nel caso non si fosse comunque voluto ricorrere all’additiva con riferimento l’ordinamento penitenziario.

Considerato che, in una Costituzione d’ispirazione liberaldemocratica, come quella italiana, la regola è la libertà e la limitazione della libertà è l’eccezione adottabile solo alle rigorose condizioni dettate dalla Costituzione, se ne deve concludere che il mancato rispetto delle condizioni previste per l’eccezione fa venir meno l’eccezione stessa, riespandendo la portata normativa della regola. Dunque, rilevata la violazione della riserva di legge, sia pure limitatamente ai «modi» e non anche ai «casi» della limitazione della libertà, l’intera normativa sui Cpr avrebbe dovuto essere annullata (lasciando facoltà al legislatore di eventualmente riscriverla ex novo).

È chiaro che si sarebbe trattato di una decisione ad alto rischio di polemica politica: ma è altresì chiaro che, nell’ottica del costituzionalismo, decisamente più rischioso è rimettere – così come ha fatto la Corte – l’osservanza della Costituzione alla mercé delle decisioni della maggioranza di governo (persino al netto dalle inclinazioni autoritarie che possono contingentemente venarla: com’è, peraltro, nel caso odierno).

 

8. Residua la questione di come dovranno ora comportarsi i giudici ordinari chiamati a convalidare i trattenimenti nei Cpr. La delicatezza della posizione in cui vengono a ritrovarsi è evidente, dal momento che sono chiamati ad applicare una legge non annullata, ma della cui incostituzionalità sono certi oltre ogni dubbio, essendo stata espressamente riscontrata dalla Corte costituzionale.

Due sono le alternative che si presentano loro.

La più lineare sembra essere applicare la legge, ma non il regolamento e i provvedimenti prefettizi, ricavando la normativa di dettaglio sui «modi» della detenzione nei Cpr in via analogica da altre fonti primarie (l’ordinamento penitenziario) o dai principi generali dell’ordinamento: come se la Corte avesse pronunciato una sorta di additiva nemmeno di principio, ma “in bianco”.

Se, però, tale strada fosse ritenuta impercorribile, avendo la stessa Corte costituzionale escluso la possibilità di fare riferimento all’ordinamento penitenziario (probabilmente la sola fonte primaria adottabile a riferimento analogico), non rimarrebbe allora, come suggerito da Andrea Natale[4], che l’ipotesi di sollevare nuovamente questione d’incostituzionalità, sospendendo il giudizio con conseguente liberazione dello straniero irregolare dal Cpr.

Altre opzioni non sembrano praticabili: certamente, non quella di continuare ad applicare una normativa la cui incostituzionalità, pur non dichiarata, è stata espressamente accertata dall’organo deputato a farlo.


 
[1] Tra i primi commenti: A. Algostino, Dalla Consulta un monito debole. Ma i Cpr vanno chiusi, in il Manifesto, 10 luglio 2025; G. Azzariti, La Consulta può battere un altro colpo, in il Manifesto, 8 luglio 2025; S. Fachile e G. Santoro, La Corte costituzionale apre a nuove battaglie contro la detenzione amministrativa, in Melting Pot Europa, 4 luglio 2025 (https://www.meltingpot.org/2025/07/la-corte-costituzionale-apre-a-nuove-battaglie-contro-la-detenzione-amministrativa/); F. Pallante, Così si rinuncia a un controllo incisivo, in il Manifesto, 4 luglio 2025; A. Natale, I CPR e la Costituzione. Il rischio di una impasse. Il rischio di zone franche, in Questione giustizia online, 7 luglio 2025 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/nota-a-cda-cagliari-e-corte-cost-96_2025); A. Ruggeri, Ragionando intorno al seguito da dare a Corte cost. n. 96 del 2025 per le persone trattenute nei CPR, in Giustizia insieme, 8 luglio 2025 (https://www.giustiziainsieme.it/it/costituzione-e-carta-dei-diritti-fondamentali/3554-ragionando-attorno-al-seguito-da-dare-a-corte-cost-n-96-del-2025-per-le-persone-trattenute-nei-cpr); M. Villone, La Corte senza coraggio che critica ma non boccia, in Il Fatto quotidiano, 6 luglio 2025.

[2] Per inciso: tale idea-base è oggi apertamente violata dall’art. 10-bis della legge n. 91/1992 – introdotto nel 2018 e poi modificato nel 2025 – sulla revoca selettiva della cittadinanza ai danni dei condannati per gravi reati, dimodoché la perdita della cittadinanza può colpire solo coloro che l’hanno acquisita nel corso della loro esistenza, non anche coloro che sono cittadini per nascita. Di fatto, ciò significa che lo status di cittadino non è più univoco, ma suddiviso in due distinte categorie, di cui una depotenziata rispetto all’altra: si tratta, probabilmente, della più grave violazione della Costituzione in atto.

[3] G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, parte seconda, cap. 7, par. 4.

[4] A. Natale, cit.

25/07/2025
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