Magistratura democratica
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La denuncia riservata. Spunti per un parziale cambio di passo nella legislazione antimafia

di Francesco Gianfrotta
già presidente sezione GIP Torino

Riflessioni a partire dal volume di Arturo Capone La denuncia riservata. Genesi e metodo delle mafie, limiti della legislazione antimafia e spunti per una strategia processuale di contrasto (Giappichelli, 2025)

1. Il giurista e la storia, quale strumento di conoscenza della realtà

Non è frequente che un giurista che si dedichi all’analisi di una o più questioni tecniche dia inizio al suo elaborato affrontando aspetti per nulla secondari della ricostruzione storica di un determinato fenomeno criminoso. Ciò accade quando quest’ultimo viene ritenuto il contesto da tener presente per una valutazione seria e completa delle strategie di contrasto adottate dallo Stato. In ciò si può individuare una prima ragione di apprezzamento del recente volume di Arturo Capone dal titolo La denuncia riservata. Genesi e metodo delle mafie, limiti della legislazione antimafia e spunti per una strategia processuale di contrasto, ed. Giappichelli, Torino. Peraltro, è sufficiente iniziare a sfogliare il libro per rendersi conto che si è in presenza di una originalità che, oltre ad esprimere una scelta di metodo scientifico (è quanto mai opportuno che si conosca la realtà ed anche il suo divenire, allorché ci si misuri con gli strumenti volti a contrastarla, attesi i suoi profili di grave e diffusa illiceità penale), ha anche una sua cifra culturale, se non di natura etico-politica. Prima dell’introduzione, infatti, si legge la seguente citazione tratta da P. Villari, La Camorra, in Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze, 1878, p. 5: «Il male è contagioso come il bene, e l’oppressione, specialmente quella esercitata dalla camorra, corrompe l’oppresso e l’oppressore, e corrompe ancora chi resta lungamente spettatore di questo stato di cose senza reagire con tutte le sue forze. Perciò importa conoscere dove questa oppressione comincia e si può esercitare più impunemente, perché ivi è la radice del male, tutto il resto è conseguenza». Come a dire: girare la faccia è sbagliato ed eticamente riprovevole; se poi si rinuncia anche a conoscere e ad approfondire le radici del male, non ci si salva dalla sua pervasività corruttiva.

 

2. Il rischio dell’impasse nella discussione sulla legislazione antimafia e il tentativo di superarla

L’interesse per il contesto, a partire dai rapporti economici, sociali e politici nella Sicilia prima e dopo l’unità d’Italia e arrivando fino alla contemporaneità, non distrae l’Autore dall’attenzione alla legislazione antimafia oggi in vigore, vero focus della sua opera, come rivelato anche dal titolo. Capone, al riguardo, è esplicito nel far conoscere le sue valutazioni. Le mafie costituiscono, nel loro insieme, «un fenomeno criminale parassitario e violento, davvero unico per radicamento e diffusione, che ha mostrato di poter condizionare economia, amministrazione e vita democratica di un Paese[1]». La risposta dello Stato si è caratterizzata per la predisposizione di un armamentario di leggi sostanziali e processuali volte a realizzare una forte repressione. A fronte di essa la dottrina ha svolto «considerazioni anche severamente critiche», in nome del «garantismo», ritenendo che «la legislazione antimafia, orientata unicamente all’efficienza repressiva, comprime in misura superiore al livello accettabile le ordinarie garanzie che il sistema penale riconosce al cittadino, all’imputato o al condannato[2]». Di qui una discussione potenzialmente asfittica, nella quale la contrapposizione tra le due linee (quella orientata esclusivamente alla valutazione dell’efficacia degli interventi normativi, da un lato; e quella invece interessata unicamente al tema delle garanzie, dall’altro) rischia di risolversi in una chiusura ideologica bilaterale. Di qui anche la sfida che l’Autore si dà: «capovolgere il consueto approccio e impostare una verifica della legislazione antimafia in materia penale non tanto sul piano delle garanzie, su cui esiste già un’ampia e valida letteratura, bensì su quello dell’efficacia. L’obiettivo, insomma, è quello di ridiscutere criticamente la capacità delle vigenti scelte di politica criminale di fronteggiare adeguatamente il fenomeno mafioso e di suggerire, proprio in nome di una maggiore efficacia, scelte diverse[3]».

 

3. La zona grigia. La capacità delle mafie di costruire relazioni. Che fare per vittime e complici? Dare a ciascuno il suo

Il tutto, come si è detto, partendo da un doveroso sforzo di conoscenza: tanto più meritorio, quest’ultimo, in quanto svolto da un giurista e non da uno storico o da un sociologo; e il cui esito consente di mettere a fuoco alcune peculiarità dell’impatto che le associazioni mafiose hanno dimostrato -per quanto emerso anche in indagini e processi- di riuscire a produrre sul tessuto economico e sociale del territorio del quale esse hanno assunto il controllo. Ci si riferisce alla cosiddetta “zona grigia”, espressione la cui efficacia epistemologica, indubbiamente forte, spiega la fortuna che l’ha accompagnata nel dibattito pubblico, oltre che in quello tra gli addetti ai lavori. L’esistenza di quest’ultima, non di rado -anche nel libro- presentata come «area della contiguità[4]», ad avviso dell’Autore, va posta in diretta relazione con il modo di essere delle moderne associazioni mafiose (non a caso, descritte nell’art. 416 bis cp in termini che hanno indotto alcuni studiosi a parlare di almeno relativa indeterminatezza della fattispecie), o per meglio dire con il tipico modo che esse hanno di realizzare il controllo del territorio: segno più evidente -quest’ultimo- della loro presenza e della sopraffazione realizzata e, così, della loro capacità di ostacolare, in un determinato territorio, formazione e sviluppo dei processi democratici. All’origine di tale risultato, ad avviso dell’Autore, va posta la cosiddetta «estorsione di un’alleanza», definizione adoperata per evidenziare la capacità delle associazioni mafiose di «costruire intorno a sé una rete di relazioni con persone disponibili all’acquiescenza o alla collusione[5]».

E tuttavia non sfugge all’Autore che la zona grigia (o area della contiguità che dir si voglia) abbia ricevuto attenzione da parte del legislatore penale. Questa si è manifestata in termini di omologazione del trattamento sanzionatorio riservato a chi ne fa parte con quello stabilito nei confronti degli aderenti all’associazione. Non si distingue, invero, tra «le diverse ragioni e le varie forme dell’adattamento alla prepotenza mafiosa»; con il «serio rischio di travolgere, insieme ai complici, anche le vittime delle mafie[6]». Qui si radica la proposta dell’Autore e il suo dichiarato obiettivo: rompere l’omogeneità della zona grigia, offrendo una via di fuga a coloro che, benché risoltisi «ad approfittare di qualche vantaggio connesso alla loro condizione di assoggettamento… se non temessero la ritorsione mafiosa, preferirebbero senza dubbio sfuggire a quell’abbraccio mortale». Questa categoria di soggetti andrebbe esclusa, nei limiti ed alle condizioni che si specificheranno oltre, dalla sottoposizione alle severe disposizioni sostanziali e processuali previste per aderenti e concorrenti esterni alle associazioni mafiose (più severe di quelle aventi quali destinatari soggetti diversi dai loro associati e dalle categorie a questi equiparate: cosiddetto doppio binario del sistema penale sostanziale e processuale). L’efficacia deterrente di queste ultime per l’Autore non può e non deve essere posta in discussione. Peraltro, in essa si annida il rischio che possa prodursi l’effetto di trasformare, in determinate situazioni, le vittime in complici. Al riguardo, ancora una volta, l’Autore è esplicito. «Chi vive in un territorio in cui operano le mafie e ha la sventura di incontrarle, spesso è costretto a scegliere se resistere, esponendosi alla ritorsione, o adattarsi, entrando nell’area della contiguità punibile[7]».

 

4. Una possibile modifica legislativa: la denuncia riservata

Di qui la proposta di introdurre, nell’ordinamento processuale, un istituto nuovo, tale sia nei suoi profili di contenuto, che nella filosofia ispiratrice: la denuncia riservata.

 Prima di illustrarla, l’Autore rievoca il clima culturale e politico immediatamente precedente e successivo alle stragi del 1992 e 1993. Il tentativo di una parte della cultura giuridica di superare la legislazione di emergenza, che già da qualche anno si era affermata in materia di criminalità organizzata, si arenò ben presto di fronte alla estrema gravità dell’attacco mafioso che, all’evidenza, metteva in crisi la tenuta dello Stato democratico di diritto, insieme alla coesione sociale. «Senza dubbio subentrò una sorta di rassegnazione e anche, forse, il desiderio di non confondere il proprio discorso con quello ipergarantista tardivamente riscoperto da una parte della classe dirigente che, dopo decenni di interessata tolleranza…, si vedeva ora sul banco degli imputati». Né mancava «una sorta di sottovalutazione[8]» della realtà di associazioni radicate e pericolose, il cui potere andava contrastato efficacemente subito, senza attendere l’avvento di una «società migliore», premessa per la definitiva soluzione del problema. Ciò, per l’Autore, offre lo spunto per proporre il nuovo istituto giuridico della denuncia riservata: nella convinzione che il rifiuto di una strategia di contrasto alle mafie fondata sull’inasprimento delle sanzioni e la «riduzione delle garanzie» (per l’appunto, il doppio binario) non si risolve necessariamente nel «rifiuto di un oculato impiego di altri strumenti[9]». Il carattere riservato della denuncia riguarderebbe: l’identità del denunciante, nota solo al magistrato incaricato dal procuratore della repubblica a riceverla; l’apposito registro, diverso da quello contenente l’iscrizione delle notizie di reato e da quello relativo agli atti non costituenti notizie di reato (mod. 45); la pre-inchiesta da delegare alla polizia giudiziaria e volta alla sommaria verifica delle circostanze riferite dal denunciante, nonché ad «accertare il complesso delle dinamiche mafiose che quella denuncia fa emergere[10]». All’esito di questa fase - obiter dictum: consistente in «atti che non prevedono né la partecipazione dell’indagato né, come nei mezzi di ricerca della prova, il successivo deposito dei verbali[11]»- la notizia di reato che eventualmente dovesse autonomamente emergere verrebbe iscritta nel registro di cui all’art. 335 cpp, dando vita ad un distinto procedimento, mentre il fascicolo relativo alla denuncia riservata «potrebbe essere semplicemente chiuso e restare riservato[12]». Nessuna valenza probatoria dovrebbe attribuirsi, di conseguenza, né alla denuncia riservata, né all’attività di pre-inchiesta da essa indotta. «A tutela del riservato denunciante l’impulso fornito dalla segnalazione…sarebbe inutilizzabile, tanto nelle indagini quanto in dibattimento, sia in ordine al fatto della narrazione sia in ordine al fatto narrato; inoltre…andrebbe esclusa la testimonianza del riservato denunciante sui fatti oggetto della denuncia». Per contro, effetto della denuncia riservata dovrebbe essere quello di «scongiurare per il futuro l’eventuale incriminazione a titolo di partecipazione all’associazione mafiosa o di concorso esterno del riservato denunciante[13]».

Ora, non v’è dubbio che la proposta, della quale l’Autore sottolinea con acute e puntuali osservazioni le analogie e differenze con altri istituti presenti nell’ordinamento penale e in quello civile (la legge antiracket, con particolare riguardo all’accesso al Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura; il cosiddetto whistleblowing, diretto a favorire l’emersione delle condotte illecite nei luoghi di lavoro; la causa di non punibilità prevista dall’art. 323 ter cp in materia di corruzione), sia evocativa della informazione confidenziale. Sul conto di quest’ultima (e della relativa disciplina processuale), come è noto, non sono mancate, in dottrina, valutazioni per certi versi sorprendenti da parte di autorevoli studiosi, che l’hanno ritenuta istituto preferibile -per vari aspetti- alla collaborazione processuale ed ai collegati benefici previsti in materia sostanziale e penitenziaria. Si tratta di tema di cui l’Autore si dà carico, evidenziando i vantaggi che l’istituto proposto presenta rispetto all’informazione confidenziale: sul piano della trasparenza nei rapporti della fonte con la polizia giudiziaria e il pubblico ministero; per la maggiore protezione che deriverebbe al denunciante in conseguenza del previsto divieto «di dare informazioni, in annotazioni o relazioni di servizio, o di rendere testimonianza sull’identità dell’autore della denuncia riservata»; infine, per la previsione che «le informazioni contenute in tale denuncia, non solo non potrebbero costituire fonte di prova a carico dei soggetti eventualmente indagati a seguito dell’iscrizione della notizia di reato acquisita grazie ad esse, ma non potrebbero essere nemmeno oggetto di testimonianza indiretta da parte della polizia giudiziaria[14]» (cfr. artt. 195 e 203 cpp). Dunque, una proposta, nell’insieme, pensata quale strumento distinto e per vari aspetti preferibile rispetto ad altro nei confronti del quale la cultura della giurisdizione e del processo ha sempre giustificato riserve di principio e di ordine pratico.

 

5. Le questioni concernenti i rapporti con altri istituti sostanziali e processuali

Di particolare interesse si rivelano gli ultimi due capitoli del volume, dedicati ai «Profili processuali» ed ai «Profili sostanziali».

Tra i primi, vengono affrontate le questioni relative: all’«elemento cronologico[15]», vale a dire alla eventuale previsione di un termine dal fatto oggetto della denuncia riservata, per poterla qualificare come tale, a tutti gli effetti; agli aspetti giuridici e pratici della ricezione della denuncia e della sua iscrizione nell’apposito registro; ai contenuti e ai limiti della pre-inchiesta; ai rapporti tra l’istituto proposto e la causa di giustificazione speciale prevista per le cosiddette operazioni sotto copertura (cfr. art. 9 della legge n. 146 del 2006); infine, alla ribadita rinuncia che dovrebbe farsi, in sede di formulazione delle nuove disposizioni in materia, a qualunque «contributo conoscitivo che potrebbe essere fornito dal riservato denunciante in ordine ai fatti che lo hanno visto coinvolto», e perciò ad «ogni uso probatorio della denuncia riservata», compresa la «testimonianza del riservato denunciante», allo scopo di sottrarlo «al giogo mafioso senza rischi per l’incolumità personale o per le proprie ordinarie condizioni di vita e senza rischi di incriminazione penale[16]».

Tra i secondi, rilievo centrale assume la delimitazione dell’area della eventuale responsabilità penale del riservato denunciante. Escluso che le condotte di quest’ultimo, riconducibili alla «forza di intimidazione del vincolo associativo» ed alla «condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva[17]», possano considerarsi sintomatiche di partecipazione all’associazione mafiosa, ponendosi -esse- in contrasto con l’iniziativa assunta (per l’appunto, la denuncia, benché riservata), nell’eventualità che in esse fosse riavvisabile l’ipotesi di un concorso esterno, dovrebbe pervenirsi alla identica valutazione finale, imposta dalla valorizzazione del «contesto intimidatorio nel quale esse si collocano». Sarebbe, peraltro, inevitabile l’iscrizione del nome dell’autore nel registro delle notizie di reato, alla quale dovrebbe seguire la richiesta di archiviazione, qualora venisse accertata la «effettiva insussistenza della… personale condizione di assoggettamento». Per contro, qualora dovessero emergere dalle indagini «vicende diverse», non oggetto della denuncia riservata, oppure «fatti antecedenti all’introduzione della normativa», bandita «ogni forma di automatismo», occorrerebbe svolgere autonome indagini volte alla verifica di pregresse situazioni di assoggettamento, oppure «di una fase nella quale le relazioni pericolose, prima di ritorcersi contro di lui, avevano avvantaggiato il riservato denunciante[18]»; con la possibile conseguenza della affermazione di penale responsabilità a titolo di partecipazione ex art. 416bis cp, o di concorso esterno nella associazione.

Ulteriori aspetti vengono presi in esame dall’Autore, nell’ottica di una illustrazione completa della propria proposta di nuova normativa, che andrebbe ad inserirsi in un quadro consolidato di istituti, ciascuno dei quali -tra l’altro- caratterizzato da una risalente applicazione e, così, da linee giurisprudenziali stabilizzate. Ci si riferisce, in particolare, alla possibilità di riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n.6 cp («il c.d. “ravvedimento operoso”)»; alla eventuale «rimozione del meccanismo presuntivo cautelare previsto dall’art. 275, comma 3, c.p.p.», con «ritorno al regime ordinario…per i fatti…ipoteticamente commessi prima dell’introduzione della disciplina riservata (…), oggetto di un’indagine che invece sia incominciata dopo la presentazione della denuncia»; alla riconsiderazione del divieto di accedere al rito speciale del patteggiamento, oggi impedito ex art. 444.1bis cpp, e della possibilità che l’accordo tra le parti intervenga anche «sulle misure patrimoniali», nei limiti specificati nel testo; infine, «quale effetto della sentenza di patteggiamento concordata dal riservato denunciante per le sue eventuali responsabilità pregresse, andrebbe prevista la rimozione del divieto di accesso alle misure alternative alla detenzione e agli altri benefici penitenziari di cui all’art. 4-bis ord. penit., così come la rimozione del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive» (cfr. art. 656.4 quater cpp), «in modo che queste possano eventualmente essere richieste dalla libertà[19]».

 

6. Considerazioni finali

La proposta di introdurre nell’ordinamento processuale penale l’istituto di cui al volume qui considerato merita indubbiamente attenzione. La modifica si risolve in una importante eccezione alle regole generali, che vogliono che il denunciante si assuma la responsabilità, in sede sia investigativa che giudiziaria, del contributo conoscitivo offerto agli organi dello Stato. Ciò potrebbe giustificare qualche riserva di principio nei confronti dell’istituto, da parte di quanti ritengono la sede processuale -nella quale i soggetti che hanno contribuito all’accertamento dei fatti escono allo scoperto- l’unica idonea ad accertare colpevolezza e innocenza di quanti, a vario titolo, siano gravitati nell’orbita delle associazioni mafiose, al di là di ogni ragionevole dubbio. Né si può sostenere che il nuovo istituto si collochi su un piano diverso da quello del doppio binario in materia di procedimenti e processi per fatti di mafia, dal momento che si sarebbe in presenza di una disciplina che, nel darsi carico della specificità del fenomeno mafioso, prevede una risposta ancora una volta eccentrica rispetto agli istituti processuali di carattere generale. E tuttavia non può non guardarsi con favore a qualsiasi sforzo che vada nella direzione della più approfondita conoscenza delle relazioni che le associazioni mafiose riescono a costruire nei territori nei quali sono presenti e dei quali hanno il controllo: là dove non tutto e non sempre è facilmente collocabile al di qua o al di là di una certa soglia, al punto che emergono le zone grigie. Sono considerazioni -queste ultime- che inducono ad apprezzare la coraggiosa disponibilità intellettuale di chi, nell’ambiente accademico, si dia carico di immaginare risposte normative differenziate alla complessità dell’agire mafioso, le quali rimangano, nello stesso tempo, rispettose dei principi ed efficaci. Sarà utile, comunque, conoscere sulla proposta di denuncia riservata l’opinione di quanti abbiano avuto ed abbiano diretta esperienza di procedimenti e processi per fatti di mafia: se non altro al fine di valutarne le prospettive di efficacia, in relazione all’ampiezza dell’area della contiguità che potrebbe essere interessata ad avvalersi dello strumento analizzato, qualora divenisse un nuovo istituto dell’ordinamento processuale penale. Sullo sfondo rimane, infine, una questione che ha animato ed anima il dibattito pubblico dai tempi della legislazione premiale introdotta in materia di terrorismo: quale debba essere la soglia dei benefici da riconoscere a chi metta a disposizione dello Stato le notizie di cui è in possesso sulla commissione di gravi reati.

 


 
[1] Cfr. Introduzione, pag. 2.

[2] Ibidem, pag. 3.

[3] Ibidem, pagg. 4-5.

[4] Ibidem, pag. 11.

[5] Ibidem, pag. 10.

[6] Ibidem, pag. 11.

[7] Ibidem, pag. 11-13.

[8] Cfr. cap. IV, pag. 427.

[9] Ibidem, pag. 428.

[10] Ibidem, pag. 438.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem, pagg. 438-439.

[14] Cfr. Sezione II, La denuncia riservata nel sistema, pagg. 440-445.

[15] Cfr. Sezione III, Profili processuali, pag. 467.

[16] Ibidem, pagg. 470-493.

[17] Cfr. Sezione IV, Profili sostanziali, pag. 495.

[18] Ibidem, pagg. 496-500.

[19] Ibidem, pagg. 500-519. 

22/09/2025
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