1. L’oggetto, in sintesi, della questione di legittimità costituzionale
Il numero di autocitazioni che costellano la sentenza n° 68 del 2025 della Corte costituzionale testimonia della quantità di volte in cui essa è stata chiamata a pronunciarsi sulla legge n° 40 del 2004 e, più in generale, sin da anni prima della sua entrata in vigore, sui rapporti di genitorialità/filiazione, in particolare (ma non solo: v. sent. n° 494 del 2002 sul riconoscimento dei figli incestuosi) derivanti da procreazione medicalmente assistita, e sui diritti e doveri che ne scaturiscono e che lo connotano. Questa volta, in discussione era la legittimità costituzionale della norma che impedisce al nato da procreazione medicalmente assistita eterologa praticata all’estero, in uno Stato dove essa è consentita, da una coppia di donne, di vedersi attribuire lo status di figlio riconosciuto anche nei confronti della madre “intenzionale” consenziente, insieme con la madre biologica, alla pratica fecondativa; e che, comunque, impone la cancellazione dall’atto di nascita del riconoscimento compiuto dalla madre intenzionale (art. 8 l. n° 40/2004). A questa sola disposizione, infatti, la Corte ha sin da principio (dopo aver disatteso le pregiudiziali di ammissibilità) delimitato l’oggetto del più ampio quesito postole dal Tribunale di Lucca (peraltro riducendo anche l’elenco dei parametri invocati). Questa operazione di ridefinizione del perimetro della questione di legittimità costituzionale è funzionale a chiarire, più che il suo oggetto, ciò che suo oggetto non è: e cioè, nelle parole stesse della Corte, «il diverso profilo delle condizioni, soggettive e oggettive, di accesso alla PMA in Italia e dei correlati divieti, come attualmente previsti dall’ordinamento». In altre parole, la questione non concerne né l’«aspirazione alla genitorialità da parte delle coppie omosessuali», né «i profili legati alla filiazione da modalità della gestazione per altri (cosiddetta maternità surrogata)». Insomma, non viene qui in considerazione «la qualificazione giuridica dell’aspirazione alla genitorialità ma l’interesse del figlio nato in Italia da PMA praticata all’estero». La spiegazione – mi pare – non avrebbe potuto essere più chiara. Onde non si può che meravigliarsi delle reazioni registrate nell’opinione pubblica, nei media e nel mondo politico, divise tra quelle che inneggiano ad un passo decisivo verso altri, vagheggiati, sviluppi in materia di procreazione assistita (in sé considerata), e quelle che si dolgono con alti lai dell’ormai evidente sgretolamento di ogni residua barriera contro il definitivo abbandono di ogni ritegno morale. Ma su questo tornerò meglio in séguito.
2. Uno sguardo ai precedenti e i caposaldi della motivazione
Sequel (prevedibile, data l’ormai consueta, annosa ritrosia del Parlamento ad affrontare, anche quando vi sia autorevolmente esortato dalla Corte costituzionale, temi che richiedano un po’ di riflessione seria e non partigiana: si pensi soltanto al tema del fine vita) della decisione-monito (inascoltato) con cui la Corte aveva dichiarato inammissibile una questione simile (sent. n° 32 del 2021) sulla scorta del principio della discrezionalità del legislatore, la sentenza in commento, in poche parole, si iscrive nel solco, già da tempo tracciato e ormai profondo e (relativamente) lineare, della tutela del figlio, in particolare (per quanto qui maggiormente interessa), ma non solo, proteggendolo dalle conseguenze che – pur da innocente – dovrebbe subire per la condotta illecita dei genitori.
La ricostruzione che la Corte fa dei principî, delle norme e della loro evoluzione nella sua giurisprudenza (ma anche in quella della Cassazione) copre, invero, tutti i tasselli della questione, i quali convergono univocamente verso la conclusione della sentenza additiva che dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 8 l. n° 40/2004 «nella parte in cui non prevede che pure il nato in Italia da donna che ha fatto ricorso all’estero, in osservanza delle norme ivi vigenti, a tecniche di procreazione medicalmente assistita ha lo stato di figlio riconosciuto anche della donna che, del pari, ha espresso il preventivo consenso al ricorso alle tecniche medesime e alla correlata assunzione di responsabilità genitoriale».
Partendo da una accurata ed elaborata definizione dello status di figlio (e della sua «unicità», o forse meglio della sua “unitarietà”, nelle diverse declinazioni in cui il concetto si invera) e delle correlate responsabilità genitoriali, scaturenti da un atto di comune volontà (che non necessariamente si traduce e si manifesta nell’incontro dei rispettivi gameti di maschio e femmina), la Corte concentra il suo percorso argomentativo sul «primario interesse del minore»; quell’interesse che trova implicita sanzione negli artt. 2 e 30 della nostra Costituzione e in molteplici strumenti giuridici (vincolanti e non) internazionali: come, primo fra tutti, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con l. n° 176/1991, e molti altri trattati internazionali “regionali”, tra cui la Carta di Nizza, all’art. 24.3; ma come anche l’art. 8 della Cedu (a volte la Corte sembra farsi un punto d’onore di ignorarla, anche in questa sentenza, in cui avrebbe meritato una menzione, come la meritò in altre precedenti pronunce) ed altri strumenti “regionali”, specie del Consiglio d’Europa, che vanno ricordati (e furono ricordati in precedenti occasioni) perché, nel trattare di materie diverse ma in qualche misura connesse, non tralasciano di rammentare il carattere preminente dei diritti dell’infanzia (tra i molti, la Convenzione sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, le Linee-guida per una giustizia adatta ai minori, o la Raccomandazione sulla prevenzione e risoluzione delle controversie in materia di ricollocamento dei bambini).
Da qui – rammentando, strada facendo, l’esclusione di una pretesa inidoneità assoluta e generale delle coppie omosessuali alla genitorialità (in consonanza con la Corte di cassazione) – la Consulta perviene all’affermazione centrale dell’intero percorso argomentativo: che è la tutela del soggetto “debole” della relazione tripartita “madre biologica-madre d’intenzione-figlio”. Il quale ha diritto alla fruizione di un rapporto con entrambe le genitrici (la sola madre biologica, quindi, non basta a soddisfarlo interamente) ed all’assolvimento, da parte di esse, biologiche o d’intenzione che siano, degli obblighi che l’art. 30 Cost. e l’art. 147 c.c. impongono loro; ed ha diritto – questo è quanto emerge dalla sentenza, sebbene non venga detto espressamente – a che questo assolvimento goda della garanzia legale: costituisca cioè, al pari di ciò che avviene nelle altre forme (consentite) di procreazione, un obbligo giuridico, e non soltanto morale o affettivo, gravante su entrambe le genitrici.
3. L’affermazione di un “nuovo” diritto genitoriale, o la conferma di diritti già riconosciuti in capo al figlio? L’insufficiente tutela degli strumenti esistenti
In definitiva, consentendo il riconoscimento del figlio da parte della madre d’intenzione e la conseguente trascrizione, nell’atto di nascita, del suo nome, non le si riconosce un diritto proprio, ma le si attribuisce un diritto-dovere funzionale al vero diritto tutelato, che è quello del figlio alla bigenitorialità, all’identità personale, all’assistenza morale e materiale (giuridicamente obbligatoria) da parte di entrambe le donne che lo hanno voluto.
Effetto che – è vero – potrebbe anche realizzarsi (come spesso in Italia si è realizzato e si realizza) mediante il ricorso all’adozione in casi speciali, un tempo ritenuta dalla Consulta un efficace strumento alternativo di tutela, ma della quale, oggi, la Corte pone in luce limiti ed insufficienze.
Sintetizzando, la Corte individua alcuni ostacoli economico-pratici ad una piena attitudine dell’adozione a soddisfare le esigenze di rango costituzionale oggetto della questione rimessa al suo scrutinio (costi e tempi del procedimento giurisdizionale, con il coinvolgimento di autorità amministrative); ma ne indica anche altri che vanno assai più in là di tale profilo e investono le nozioni di “diritto” e di “tutela” nella loro stessa essenza: così, il prolungato «stato di incertezza e imprevedibilità» in cui viene tenuto il minore, in ordine al suo status; la completa subordinazione della legalizzazione del rapporto di filiazione “intenzionale” alla scelta – di fatto al mero arbitrio – della madre intenzionale, in difetto di legittimazione della madre biologica e dello stesso minore ed in assenza di strumenti giuridici per far valere i diritti del nato nei suoi confronti; la perdita di ogni diritto – e di ogni prospettiva di diritto – in capo al minore in caso di morte della madre intenzionale.
Anche la «perpetua precarietà» della situazione del minore, derivante dall’eterogeneità delle prassi amministrative e degli atteggiamenti dei Pubblici Ministeri, che generano un «potenziale cortocircuito del sistema» è argomento che «emerge in modo evidente proprio nella fattispecie oggetto del giudizio a quo» e concorre a convincere la Corte della necessità di un proprio intervento adeguatore, dopo il vano monito ad un legislatore dalla sordità ormai cronica.
4. Gli esiti pratici a breve termine della sentenza: uno sguardo pessimista o solo realista?
Intervento adeguatore che, purtroppo, non è detto che produca risultati immediati. Il copione è già noto: quando la Corte – dopo un primo severo monito al legislatore, lanciato da un’ordinanza interlocutoria (in effetti, un mero rinvio) dal contenuto già così esplicito e dettagliato da aver suscitato una valanga di commenti di costituzionalisti su quella che appariva (e fu) una svolta nella giurisprudenza della Consulta in tema di sentenze manipolative su temi complessi, suscettibili di essere affrontati e risolti in più modi la cui selezione spetta al legislatore – davanti all’inerzia dell’ammonito, pronunciò la sua sentenza sul “caso Cappato” (riproducendo il “decalogo” già preannunciato nella precedente ordinanza di rinvio), parve a molti che sullo spinoso tema del suicidio assistito si fosse fatto un grande passo avanti. Non fu così, come ebbi a dire in un paio di convegni e come tutt’ora, a malincuore, ritengo: tanti e tali sono i lacci e lacciuoli nei quali oggi inciampa il malcapitato che vuole accedere in Italia al suicidio assistito, tante sono di disposizioni, se non legislative, almeno regolamentari, che sarebbero necessarie per tratteggiare procedure, per definire ruoli e responsabilità delle strutture sanitarie e per inquadrarne dettagliatamente l’azione, che i pazienti che hanno potuto avvalersi della sentenza si contano sulla punta delle dita (che io ricordi, ma posso sbagliare, ve ne sono stati solo un paio, di cui uno recentissimo in Toscana, che hanno fatto notizia). È lecito prevedere, con un po’ di sano pessimismo (o forse mero realismo), che così sarà anche per l’iscrizione della madre d’intenzione nell’atto di nascita del nato da fecondazione eterologa praticata all’estero, almeno fino a quando non vi saranno disposizioni attuative. L’effetto utile della sentenza si farà (ed anzi si è già fatto) sentire con immediatezza solo sul versante giurisdizionale, poiché i pubblici ministeri non impugneranno più le trascrizioni che alcuni singoli comuni d’Italia di fatto praticavano e continueranno a praticare, e, in caso di rifiuto dell’autorità amministrativa, i tribunali accoglieranno i ricorsi delle interessate (ma, fino a quando la pubblica amministrazione non si piegherà, si riproporrà così uno degli inconvenienti che la Corte ravvisa nella procedura alternativa dell’adozione per casi speciali: la necessità di affrontare un giudizio).
Resta che la sentenza ha una grande importanza per la sorte di molti bambini, o comunque figli minori che attualmente si trovano, o rischierebbero di trovarsi in un “limbo” di incertezza e di precarietà giuridica, non priva di possibili seri riflessi psico-esistenziali. Del resto, essa ha già avuto una prima ricaduta positiva: con una sentenza di pochi giorni successiva a quella della Corte costituzionale, la n° 15075/25 del 05/06/2025, la Corte di cassazione ne ha già fatto applicazione in un caso concreto, in cui due donne avevano agito contro l’ufficiale di stato civile di un comune contestando il rifiuto di dare atto del riconoscimento di due piccoli, nati da fecondazione eterologa, da parte della madre d’intenzione, rettificando in tal senso l’atto di nascita con l’aggiunta del nome di costei. I giudici di merito, di primo e secondo grado, avevano accolto le istanze delle due donne, e l’amministrazione aveva fatto ricorso per cassazione. La Corte ha confermato la decisione favorevole della Corte d’appello (che, è interessante notare, aveva anche argomentato in ordine alla non perfetta idoneità dell’adozione per casi speciali a soddisfare le esigenze di tutela dei minori, in piena consonanza con quello che sarà poi il percorso argomentativo della Consulta), correggendone però la motivazione, ormai incentrata esclusivamente sull’intervenuta pronuncia della Corte costituzionale e sulla sua efficacia vincolante erga omnes.
È dunque (soltanto) applicando i principî enunciati dal giudice delle leggi che la Cassazione ha potuto (ma meglio si direbbe dovuto) discostarsi da precedenti univoci di segno opposto per giungere all’approdo favorevole alla domanda proposta dalle due madri. Essa ha, peraltro, ritenuto di ribadire, correggendo in tal senso la motivazione della sentenza di appello, che tale soluzione non poteva essere raggiunta per via d’interpretazione costituzionalmente orientata, ostandovi la lettera delle disposizioni ed il loro coordinamento sistematico, la «primazia del Parlamento nella configurazione del diritto» (del resto confermata proprio dalla sentenza-monito del 2021) e l’obbligo del giudice, nell’esercizio della sua attività ermeneutica, di «tenere conto della funzione coerenziatrice che l’ordinamento assegna alla Corte di cassazione, e quindi confrontarsi con i precedenti dalla stessa elaborati».
5. L’“ovvietà” della pronuncia della Corte: non una “rivoluzione” ma un precedente con possibili ricadute a più ampio raggio
La decisione della Consulta, tuttavia, come accennavo all’inizio, non mi sembra avere la portata “storica” o “rivoluzionaria” che, in positivo o in negativo, le si vuole attribuire. È, infatti, il precipitato prevedibile di una serie di principî – alcuni di antica ed indiscussa affermazione, altri più recentemente e più sfumatamente enunciati – già presenti nella Costituzione, nelle leggi che meglio le si attagliano, e nella giurisprudenza delle Corti supreme sovranazionali (è significativa, in tema, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che, pur lasciando agli Stati ampio margine di apprezzamento sugli strumenti giuridici adoperabili, esige un effettivo e celere intervento a tutela dell’identità del minore: v. in particolare C. c. Italia, ric. n° 47196/21, sent. del 31/08/2023, def. il 30/11/2023), ma anche (ed invero ancor di più) in quella dei più umili giudici del merito (che non avevano, però, sin qui, trovato il conforto degli ermellini). Prevedibile, dico, tanto più facilmente perché, come già ho ricordato, “atto secondo” della commedia (ché di commedia conviene parlare quando al legislatore si raccomanda di affrontare temi delicati in un’ottica che non sia di pura “bandiera”) iniziata con la sentenza n° 32/2021. Non spalanca le porte della Geenna per un Paese ormai privo di freni inibitori di fronte al dilagare del malcostume, e non spiana necessariamente la via ad inarrestabili progressi verso l’incondizionata elevazione a “diritto”, per di più “fondamentale”, del desiderio di maternità (o, più ampiamente, di genitorialità), da soddisfare ad ogni costo e con ogni mezzo. Si limita a dire – mi si perdoni l’espressione, che vuol essere elogiativa e non denigratoria – un’ovvietà: che, cioè, se un bambino è nato, anche per effetto di quel che oggi si definisce un crimine universale, egli è qui, è fra noi, è umano, è vivo, è senziente, e dev’essere protetto e godere di diritti identici ad ogni altro bambino nato dalla comune volontà di due genitori.
È vero però che, ove se ne presenti l’occasione, sarà difficile (sebbene non impossibile) non estendere quell’ovvietà, criterio-guida della motivazione, ossia il best interest del figlio ormai nato, ai bambini nati in Italia da altre pratiche da noi vietate, ma lecite altrove, per esempio da maternità surrogata. Come si potrà, è lecito chiedersi, dimenticare i diritti che al figlio, innocente frutto della condotta illecita dei genitori, sono stati esplicitamente, e con tanta forza argomentativa, riconosciuti dalla sentenza n° 68/2025?
In questo senso, la Corte costituzionale potrebbe un giorno decidere di affrancarsi dai limiti alle prospettive liberalizzatrici che aveva tracciato con le sentenze n° 272 del 2017 e n° 33 del 2021. In entrambe le pronunce, in consonanza, peraltro, con una certa parte del pensiero femminista, essa si esprime con parole assai dure sulla pratica della gestazione per altri, che «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», e, nella seconda sentenza, aggiunge «che gli accordi di maternità surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate».
Nella prima sentenza, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c., sollevata sul presupposto che la disposizione non consentirebbe al giudice di tenere in considerazione l’interesse del minore alla conservazione di uno status filiationis già acquisito, il giudice delle leggi aveva negato tale carattere di assolutezza della norma. Sulla scorta di un elaborato ragionamento, ricco di riferimenti normativi e giurisprudenziali, non solo interni, aveva affermato il potere-dovere del giudice operare una comparazione tra gli interessi in giuoco, escludendo che l’uno (il favor veritatis) potesse imporsi «in modo automatico sull’interesse del minore», ma anche che la valorizzazione di quest’ultimo producesse «l’automatica cancellazione» del primo. Se non che, nel descrivere poi oggetto ed elementi del giudizio di comparazione, la Corte introduce un riferimento specifico alla legge che già compie tale valutazione, talora in un senso (divieto di disconoscimento della paternità del figlio nato da fecondazione eterologa), talora nell’altro («l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata»). Il riferimento a bilanciamenti già normativamente operati riduceva però non di poco il margine di apprezzamento del giudice, in particolare quando fosse in giuoco l’imprescindibile prevalenza della verità in ossequio al divieto assoluto della maternità surrogata, dove tale margine era ridotto a zero. E non era agevole comprendere come l’interesse del minore potesse non essere “cancellato” da un bilanciamento impossibile.
Con la sentenza additiva del 2022, invece, i giudici di piazza del Quirinale dichiararono «l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante». Anche in questo caso – ma con diverso approdo – il focus della pronuncia è l’interesse (superiore) del figlio minore, a fronte del quale, però, la Corte non individua un contro-interesse di rango costituzionale da contrapporre ad esso. Ma, ancora in questo caso, essa non manca di evidenziare l’intersezione di «questioni legate alla procreazione medicalmente assistita e al ricorso all’estero alla PMA e talora alla surrogazione di maternità» e di evidenziare, come già in passato, le «diverse sfaccettature del fenomeno tra di loro interconnesse», ribadendo la volontà di «escludere che il “desiderio di genitorialità”, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita “lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati”, possa legittimare un presunto “diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo”»; in questo quadro, la Consulta ha «ribadito le ragioni del divieto di surrogazione di maternità, che “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” […], assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale».
Se queste sono le premesse, si può forse dubitare, data la forza con cui sono poste, che i confini tracciati dalla pregressa giurisprudenza costituzionale possano facilmente cadere in un futuro a breve termine. E tuttavia è tutt’altro che scontato che le rigide preclusioni nei riguardi della gestazione per altri, che hanno trovato una così decisa e ferma espressione nei passi delle sentenze appena citate, possano resistere per molto tempo all’onda lunga di una sentenza che indubbiamente incide, circoscrivendone le conseguenze, su di un altro divieto imposto dalla legge, sia pure di gravità molto minore, trattandosi di un illecito amministrativo punito con una mera sanzione pecuniaria, non applicabile, peraltro, ai genitori (art. 12, commi 1, 2, 4 e 5 l. n° 40/2004, in relazione al comma 8), e non di un reato punito con pena detentiva e pecuniaria (comma 6 del medesimo articolo). L’impianto argomentativo della pronuncia in commento, infatti, incentrato com’è su di una valorizzazione accentuata dell’interesse del minore, mal si presta ad essere in futuro piegato a fini “conservativi” di altre disposizioni (appunto, il divieto di maternità surrogata) in nome di quella «imprescindibile presa d’atto della verità [biologica, n.d.r.]» proclamata nella sentenza del 2017. A tacer d’altro, uno scostamento radicale dalla logica della sentenza in commento rischierebbe di generare disparità di trattamento tra figli generati mediante procedimenti diversi, tutti vietati in Italia (ma consentiti altrove), difficilmente giustificabile sulla sola base della maggiore o minore gravità dell’illecito, pur sempre compiuto dai soli genitori, e del quale il nato, del tutto estraneo all’ideazione e realizzazione dell’atto vietato, è frutto innocente, ma destinato a subirne le ripercussioni sui suoi diritti fondamentali. Senza contare la discriminazione – sempre e soltanto dal punto di vista dei diritti del nato – tra figli di una coppia di donne e figli di una coppia di uomini.
Tutte considerazioni, queste, che nulla tolgono all’oggettiva complessità etica, prima ancora che giuridica, di una realtà dalle molteplici sfaccettature, come la maternità surrogata che, per i diversi aspetti della libertà e dignità umana che coinvolge, mal si presta a soluzioni ideologicamente precotte. Ma, ferma tale innegabile complessità, che interpella le nostre facoltà di discernimento su più livelli, la sentenza della Corte costituzionale, se no ha abbattuto barriere, vi ha però praticato una fessura che tenderà fatalmente ad allargarsi.
6. Ovvio per molti, ma non per tutti
Un’ovvietà, dicevo poc’anzi, quella che la Corte enuncia nella sentenza n° 68//2025: il best interest del fanciullo, la tutela dei diritti fondamentali del minore. Sì, per menti razionali. Ma non per tutti.
Si pensi che, nel lontano 2011, il Consiglio d’Europa si adoperò (e lo fece su impulso del Comitato dei Ministri, vertice dell’organizzazione) per elaborare una raccomandazione (uno strumento giuridico, quindi, non vincolante per gli Stati membri) intitolata Recommendation on the rights and legal status of children and parental responsibilities. Un oggetto che era niente più e niente meno dell’oggetto, in ultima analisi, della questione di costituzionalità oggi risolta dalla Corte: la tutela dei diritti e dello stato giuridico del minore (già nato). Durante le estenuanti discussioni, durate circa quattro anni, nel corso del processo di elaborazione della Raccomandazione, il testo originariamente proposto era stato più e più volte emendato e rimaneggiato, per conciliare le posizioni divergenti dei vari Paesi membri e, in particolare, per venire incontro alle preoccupazioni di quelli che guardavano con sospetto, se non con ostilità, ad ogni articolo che accennasse, anche come mero dato di fatto e senza alcuna implicazione precettiva, ai figli nati da procedure, diciamo, “non ortodosse”. E così, ogni menzione di tali abnormi frutti della degenerazione scientifica ed etica doveva essere accompagnata da riserve tanto ovvie quanto inutili, che sonavano pressappoco così: «… negli Stati in cui ciò è previsto/consentito…» e che avevano ad oggetto questioni atte, a quanto pare, a far vacillare le coscienze: come ad esempio la previsione che gli Stati i quali consentono la procreazione medicalmente assistita o che consentono anche il concepimento postumo (e solo quelli, ovviamente) “possono” (may: era evidente che la Raccomandazione avrebbe dovuto e voluto dire “debbono”, ma il testo fu attenuato in cerca del compromesso) regolamentare lo status del donatore di gameti o embrioni, o l’attribuzione della qualifica di “padre” (marito o partner registrato) all’uomo che abbia volontariamente acconsentito alla procreazione mediante quelle procedure; oppure come le disposizioni che autorizzavano (ma avrebbero dovuto obbligare) gli Stati che consentono la maternità surrogata (non certo gli altri) a regolamentare, per tali ipotesi, l’accertamento e la contestazione della maternità.
Tanto forte fu il rifiuto della semplice menzione del fatto (oggettivo) che alcuni Stati consentivano determinate pratiche di procreazione assistita e della possibilità (non certo l’obbligo) che altri Stati potessero in futuro liberamente decidere di consentire quelle pratiche, che neppure la considerazione della sorte (già difficile, e resa ancor più infelice dal non riconoscimento giuridico della loro esistenza e della loro identità) degli innocenti frutti di tali efferatezze bastò a vincere le resistenze.
La raccomandazione giunse infine, edulcorata oltre ogni ragionevolezza, al Comitato dei Ministri, organo eminentemente politico. Non fu adottata.
Segno che quelle che ho chiamato “ovvietà” tali non erano. E forse la sentenza n° 68/2025 della Corte costituzionale ci ammonisce che esse tali non sono tutt’ora.