Ci sono momenti nei quali accadono forzature istituzionali di tale particolare gravità che non è più possibile tacere.
Questo è uno di quei momenti.
Nell’arco di pochi mesi il governo ha, dapprima, approvato con un decreto-legge, poi tradotto in legge, ma in assenza di quelle «straordinarie ragioni di necessità e urgenza» richieste dalla Costituzione, un provvedimento in materia di sicurezza pubblica con il quale sono state introdotte 14 nuove fattispecie incriminatrici, sono state inasprite le pene di altri 9 reati e sono state introdotte nuove circostanze aggravanti, alcune prive di un fondamento razionale, dando così vita a un apparato normativo che mal si concilia con i principi costituzionali di offensività, tassatività, ragionevolezza e proporzionalità; e, più di recente, quello stesso governo ha fatto approvare al Parlamento, con la stessa fretta con cui si approvano i decreti-legge, una revisione della Costituzione che, se dovesse essere confermata dal referendum, segnerà la fine della separazione dei poteri, almeno tra l’esecutivo e il giudiziario e a scapito di quest’ultimo, in un contesto in cui neppure il legislativo se la passa molto bene.
Sulla legge sulla sicurezza pubblica mi limito a qualche breve considerazione.
Sono stati introdotti nuovi reati per sanzionare in modo sproporzionato condotte che sono spesso frutto di marginalità sociale e non di scelte di vita: basti pensare che la pena per l’occupazione abusiva di immobili coincide con quella prevista per l’omicidio colposo con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro. Inoltre, la scelta di incriminare la resistenza passiva nelle carceri e nei CPR, e dunque la resistenza non violenta e la semplice manifestazione del dissenso, produce effetti criminogeni, con il rischio concreto che lo stato di detenzione diventi il presupposto per l’irrogazione di nuove e ulteriori condanne.
Si tratta di una legge che si nutre di populismo giudiziario ed è espressione di quella ipertrofia del diritto penale, che la magistratura associata e la migliore dottrina denunciano da tempo invocando invano la decriminalizzazione dei reati bagatellari. E, invece, continuiamo ad assistere ad un panpenalismo a senso unico, con il quale si sanzionano solo i reati di strada, anche quelli che non destano alcun particolare allarme sociale (si veda la fattispecie che criminalizza chi organizza o partecipa a rave party, fattispecie che non ha prodotto finora neppure una condanna), mentre si abbassa la guardia su altri fronti come quello dei “colletti bianchi”.
Sul piano del diritto penale sostanziale, stiamo, perciò, assistendo ad un vero e proprio tradimento delle promesse fatte dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il quale il 22 ottobre 2022, giorno del suo insediamento, conversando con i cronisti in piazza del Quirinale dopo il giuramento, ebbe a dire: «La velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione quindi una riduzione dei reati. Occorre eliminare il pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali. Questo non è vero». E invece tra decreto Caivano, decreto Cutro e decreto Sicurezza abbiamo assistito in questi primi 3 anni di Governo alla introduzione nel nostro ordinamento di più di 60 nuovi reati per un totale di circa 400 nuovi anni di reclusione in più, che alimentano un sistema sempre più sommerso da un’incontrollabile moltitudine di norme incriminatrici, al punto che il tanto teorizzato e auspicato “diritto penale minimo”, che dovrebbe costituire la base teorica di una politica criminale di tipo liberale, si è ormai arreso ad un vero e proprio “diritto penale massimo”, che provoca ulteriori applicazioni di detenzione carceraria.
La depenalizzazione di cui parlava il Ministro Nordio il giorno del suo insediamento ha riguardato, invece, solo reati come l’abuso d’ufficio, la cui abolizione, come sappiamo, ha determinato l’assoluzione «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato» di pubblici ufficiali che avevano posto in essere condotte odiose e che appunto sono stati tutti salvati dalla legge Nordio.
Questi dati di fatto sono la concretizzazione delle dichiarazioni rese dall’on. Andrea Delmastro al Foglio il 14 marzo 2025 all’or quando ebbe a dire: «Nella mia persona convivono entrambe le pulsioni, sia quella garantista che quella giustizialista, a corrente alternata secondo le necessità». Appunto, secondo le necessità.
E, mentre, la missione di chi governa dovrebbe essere quella di cercare un equilibrio nel rapporto tra individuo e autorità, invece, il filo che lega i più recenti interventi normativi in tema di politica criminale rende esplicito un disegno complessivo, che tradisce un'impostazione autoritaria, che mira a “governare con la paura invece di governare la paura”.
E questo contesto è alla base anche di un sovraffollamento carcerario che sfiora il 130% e che è tra le concause dei 91 suicidi in carcere del 2024 e dei 69 suicidi del 2025, l’ultimo dei quali si è verificato ieri nel carcere di Pavia mentre il Ministro della giustizia teneva a Montecitorio la sua lectio magistralis sulla funzione della pena in occasione della cerimonia per i 50 anni della legge sull’ordinamento penitenziario, quella funzione rieducativa della pena sancita dall’art. 27 Cost. che resta lettera “morta”, nel vero senso della parola, di una Costituzione che viene percepita sempre più ingombrante e fastidiosa, al punto da sentire l’esigenza di cambiarla a colpi di maggioranza.
E veniamo quindi alla modifica del Titolo V della Costituzione quello sulla Magistratura.
Per comprendere davvero qual è il reale obiettivo di questa riforma si deve ovviamente partire dal testo della legge, ma bisogna essere in grado di leggerlo anche in controluce e per farlo basta considerare quanto detto negli ultimi giorni dai due proponenti di questa riforma:
- il 30 ottobre la premier Giorgia Meloni ha scritto in un post: «La riforma costituzionale della giustizia rappresenta la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza nelle scelte politiche del governo»;
- il 4 novembre il ministro Carlo Nordio ha dichiarato al Corriere della Sera: «Mi stupisce che una persona intelligente come Elly Schlein non capisca che questa riforma gioverebbe anche a loro, nel momento in cui andassero al governo»;
- a cui si è aggiunto il 5 novembre il sottosegretario Alfredo Mantovano che nel corso di una intervista televisiva ha detto: «C’è una invasione di campo deve essere ricondotta».
A chi ci contesta che non è affatto vero che l’obiettivo della riforma è consentire al governo di turno di controllare la magistratura basterebbe ricordare queste affermazioni.
Come si realizza questo obiettivo? Indebolendo il CSM, che è l’organo deputato a garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, e il CSM lo si indebolisce in tre modi:
1) dividendolo in due, perché ogni cosa che viene divisa viene anche indebolita;
2) prevedendo che i soli componenti del CSM provenienti dalla magistratura verranno estratti a sorte, mentre il sorteggio di quelli di nomina politica avverrà nell’ambito di una ristretta cerchia di persone elette dal Parlamento a maggioranza semplice;
3) sottraendo ai due futuri CSM la funzione disciplinare che viene affidata ad un’Alta Corte non presieduta dal Presidente della Repubblica ma da uno dei suoi componenti di nomina politica.
E tutte queste modifiche, che poi sono il cuore della riforma, sono scritte in quel fatidico art. 104 Cost. che i sostenitori della riforma si ostinano a dire, falsamente, che non è cambiato per nulla. E invece è cambiato eccome.
Per cui non basta proclamare in astratto un principio se poi non si garantisce l’effettività di quel principio. Scrivere in Costituzione che la magistratura è autonoma e indipendente, se quel principio è privato dello strumento pratico che è stato voluto dai padri costituenti proprio per difendere e assicurare quell’indipendenza, non serve a nulla. La radicale modifica della natura e del ruolo costituzionale del Csm, attraverso lo stravolgimento del testo dell’articolo 104 Cost., mette in discussione proprio la tenuta pratica di quel principio di autonomia e indipendenza del potere giudiziario dal potere politico, che proprio nel CSM trova oggi il suo presidio.
Tutte le costituzioni, da più di due secoli, affidano alla magistratura il compito di arginare la naturale tendenza della politica ad abusare del potere di cui dispone. Dobbiamo immaginare il potere politico come un fiume in piena e la magistratura come i suoi argini. Per questo alla magistratura devono essere garantite piena ed effettiva autonomia e indipendenza dal potere politico. Altrimenti non riesce ad esercitare davvero quel compito essenziale. E a pagarne le conseguenze sono i cittadini. Perché quando è indebolita l’autonomia del potere giudiziario dal potere politico i cittadini vedono drasticamente ridursi gli spazi di tutela dei loro diritti: lo Stato costituzionale è stato inventato proprio per limitare il potere e assoggettarlo al diritto. Solo magistrati autonomi e indipendenti da ogni altro potere possono assolvere a questo essenziale compito.
Ma adesso, con un referendum senza quorum alle porte, tutto questo va spiegato ai cittadini, non dico per slogan, ma in modo semplice.
A questo proposito vorrei richiamare un aneddoto che risale al primo referendum che si è svolto in Italia, prima ancora che venisse scritta la Costituzione, mi riferisco al referendum del 2 giugno 1946 sulla forma di Stato: Monarchia o Repubblica. Durante quella campagna referendaria, Alcide De Gasperi, nel corso di un comizio, disse: «la domanda sul referendum è stata mal formulata, perché noi non dobbiamo scegliere tra Monarchia e Repubblica, quello è solo l’effetto della scelta che andremo a fare. La vera domanda» disse De Gasperi «dovrebbe essere formulata in questo modo: voi italiani siete pronti a smettere di essere sudditi e a diventare cittadini caricandovi sulle vostre spalle la responsabilità, per voi, per i vostri figli e per le generazioni che verranno, delle scelte che farete tutti i giorni? Se siete pronti ad assumervi questa responsabilità allora votate Repubblica, ma se non siete pronti ad essere cittadini responsabili allora è di gran lunga preferibile rimanere sudditi, perché il suddito ha la possibilità di dare la colpa al sovrano, mentre il cittadino non ha più questa possibilità». Ecco, io penso che ai cittadini, più che fornire risposte, dobbiamo essere in grado di rivolgere le domande giuste, dobbiamo cioè essere capaci di chiedere loro quale futuro vogliono per loro e per le generazioni che verranno. Se preferiscono vivere in un Paese in cui il controllo di legalità operato dalla magistratura viene considerato il principale ostacolo al governo del Paese, e quindi un ostacolo da eliminare, riducendo la magistratura ad un corpo di burocrati servente rispetto ad un potere esecutivo incontrollato; oppure se preferiscono continuare a vivere in un Paese in cui la complessità dei meccanismi democratici continua a rappresenta la garanzia del rispetto dei diritti e delle libertà di tutti, a partire dai più deboli, e quindi un Paese in cui la magistratura continua ad essere non un potere, ma un contropotere che serve a riequilibrare la forza altrimenti incontrollata del potere esecutivo.
In altre parole, ai cittadini dobbiamo spiegare che la separazione delle carriere non è un fatto “di buonsenso” e apparentemente neutro, che non comporta pericoli immediati, ma il frutto di una revisione costituzionale che produrrà da subito effetti sistemici profondi.
Ai cittadini non dovremo chiedere, come fanno i sostenitori del SI: “Vuoi giudici più terzi?”, perché questa domanda sottintende un presupposto un falso, ma dobbiamo chiedere: “Vuoi una magistratura più permeabile alle interferenze della politica?”
Cioè dobbiamo fare capire che la posta in gioco è proprio la terzietà del giudice non dal PM ma dalla Politica!
Per farlo dobbiamo spiegare innanzitutto che si tratta di una riforma inutile perché la distinzione dei magistrati in base alle funzioni svolte è già avvenuta di fatto nel 2022 con la legge Cartabia che, prevedendo limiti molto stringenti al cambio di funzioni, ha ridotto i casi di passaggio da una funzione all’altra a pochissimi casi, meno dello 0,3% del totale dei magistrati e che modificare la Costituzione per un fenomeno così irrilevante è sproporzionato e nasconde, evidentemente, un secondo fine, che è quello di fare entrare il potere esecutivo nelle questioni giudiziarie.
Ma dobbiamo anche spiegare che:
● Il sistema attuale dispone già di strumenti per garantire la terzietà del giudice: astensione, ricusazione, incompatibilità;
● separare le carriere significa spaccare il potere giudiziario e renderlo più fragile e permeabile dalle ingerenze del potere esecutivo;
● la magistratura requirente perderebbe le garanzie costituzionali equivalenti a quelle dei giudici, rischiando di diventare gerarchicamente e funzionalmente dipendente dal potere esecutivo (che quindi potrebbe decidere quali reati perseguire e quali no);
● nella maggior parte dei Paesi dove esiste la separazione (Francia, Germania, Spagna), il PM è sottoposto al Ministro della giustizia e questo condiziona anche il lavoro del giudice;
● Il nuovo sistema di nomina dei membri togati del CSM, basato sul sorteggio anziché sull’elezione, ridurrebbe la rappresentatività interna e la legittimazione democratica del CSM;
● ogni categoria professionale è libera di eleggere i suoi rappresentanti all’interno degli organi di garanzia che la disciplinano; perché ciò non dovrebbe essere possibile per la magistratura? Se il potere esecutivo sta eliminando la rappresentanza democratica dei magistrati è soltanto per indebolirla e per poterle dare un indirizzo nella scelta su chi indagare e, soprattutto, chi non indagare.
In conclusione, alla domanda se “è questa la giustizia della nostra Costituzione?”, la risposta non può che essere negativa, perché queste novità in materia di giustizia e di sicurezza pubblica segnano un evidente allontanamento dallo spirito della nostra Costituzione, che fonda la convivenza della comunità nazionale su democrazia, pluralismo, libertà e uguaglianza di tutti di fronte alla legge, affinché nessuno debba temere lo Stato e tutti possano riconoscere allo Stato e alle sue Istituzioni, con fiducia, il ruolo di garante della legalità e dei diritti.
Intervento al Convegno organizzato dall’ANPI, Roma (14 novembre 2025)