Magistratura democratica
Magistratura e società

Dare senso all'indicibile

di Marcello Bortolato
Presidente del Tribunale di Sorveglianza Firenze

Guardando Elisa, film di Leonardo Di Costanzo

Elisa, film diretto da Leonardo di Costanzo, con protagonisti Barbara Ronchi e Roschdy Zem, è una profonda riflessione sull’elaborazione del senso di colpa e sull’importanza di riconoscere quello che di inaccettabile alberga in ciascuno di noi.

Il film, in concorso alla 82^ Mostra del cinema di Venezia, è tratto dal libro-capolavoro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali Io volevo ucciderla (Raffaello Cortina, 2022) dove i due criminologi italiani danno voce, in un flusso inarrestabile che trascina il lettore dentro un vortice narrativo che fa perdere la testa ed il cuore, ad una donna omicida, protagonista di un recente fatto di cronaca giudiziaria accaduto nella profonda provincia lombarda, non tra i più celebri in Italia ma certamente tra i più crudi. Il film è ambientato, anziché in un carcere italiano, in un centro di riabilitazione penitenziaria di un’idilliaca Svizzera francese, ai piedi del Monte Bianco. Il contrasto tra il terso paesaggio circostante e il lindore delle piccole casette immerse nella natura in cui le donne sono detenute (così diverse dal carcere filmato dallo stesso Di Costanzo nel suo precedente, bellissimo, Ariaferma) e l’ambiguo torbido tormento della donna, fa da contraltare al volto calmo e rassicurante del professore, cui dà voce uno splendido Roschdy Zem, l’attore franco-marocchino già vincitore di numerosi premi internazionali. 

Grazie al dialogo con l’uomo, l’omicida riesce a dare a sé stessa e a tutti noi un senso al suo agito violento. 

Nello spazio dialogico dell’incontro, che prende piede da alcune parole fondamentali che sono la chiave interpretativa di tutto il racconto: fallimento, sacrificio, inadeguatezza (e, aggiungiamo noi, “desiderio di dominio”), la donna accede pian piano alla verità personale del suo gesto che dà senso a ciò che per lei, per i giudici, per noi e per la società è l’“indicibile”, categoria ben nota alla “criminologia narrativa” cui si richiama la metodologia seguita dai due criminologi nel libro che ha ispirato il film.

Per chi si occupa di questi temi, prima di tutto i giudici, il film aiuta l’interprete ad allontanare coraggiosamente le visioni generalizzanti che cercano di ricondurre il fenomeno della violenza ad una sola origine/causa e così facendo producono la sua “banalizzazione” o, al contrario, la sua “eccezionalità”. Il film ci insegna (ci perdoni Hannah Arendt) che non c’è nulla di banale nel male né di eccezionale, così come esso non può essere ricondotto a modelli esplicativi che individuano nella malattia mentale (tema solo sfiorato dal film) o viceversa nell’ambiente sociale/familiare (che è la quinta e la prigione naturale di tutto il vissuto di Elisa Zanetti), la causa del gesto violento. 

Nel film ciò che spiazza è che il male è solo l’espressione vitale di un ordine di significato differente da quello di colui che si imbatte in esso, avvicinandolo con l’incontro e guardandolo e indagandolo dall’esterno. Attraverso il dialogo, il criminologo (a nostro giudizio il vero fulcro della narrazione filmica, colui su cui sembra concentrarsi maggiormente l’interesse del regista) attinge a quella unicità, a quella integralità di vita di colei che ha commesso un crimine così efferato (che non riveliamo) per comunicarci che il reo non va neutralizzato ma spinto verso una responsabilità riflessiva che da sola è la condizione preliminare per la sua possibile rinascita. Che poi è la caparbia volontà con cui Nelson Mandela “umanizzava l’avversario” per consentire la ricostruzione di una comunità unita dopo il male indicibile dell’apartheid.

L’irriducibilità dell’esperienza personale aiuta a trovare altri linguaggi, a dare un senso a ciò che non può esprimersi con i linguaggi esistenti. Quella di Elisa è una storia raccontata senza essere più giudicata perché così essa può rappresentare l’inizio di un processo di cambiamento che significa non solo superare il peso schiacciante della colpa ma anche reclamare un’esistenza più autonoma e responsabile in cui il colpevole cambia il suo sistema di valori. 

Ma la sfida lanciata dal film è prima di tutto “sentimentale”, perché ha che fare con la materia incandescente delle emozioni e interpella il valore stesso dell’umanità. 

E’ ciò che fa anche la “giustizia riparativa”, tema solo accennato nella scena dell’incontro tra il criminologo ed una scettica Valeria Golino (vittima incredula di altro reato che però, incuriosita, segue le lezioni del professore): il breve dialogo tra i due rimanda ad una giustizia dell’incontro che nel costruire senso, questa volta attraverso il dialogo tra vittime e rei, non giustifica gli atti degli aggressori né naturalmente cancella il dolore, ma ha come presupposto l’idea vincente di curare il male senza produrne altro, offrendo un’alternativa alla vendetta, consentendo alla vittima e al colpevole di confrontarsi rispetto al dolore “reale” del reato. Il tema, come dicevamo solo accennato, serve però al film, dando voce ad una “vittima”, per bilanciare l’idea che incontrare il male serva a giustificarlo o, peggio ancora, a perdonarlo. Non è questo il punto: il male va certamente indagato e compreso, ma innanzitutto narrato senza sconti per il suo autore e nel rispetto del dolore della vittima.

Di Costanzo, confrontandosi con temi così “alti”, firma il suo film forse più intimo, indaga con maestria cinematografica su ciò che è o sembra inabitabile, fa sue le parole del criminologo, che è il suo “occhio” e la sua “lingua”, con anche le sue domande inespresse ma intuite sul finale, scrutando a fondo con laceranti primi piani nell’io narrante di una Barbara Ronchi in stato di grazia. L’attrice fornisce con Elisa un’interpretazione memorabile che ben avrebbe meritato a Venezia la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile.

Il tema avvincente, la straordinaria bravura dei due attori e la sapiente regia fanno di Elisa un’opera imperdibile.

20/09/2025
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