Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

La criminalizzazione di attivisti e dissenzienti in Italia *

Livio Pepino
già consigliere della Corte di cassazione

Sommario: 1. Il trattamento della protesta e del dissenso come misura della democrazia / 2. Continuità e novità della repressione in Italia nel nuovo millennio / 3. Modalità e tecniche della repressione / 4. Il decreto legge “sicurezza” e l’accelerazione della svolta autoritaria / 5. Che fare?  Spunti per un capitolo da aprire.

 

1. Il trattamento della protesta e del dissenso come misura della democrazia

Chi – politici, pubblici ministeri e giornalisti – contesta che sia in atto un processo di criminalizzazione del dissenso e dell’opposizione politica radicale afferma che la repressione è semplicemente l’inevitabile risposta alla commissione di reati e che il suo andamento (più o meno intenso) dipende dal numero e dall’entità dei reati commessi. L’affermazione è tanto suggestiva quanto infondata.

È vero, infatti, che da sempre i codici penali prevedono come delitti, a difesa della società, gli atti violenti contro le istituzioni, le aggressioni all’ordine pubblico e le forme più estreme di “contestazione”. Ma ciò che distingue i sistemi democratico/liberali da quelli autoritari è l’entità della repressione e le forme che essa assume: mentre i sistemi democratico/liberali tendono a minimizzarla e a circondare di garanzie il suo esercizio, quelli autoritari la usano come strumento ordinario di governo, azzerando o riducendo al massimo i diritti di chi vi è sottoposto. Per questo si può dire che oggi il livello di democraticità di un sistema si misura, più che in base al suo sistema elettorale, in base al grado di repressione politica che esso esercita. Ci sono casi di scuola di regimi che, pur prevedendo periodiche elezioni (più o meno libere), sono universalmente ritenuti illiberali perché caratterizzati da una repressione indiscriminata del dissenso e/o delle minoranze: l’Iran degli ayatollah, la Russia di Putin, la Turchia di Erdoğan, l’Egitto di Al Sisi, l’Israele di Netanyahu (non solo oggi ma da decenni dedita a un violento apartheid nei confronti della popolazione palestinese), etc. Non è la situazione ordinaria dei paesi occidentali, ma le differenze si stanno attenuando, ché questi ultimi rispondono sempre più alla crisi di consenso e di partecipazione che li attraversa con un surplus di repressione del dissenso radicale[1]. Basta guardare gli Stati Uniti e l’Europa (non solo l’Ungheria di Orbán ma anche la Spagna, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e, non ultima, l’Italia, come vedremo più avanti), tutti coinvolti nel processo di trasformazione dello Stato sociale in Stato penale, nella crescita – in quantità e in qualità – degli interventi repressivi nei confronti del “nemico interno”, nella dilatazione (spesso incontrollata o addirittura favorita) del potere degli apparti, nel deperimento del sistema delle garanzie. È a questo surplus che si fa riferimento quando si parla di criminalizzazione del dissenso e di diritto penale del nemico. 

Nessuna sorpresa. La mancata corrispondenza tra andamento dei reati e andamento della repressione è, a livello generale, un fatto confermato da tutte le ricerche criminologiche, per ogni tipo di reato. Basti dire che, nel nostro Paese, il picco dei delitti in generale si è avuto nei primi anni Novanta del secolo sorso, quando in carcere c’erano poco più di 30.000 detenuti (35.485 il 31 dicembre 1991) mentre oggi, con i reati più gravi in netto calo (gli omicidi volontari, per limitarsi a un esempio, sono passati, da 1938 del 1991 a 314 del 2024), i detenuti sono circa il doppio (erano 62.728 il 30 giugno scorso). Il fatto è che l’entità della repressione, pur ovviamente legata alla commissione di reati, risente delle politiche “criminali” assi più che dell’andamento dei reati stessi.

Un’ultima considerazione. Questa fotografia della realtà, lungi dall’essere frutto di una visione estremizzata o di parte, è patrimonio comune degli osservatori imparziali e non mainstream. Uno per tutti: «La prima cosa che dovrebbero chiedersi i giuristi oggi è che cosa poter fare con il proprio sapere per contrastare questo fenomeno, che mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità. In concreto, la sfida presente per ogni penalista è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali»[2].

 

2. Continuità e novità della repressione in Italia nel nuovo millennio

Nel nostro Paese il tentativo di governare la società con la repressione non è una novità, ma una sorta di fiume carsico che ha caratterizzato non solo l’epoca liberale e il fascismo[3] ma anche l’interregno post fascista[4] e, poi, il periodo repubblicano. Basti dire che dal 1946 al 1977 si sono contati ben 155 morti nel corso di manifestazioni (di cui 14 tra le forze di polizia e 141 tra i dimostranti)[5] e ricordare che le strette repressive si sono succedute in tutti i periodi di crisi sociale e politica, a partire dalla fine dei “trent’anni gloriosi”, quando vide la luce la cosiddetta legge Reale sull’ordine pubblico (legge n. 152 del 1975), che rese più facile e impunito l’uso di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine, reintrodusse il fermo di polizia e aumentò i termini della carcerazione preventiva. 

Oggi ci sono, peraltro, due importanti novità che segnano la stagione iniziata con il nuovo millennio:

a) la rinnovata svolta repressiva avviene dopo un periodo di allentamento del controllo poliziesco e penale e di (tentata) democratizzazione degli apparati di polizia. Negli ultimi decenni del secolo scorso, sulla scia dell’amnistia politica varata nel 1970 per chiudere le pendenze dell’autunno caldo[6], si era aperta una stagione di depenalizzazione (pur cauta e contraddittoria), plasticamente evidenziata dalle vicende dell’oltraggio e del blocco stradale, depenalizzati, in tutto o in parte, nel 1999 e ripristinati, rispettivamente, 10 e 19 anni dopo con la legge 15 luglio 2009 (uno dei primi “pacchetti sicurezza”) e con il decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113 (primo decreto Salvini). Quel che è oggi in atto sul versante legislativo – con una proliferazione di reati senza precedenti, un aumento generalizzato delle pene e l’introduzione di aggravanti inedite – è un nuovo paradigma repressivo, addirittura più accentuato di quello previsto dal codice Rocco (nel quale, per esempio, la commissione di reati nel corso di manifestazioni, ora configurata come aggravante per molti reati, era considerata, a certe condizioni, un’attenuante ai sensi dell’art. 62 n. 3 codice penale). Non solo, ma, sul finire del Novecento, la smilitarizzazione e la sindacalizzazione della polizia (introdotte con la legge 1 aprile 1981, n. 121) e il ricambio dei vertici degli apparati avevano attenuato la strategia di controllo della piazza fondata sulla contrapposizione frontale e fatto balenare la possibilità di un governo negoziato del conflitto nel quale il diritto di manifestare fosse considerato prioritario, forme anche dirompenti di protesta fossero tollerate, la comunicazione fra manifestanti e polizia venisse considerata fondamentale e si cercasse di ridurre l’uso di mezzi coercitivi puntando alla selettività degli interventi. Questa impostazione (che aveva dato, in realtà, buoni frutti a cominciare dal venir meno di morti e feriti nel corso di manifestazioni) si è interrotta nel luglio 2001 a Genova[7] con l’emergere di una nuova strategia che ha avuto, poi, il banco di prova principale in Val Susa, con un intervento – tuttora in corso – che di è dispiegato per oltre un decennio diventando una sorta di “caso di scuola”[8] (a cui, per questo, si faranno ripetuti riferimenti nel seguito);

b) gli oppositori e i dissenzienti sono cambiati ed è cambiato il loro riconoscimento sociale. Non per caso, ma perché stanno cambiando i protagonisti del conflitto e della protesta: non più (almeno in prevalenza) operai e braccianti, come nella seconda metà del secolo scorso, ma (sempre in prevalenza) antagonisti, studenti e attivisti ambientali (a cominciare dagli odiati No Tav), considerati alla stregua di pericolosi sovversivi, dopo il fallimento dell’iniziale tentativo dell’establishment di blandire i Fridays for Future e l’irruzione sulla scena di Extinction Rebellion e di Ultima Generazione. Ma soprattutto gli oppositori e i dissenzienti oggi sono isolati, sia dalla politica che dai media, che veicolano, anzi, la vulgata dell’esistenza di un conflitto sociale di particolare intensità. E ciò mentre la situazione, nel nostro Paese, è quella di un conflitto a bassa intensità (a differenza di quanto accaduto tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta[9] e di quanto sta accadendo, per esempio, nella vicina Francia). Superfluo dire che l’opposta narrazione, lungi dall’essere casuale, è il portato di uno stile di governo della società, della strumentalizzazione della paura, della considerazione dell’antagonismo alla stregua di un delitto. Fino a punte grottesche, come l’evocazione continua del pericolo anarchico o, addirittura, dell’“attacco al cuore dello Stato” realizzato con l’imbrattamento dell’ingresso del Senato.

 

3.  Modalità e tecniche della repressione

Arriviamo, dunque, alle modalità di repressione del dissenso e della protesta oggi il Italia.

La repressione ha, come sempre, forme eterogenee e diversa intensità. Può essere diretta, cioè aggredire il dissenso in quanto tale al fine di impedirne il manifestarsi (tradizionalmente, il divieto di scioperare o di manifestare o di esercitare la libertà di stampa etc.): modalità, oggi, ridotta, stante il tenore della Carta costituzionale (pur permanendo nella previsione di delitti come l’apologia di reato o nel divieto di accesso alle sempre più diffuse “zone rosse”); oppure può essere indiretta, realizzata cioè attraverso l’aggressione dei movimenti e delle manifestazioni di protesta non in quanto tali ma in modo surrettizio, con l’effetto, peraltro, di punirli, impedirli o disincentivarli[10]: ed è la modalità oggi prevalente. Ciò premesso è utile, ancora, segnalare che la repressione è la risultante di una pluralità di interventi sul versante legislativo, amministrativo e giudiziario.

Di seguito un elenco, pur sommario e pressoché solo per titoli, dei principali strumenti e delle molteplici forme di cui si è avvalsa la repressione del dissenso nel nuovo millennio:

a1) la diffusa militarizzazione del territorio, presidiato talvolta – come spesso accaduto in Val Susa – non solo da forze di polizia in tenuta antisommossa ma addirittura da reparti dell’esercito (quasi a simboleggiare una guerra dello Stato con i suoi cittadini), accompagnata da controlli preventivi pretestuosi e capillari, per esempio nei luoghi di accesso alle città sede di manifestazioni, al solo scopo di impedire ai dimostranti di convergere nei luoghi previsti;

a2) la sempre più frequente istituzione di zone rosse in cui è precluso l’accesso (sul modello del G8 di Genova del luglio 2001), soprattutto, ma non solo, in occasione di manifestazioni[11];

a3) una gestione dell’ordine pubblico, in occasione di qualsivoglia evento o manifestazione, aliena da ogni trattativa e caratterizzata – come si è già ricordato – da una contrapposizione frontale e violenta tra polizia e dimostranti (dimentica del fatto che l’andamento dell’ordine pubblico non è mai statico, ma è sempre frutto di relazioni e che la contrapposizione violenta, lungi dal generare pacificazione, è spesso il detonatore di ulteriori violenze);

a4) l’accrescimento dei poteri e la sostanziale impunità delle forze di polizia per abusi e violenze in operazioni di ordine pubblico (impunità favorita anche dalla mancata introduzione, da parte dei governi di ogni colore succedutisi negli ultimi anni, di un accorgimento elementare come l’obbligo di codici identificativi sulle divise). Ultimo esempio di impunità, anche in caso di accertata responsabilità penale: la promozione a questore di Monza e della Brianza di Filippo Ferri, condannato in via definitiva a 3 anni e 8 mesi di reclusione nel processo scaturito dalle torture e dai falsi di polizia alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001;

a5) l’assunzione da parte di molti uffici di Procura di un protagonismo diretto a tutela dell’ordine pubblico, anche attraverso formule organizzative e accorgimenti processuali ad hoc, spesso del tutto anomali. Esemplare il caso torinese, nel quale ai procedimenti a carico di esponenti del movimento No Tav sono stati assicurati una corsia preferenziale (con conseguenti tempi rapidissimi anche per reati bagatellari) e un pool apposito, istituito – caso unico nella nostra storia giudiziaria – prima dell’esplodere del conflitto e dei conseguenti reati, in un’ottica tipicamente preventiva (propria dell’attività di polizia più che di quella giudiziaria);

a6) l’introduzione, con ripetuti decreti legge[12], di fattispecie di reato e di aggravanti disegnati inseguendo le azioni dei movimenti di protesta (in particolare Ultima Generazione ed Extinction Rebellion), con l’affiancamento alle leggi ad personam dell’epoca berlusconiana, di una inedita categoria di leggi ad movimentum

a7) la reviviscenza dei reati di opinione, anticipata dai procedimenti avviati dalla Procura di Torino nei confronti dello scrittore Erri De Luca per istigazione a delinquere con riferimento all’elogio del sabotaggio della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione e nei confronti del writer Blu, rinviato a giudizio per imbrattamento di un cavalcavia (sic!) in relazione a un murale raffigurante, con accenti critici, la stessa grande opera (considerato da molti un esempio importante del genere). Entrambi i processi si sono conclusi, a dibattimento, con assoluzioni piene ma hanno tracciato una strada, che, in tempi più recenti, è stata intrapresa alla grande, in particolare da parte dell’autorità di polizia, a fronte di dichiarazioni o slogan antisionisti postati sui social o gridati nel corso di manifestazioni pro Palestina[13];

a8) l’uso a tappeto, da parte di molti giudici delle indagini preliminari, delle misure cautelari, trasformate da extrema ratio in regola e da strumenti interni al processo in misure di polizia, con strappi della stessa legalità formale e passaggi motivazionali a dir poco paradossali, come quello secondo cui: «la custodia cautelare in carcere è il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le consistenti ed impellenti esigenze cautelari» (ordinanza TL Torino 8 febbraio 2012). Tra i molti esempi si possono citare, ancora una volta, i processi a militanti no Tav davanti ai giudici torinesi in cui: i) le misure cautelari sono state fondate pressoché sempre su una presunta pericolosità sociale e sul contesto («I lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati»); ii) l’individuazione dei destinatari delle misure è avvenuta per lo più in base al principio del tipo d’autore e a segnalazioni di polizia di molti anni addietro (senza verifica dell’esito dei conseguenti processi[14]; iii) la motivazione circa l’impossibilità di formulare un giudizio prognostico di concedibilità della sospensione condizionale della pena (che osterebbe all’applicazione della custodia in carcere) è diventata una semplice formula di stile[15]; iv) le misure cautelari non detentive sono aumentate a dismisura e sono spesso diventate, anziché un’alternativa al carcere, un improprio percorso alternativo al processo a piede libero, spesso con una afflittività sproporzionata e inutile (per esempio la presentazione due volte al giorno a un ufficio di polizia distante 30 o 40 chilometri dal luogo di abitazione...); 

a9) l’impiego sistematico e prolungato oltre ogni limite ragionevole, da parte di settori della magistratura, delle intercettazioni telefoniche e ambientali nei confronti di appartenenti a determinate aree sociali (in particolare anarchici e centri sociali). Clamoroso il caso due imputati ‒ alla fine assolti da tutte le accuse, dopo una carcerazione preventiva di oltre 2 anni e 7 mesi ‒ intercettati per alcuni anni tra il 2003 e il 2009 (in particolare tra il 2003 e il 2005 dalla Procura di Bologna e dal 2007 in poi da quella di Torino) e, poi, dal giugno 2012 al settembre 2016, per oltre quattro anni di seguito, con una pausa di meno di due mesi, sia telefonicamente che ambientalmente, con microspie posizionate nel loro appartamento da due distinte Procure della Repubblica (Torino e Napoli)[16]. Evidente nel caso, e nei molti consimili, l’intento di monitorare un’area antagonista più che di accertare l’esistenza di reati specifici a carico degli intercettati;

a10) la dilatazione impropria, in molte contestazioni e anche in alcune sentenze, del concorso di persone nel reato, attraverso una sorta di proprietà transitiva in forza della quale la responsabilità viene estesa a tutti i partecipi a manifestazioni nel corso delle quali sono commessi dei reati, pur in assenza di specifiche condotte individuali antigiuridiche e/o della prova di un previo accordo con gli autori dei delitti commessi. Così il principio classico del carattere individuale della responsabilità penale sfuma lasciando spazio a una sorta di anomala “responsabilità da contesto”[17]

a11) l’ampia e fantasiosa contestazione di reati associativi (che non ha risparmiato organizzazioni sindacali[18], centri sociali[19] e nemmeno ong impegnate nel salvataggio in mare ed esperienze di accoglienza come quella di Riace[20]), l’analoga contestazione di fattispecie delittuose clamorosamente sovradimensionate (fino all’evocazione dei fantasmi del terrorismo in contesti che con esso nulla hanno a che fare[21]) e la ritenuta idoneità a integrare alcuni reati tipici del conflitto sociale di condotte costituenti esplicazione di diritti fondamentali[22]

a12) l’adozione di forme di detenzione particolarmente segreganti e afflittive e l’esclusione dell’accesso a misure alternative al carcere per categorie di soggetti, considerati alla stregua di “nemici interni”. Anche qui illuminante è una vicenda riguardante il movimento no Tav. Si tratta del diniego di misure alternative al carcere a una ragazza condannata per violenza privata con l’incredibile motivazione che «la lunga carriera militante della condannata è perdurata fino a epoca recentissima, dando prova della sua incrollabile fede negli ideali politici per i quali non ha mai esitato di porre in essere azioni contrarie alle norme penali» e che «la condannata risiede a Bussoleno, comune dell’Alta Val di Susa: la collocazione geografica del domicilio del soggetto coincide con il territorio scelto come teatro di azione dal movimento No TAV, il quale ha individuato il cantiere di Chiomonte per la realizzazione della futura linea dell’Alta Velocità come scenario per frequenti manifestazioni e scontri con le Forze dell’Ordine. La vicinanza di tale luogo al luogo di dimora della condannata la espone al concreto rischio di frequentazione di soggetti coinvolti in tale ideologia e di partecipazione alle conseguenti iniziative di protesta e dimostrative che, dopo le stringenti limitazioni imposte dal lockdown, potrebbero in futuro diventare più frequenti» (magistrato sorveglianza Torino, ordinanza 9-11 settembre 2020 nei confronti di Dana Lauriola)[23]

a13) il sempre più frequente ricorso a misure di prevenzione o di polizia (in particolare l’avviso orale, il foglio di via e l’obbligo di soggiorno), usate snaturandone la funzione originaria e sfruttando la possibilità di standard probatori più ridotti, contro esponenti di movimenti di protesta a cui viene intimato dal questore, per lo più con motivazioni tautologiche, di allontanarsi da un determinato comune, di dimorare nel comune di residenza e di astenersi dal frequentare determinati luoghi. Si noti che l’uso indiscriminato dei fogli di via (riproposizione in chiave moderna del domicilio coatto) avviene – in misura sempre maggiore (da ultimo per lavoratori della logistica e militanti di Ultima Generazione ed Extinction Rebellion) – quando addirittura negli anni Cinquanta i maggiori costituzionalisti (a cominciare da un giovane Giuliano Amato) ne mettevano in dubbio la costituzionalità; 

a14) l’aggressione ai patrimoni degli esponenti più attivi dei movimenti con l’applicazione di sanzioni amministrative e il ricorso ad azioni civili vessatorie. È il caso, per esempio, della condanna al risarcimento del danno (quantificato in 191.966,29 euro e spese processuali) inflitta il 7 gennaio 2014 dal Tribunale di Torino - sezione distaccata di Susa (e solo in parte attenuata in appello) a tre esponenti del movimento No Tav per essersi opposti, insieme a molti altri, alla effettuazione, da parte di tecnici assistiti dalla forza pubblica, di sondaggi propedeutici alla costruzione della linea ferroviaria. Come dire che il mancato accesso di un camion in uno stabilimento a causa di un picchetto di lavoratori in sciopero comporta la responsabilità degli scioperanti presenti per tutti i danni conseguenti alla mancata produzione, anche di giorni o mesi, ricollegabile in qualche misura alla indisponibilità del materiale trasportato sul camion! È l’apertura di un filone. Negli anni successivi sarà spesso il Governo a costituirsi parte civile chiedendo risarcimenti a dir poco “inusuali” fino ad arrivare, nel cosiddetto “Processo Sovrano” definito in primo grado da Tribunale di Torino con sentenza 31 marzo 2025, a formulare richieste risarcitorie milionarie, a titolo di danno patrimoniale, per «il costo dell’attività investigativa svolta ai fini dell’individuazione dei responsabili degli illeciti, nonché con riferimento alla spesa sostenuta a titolo di straordinari, indennità accessorie ed indennità di ordine pubblico corrisposte al personale impiegato per contenere e limitare i manifestanti e i danni» e, a titolo di danno non patrimoniale, per il danno alla “immagine”, al “prestigio” e alla  “credibilità” dei ministeri coinvolti nell’attività repressiva. Queste richieste, per ora, sono state respinte dai giudici ma la loro efficacia deterrente è di tutta evidenza;

a15) l’uso costante e spregiudicato del processo a mezzo stampa per delegittimare e criminalizzare gli accusati. La prassi è in verità risalente e ha il capostipite più noto nel cosiddetto “processo 7 aprile”, iniziato nel 1977[24]. L’ampia pubblicistica al riguardo consente di limitarsi qui a un semplice richiamo, non senza sottolineare che la trasformazione della cronaca giudiziaria dei più grandi quotidiani in mattinali delle Questure o veline delle Procure (talora addirittura estremizzate) la dice lunga sulla strombazzata libertà di informazione del nostro paese.

 

4. Il decreto legge “sicurezza” e l’accelerazione della svolta autoritaria

È in questo contesto che si colloca il recente decreto legge 11 aprile 2025 n. 45 (convertito nella legge 9 giugno 2025, n. 80) che ha impresso al sistema un’ulteriore curvatura repressiva. Il testo del decreto e i suoi profili di irrazionalità e incostituzionalità sono stati oggetto di numerosi interventi[25], per cui mi limito qui a segnalare le più rilevanti (e preoccupanti) novità nel settore della criminalizzazione del dissenso e della opposizione radicale. Quattro su tutte:

b1) c’è, anzitutto, la previsione della resistenza passiva come condotta idonea a integrare reati. L’articolo 26 del decreto legge infatti, prevede, mediante l’introduzione dell’articolo 415 bis codice penale, il delitto di rivolta in istituto penitenziario, consistente in «atti di violenza o minaccia o di resistenza all'esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite», precisando che «costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell'ufficio o del servizio necessari alla gestione dell'ordine e della sicurezza». Il reato è poi esteso, con lieve riduzione di pena, agli analoghi comportamenti tenuti nelle «strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti». La novità è dirompente. In particolare: i) la “resistenza passiva”, sino ad allora ritenuta non penalmente rilevante dalla giurisprudenza di legittimità[26], viene, per la prima volta in modo esplicito, considerata idonea a integrare un reato: non a caso la norma è stata definita, nel dibattito giornalistico, “emendamento anti Gandhi”[27]; ii) la previsione del delitto di resistenza passiva con riferimento a una categoria di soggetti (i detenuti) considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé, introduce nel sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto inizialmente (con l’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401) per una categoria marginale come quella dei tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo del territorio (potenziato anche nel decreto legge in esame[28]); iii) sempre per la prima volta tutti i luoghi di accoglienza per migranti sono, anche formalmente, equiparati, ai fini della sussistenza del delitto di “rivolta” (comprensivo della resistenza passiva) a istituti penitenziari, così cristallizzando il processo in forza del quale i migranti sono considerati non potenziali autori di reati ma “reati in sé”, per il solo fatto di esistere;

b2) proseguono, poi, i già segnalati aumenti delle pene per reati commessi nel corso di manifestazioni e la previsione di misure amministrative ad hoc in presenza di azioni di protesta. In particolare: i) l’articolo 12 interviene sull’articolo 635 del codice penale, che punisce il delitto di danneggiamento, disponendo che, se i fatti realizzati nel corso di manifestazioni in luogo pubblico sono commessi con violenza alla persona o con minaccia, la pena è della reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni (anziché da uno a cinque anni) e della multa fino a 15.000 euro; ii) l’articolo 19 inserisce nell’articolo 339 del codice penale un ultimo comma in forza del quale, se la violenza o la minaccia a pubblico ufficiale (già aggravata dal numero delle persone o con il lancio di oggetti e, per questo, punita con la pena della reclusione da tre a quindici anni) è commessa «al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all'erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici», la pena è aumentata fino a un terzo (i No Tav e i No Ponte sono avvertiti...); iii) l’articolo 24 introduce un’ipotesi aggravata di deturpamento e imbrattamento di beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche ricorrente «qualora il fatto sia commesso con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene», punita con la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi di reclusione e la multa da 1.000 a 3.000 euro (e con la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa fino a 12.000 euro in caso di recidiva). Evidenti in questa escalation repressiva, da un lato, il tramonto del carattere di generalità e astrattezza della legge e, dall’altro, lo stigma di negatività applicato alle manifestazioni e alle azioni di protesta in quanto tali;

b3) il decreto legge interviene, in terzo luogo, in settori di grande delicatezza come la sfera dei reati d’opinione e l’anticipazione della soglia della punibilità. Si segnalano, in questo senso tre interventi: i) la previsione come reati della divulgazione di materiale (scritti, video, documenti, istruzioni) potenzialmente idoneo a consentire la preparazione di reati di stampo terroristico, a prescindere dalla sua valenza e finalità istigatoria, e della semplice detenzione di materiale contenente istruzioni su tecniche o metodi per il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici, con la motivazione – esplicitata negli atti preparatori dell’originario disegno di legge – che queste norme devono essere introdotte perché oggi la semplice detenzione di materiale viene punita solo se ci siano elementi sufficienti per ritenere che chi detiene voglia anche commettere atti di terrorismo; ii) l’estensione del delitto di occupazione di immobile destinato ad abitazione anche a chi, «fuori dei casi di concorso nel reato, si intromette o coopera nell'occupazione dell'immobile»; iii) l’inserimento nell’articolo 415 codice penale (che disciplina il reato di istigazione a disobbedire alle leggi) di un’aggravante in forza della quale la pena (della reclusione da sei mesi a cinque anni di reclusione) è aumentata fino a un terzo «se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute». Evidente in queste disposizioni, che ampliano a dismisura la sfera della punibilità, l’intento di criminalizzare i movimenti antagonisti in quanto tali e di fare così “terra bruciata” intorno ai poveri e ai ribelli[29];

b4) strettamente correlato con i precedenti, c’è un quarto filone di innovazioni del decreto legge tese ad aumentare i poteri e le tutele delle forze di polizia.  Si tratta di un profilo particolarmente importante perché prosegue e aggrava l’inversione del già ricordato percorso di democratizzazione della polizia perseguito, seppur contraddittoriamente, nella storia repubblicana. Vengono in rilievo in particolare: i) gli articoli 19 e 20, che prevedono consistenti aumenti di pena per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni quando i fatti sono commessi in danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria; ii) l’articolo 22, in forza del quale «agli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria appartenenti alle Forze di polizia a ordinamento civile o militare, agli appartenenti alle Forze armate e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, indagati o imputati per fatti inerenti al servizio (nonché agli eredi), che intendono avvalersi di un libero professionista di fiducia, può essere corrisposta, anche in modo frazionato, una somma, complessivamente non superiore a euro 10.000 per ciascuna fase del procedimento, destinata alla copertura delle spese legali, salva rivalsa se al termine del procedimento è accertata la responsabilità dell’ufficiale o agente a titolo di dolo»; iii) l’articolo 28, che autorizza gli appartenenti alla polizia di Stato, all’arma dei Carabinieri, alla Guardia di finanza, al corpo degli agenti penitenziari e alle polizie municipali, a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio (così consentendo l’immissione in circolazione, potenzialmente, di decine o centinaia di migliaia di pistole in più delle attuali); iv) l’articolo 31, in forza del quale l’immunità penale per operazioni di infiltrazione in organizzazioni terroristiche (fino ad allora prevista in via transitoria) diventa permanente e viene estesa anche al caso di assunzione di un ruolo di direzione e organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico: al cosiddetto “infiltrato” si affianca così, nell’area della non punibilità, l’agente provocatore (potenzialmente organizzatore e promotore ex novo di un’organizzazione terrorista, con connessa commissione di reati), sia pure al fine di smascherare e punire appartenenti ad associazioni terroristiche; v) l’articolo 21, che prevede, stanziando per la bisogna più di 23 milioni di euro per il triennio 2024-2026, la possibilità di dotare «il personale delle Forze di polizia impiegato nei servizi di mantenimento dell'ordine pubblico, di controllo del territorio e di vigilanza di siti sensibili nonché in ambito ferroviario e a bordo dei treni […] di dispositivi di videosorveglianza indossabili, idonei a registrare l'attività operativa e il suo svolgimento»: si tratta delle cosiddette bodycam attivabili ben oltre i limiti indicati dal Garante per la protezione dei dati personali, secondo cui esse possono essere indossate solo «in situazioni di pericolo di turbamento dell’ordine pubblico». La conclusione è obbligata. Anziché investire in formazione e dispositivi di tutela degli operatori di polizia, si aumentano le pene per i reati commessi nei loro confronti, si incentiva l’uso delle armi da parte loro e se ne potenzia in modo indiscriminato il ruolo (con uno sbilanciandolo sempre più accentuato rispetto alla posizione dei cittadini). Il risultato non sarà certamente una crescita democratica del paese e un miglior rapporto della polizia con la società. Non importa, ché ad interessare è altro: spostare l’asse istituzionale verso gli apparati militari e le forze di polizia, cementando alleanze tradizionali della destra con i settori più corporativi e reazionari degli stessi, con effetti imponenti nella direzione di uno Stato di polizia. 

 

5. Che fare? Spunti per un capitolo da aprire

Il “che fare” non è oggetto specifico del mio intervento, ma vi dedico, egualmente, alcuni flash necessari, se non altro, per evitare il senso di frustrazione conseguente all’analisi sin qui svolta. Sono flash che riguardano la politica, i magistrati e i movimenti.

La politica (quella progressista, intendo, o quella che si autodefinisce tale) ha un’occasione storica per ripensarsi e per uscire dalle ambiguità e dal piccolo cabotaggio che la caratterizzano da decenni. L’evolversi della situazione nel nuovo millennio non lascia spazio a dubbi: cavalcare la paura e puntare sulla repressione e su politiche d’ordine come strumenti ordinari di governo della società è semplicemente suicida. Anzitutto perché, lungi dal risolvere, alimenta ulteriormente la crisi politica e sociale contribuendo a intensificare la deriva autoritaria in atto. E, poi, perché è una scelta che non paga neppure in termini di consenso ché assecondare la paura, invece di governarla, produce, inevitabilmente, la vittoria dell’originale (cioè la destra) e non delle sue goffe imitazioni. La provocazione della realtà indica una strada priva di alternative: il recupero e il potenziamento del welfare, un grande investimento su scuola e formazione, un governo inclusivo delle migrazioni, la valorizzazione (in termini culturali ed economici) della società multietnica, una politica e un diritto miti sul piano interno come su quello internazionale, il perseguimento della partecipazione e la valorizzazione dei corpi intermedi e del pluralismo istituzionale…

Anche i magistrati non possono esimersi da un ripensamento profondo. La svolta autoritaria in corso è stata prodotta, o quantomeno favorita, come si è visto, anche da prassi e orientamenti di giudici e, ancor più, di pubblici ministeri appiattiti sulle richieste e pulsioni securitarie della politica (e anche della società). Sono prassi e orientamenti da cui non sono andati esenti neppure settori “progressisti” della corporazione. Eppure il proprium della giurisdizione sta nel presidio dei diritti di tutti e nel rigoroso rispetto delle regole, anche quando, in nome della sicurezza, le sono richieste scorciatoie e deroghe. Questa vocazione è stata inverata dalla magistratura in settori come le migrazioni e la bioetica. Assai meno è accaduto nel settore penale con riferimento alle variegate forme di dissenso e protesa. È, dunque, tempo di una riflessione autocritica che abbia come stella polare il garantismo e non la tutela acritica dello status quo (come impone, del resto, l’articolo 101 della Costituzione, che vuole i giudici «soggetti soltanto alla legge»). Un posizionamento come quello prospettato provocherà polemiche e ritorsioni da parte dell’establishment ma è l’unico ancoraggio di un’indipendenza intesa come condizione per una reale imparzialità e non come privilegio di casta.

Restano i movimenti che – come mi ha ricordato un giovane in un dibattito in Val Susa – sono sempre stati capaci, nella storia, di trovare le strade per esprimersi e di adottare contromisure a fronte della repressione. Quella è la strada: resistere alla repressione ma anche esercitare la fantasia, rinnovare i propri metodi di lotta, percorrere strade fino ad oggi inesplorate, produrre nuove alleanze, parlare in modo comprensibile all’opinione pubblica e via seguitando. In parte già accade ed è l’alternativa a un’autoreferenzialità e una chiusura prive di sbocchi. 


 
[1] Merita aggiungere che, parallelamente, anche la valenza democratica dei sistemi elettorali di molti paesi occidentali va scemando. Da un lato per il prevalere di sistemi maggioritari, che riducono massicciamente la rappresentanza, e per la caduta verticale del numero dei votanti (spesso inferiore alla metà degli aventi diritto). Dall’altro perché – come dimostrano numerose indagini negli Stati Uniti e in Europa – il protagonista delle elezioni è sempre meno il popolo e sempre più il denaro, al punto che, da alcuni decenni, si sta affermando la regola – smentita da pochissime eccezioni – che a vincere le elezioni sono i candidati che hanno a disposizione il budget maggiore (cfr. sul punto, già più di dieci anni fa, M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, 2013, pp. 84 ss.).

[2]Forse qualcuno si sorprenderà, ma la citazione e di Papa Francesco, nel discorso indirizzato il 15 novembre 2019 ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale.  

[3] Il riferimento è ai ricorrenti interventi limitativi di diritti fondamentali (fin dalla legge Pica del 1863 per la repressione del brigantaggio); alle ripetute proclamazioni, durante il periodo liberale, dello stato di assedio; all’affidamento della gestione dell’ordine pubblico all’esercito (come nel 1898 a Milano, quando le truppe del generale Bava Beccaris spararono con i cannoni sulla folla); ai processi agli anarchici di fine Ottocento (con imputazioni mirabolanti e carcerazioni preventive prolungate, seguite per lo più, ad anni di distanza dai fatti, da assoluzioni dibattimentali); alle interpretazioni giurisprudenziali in tema di domicilio coatto o di «associazione di malfattori» (ripetutamente contestata ad anarchici e socialisti); all’uso spregiudicato dei reati di opinione (fino al punto da ritenere, in alcune sentenze, integrato il delitto di eccitamento all’odio di classe, in espressioni come «abbasso la borghesia, viva il socialismo!» o addirittura nel semplice canto dell’inno dei lavoratori); alla previsione come reati dei comportamenti tipici del conflitto sociale (a cominciare dallo sciopero: art. 502, comma 2, del codice Rocco del 1930, rimasto in vigore sino alla dichiarazione di illegittimità avvenuta con la sentenza 4 maggio 1960, n. 29, della Corte costituzionale), etc.  

[4] Prima dell’avvento della Repubblica, all’indomani della caduta del regime fascista, la circolare 26 luglio 1943, emanata per impedire manifestazioni popolari contro il Governo e contro la guerra, dispose lo stato d’assedio provocando 80 morti, 300 feriti e 1.500 arresti. Nel testo della circolare si legge: «qualunque pietà e riguardo nella repressione è un delitto. Poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito. Ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine. Non è ammesso il tiro in aria. Si tira sempre a colpire come in combattimento»

[5] In particolare va ricordata la circolare Pacciardi del 1° giugno 1950, con cui venne militarizzato l’ordine pubblico per contrastare le manifestazioni di operai e braccianti, con l’effetto che, dal gennaio 1948 al luglio 1950, ci furono, nel corso di manifestazioni di piazza, 62 lavoratori morti, 3.123 feriti, 91.433 arrestati e 19.313 condannati.

[6] L’amnistia politica concessa con l’art. 1 del decreto presidenziale 22 maggio 1970 fu finalizzata a chiudere la stagione del ’68-’69 nella quale – con riferimento al solo ultimo quadrimestre del 1969 – erano state denunciate, secondo i dati del ministero dell'Interno, 8.396 persone per 14.036 reati, tra i quali 235 per lesioni personali, 19 per devastazione e saccheggio, 4 per sequestro di persona, 124 per violenza privata, 1.610 per blocchi stradali e ferroviari, 29 per attentati alla sicurezza dei trasporti, 3.325 per invasione di aziende, terreni ed edifici e 1.376 per interruzione di pubblici servizi. Disse, allora, il relatore della legge autorizzativa dell’amnistia che occorreva dare risposta al «disagio diffuso nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di reato che erano stati dettati in un'epoca in cui era sconosciuta la realtà storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli Stati moderni». Da notare che l’amnistia riguardò tutti i reati «commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell'occupazione, della casa e della sicurezza sociale e in occasione ed a causa di manifestazioni ed agitazioni determinate da eventi di calamità naturali» punibili con una pena non superiore nel massimo a cinque anni e, sempre alle stesse condizioni, la violenza o minaccia a corpo politico o amministrativo, la devastazione, gli attentati alla sicurezza di impianti, il porto illegale di armi o parte di esse e l’istigazione a commettere taluno dei reati anzidetti.

[7] Il bilancio delle manifestazioni in occasione del G8 di Genova è stato, tra il 20 e la notte sul 22 luglio, di 253 arresti tra i manifestanti (di cui 93 nel corso della perquisizione alle scuole Diaz e Pertini la notte sul 22). Ad essi vanno aggiunti 49 arrestati nel giorni successivi (soprattutto cittadini stranieri che si stavano allontanando da Genova). Dei 253 arrestati 28 sono stati posti in libertà direttamente dalla Procura che ha chiesto, per gli altri 225, la convalida dell’arresto. I gip non hanno convalidato 76 arresti; alle 149 convalide hanno fatto seguito 100 scarcerazioni per mancata emissione di misure cautelari, 29 misure cautelari non detentive e 20 applicazioni della custodia in carcere. Il bilancio dei feriti è stato di 560 medicati o ricoverati in ospedale (e si tratta, ovviamente, di una rappresentazione sottodimensionata della situazione, dovendosi tener presenti i molti che non si sono recati in ospedale per timore di ritorsioni e quelli che hanno fatto ricorso a cure in ospedali non genovesi).

[8] In Val Susa nel decennio 2010-2020 sono state indagate circa 2.500 persone (con una punta di 327, quasi uno al giorno, nel 2011) con una incidenza territoriale percentuale che non ha pari nemmeno nei territori di mafia. A ciò si sono accompagnati arresti e misure cautelari in gran numero, contestazioni di reati gravissimi (fino all’attentato con finalità di terrorismo) e forzature di diverso genere su cui si tornerà più avanti.

[9] Basta riandare alle tappe principali della storia del dopoguerra con i veri e propri moti successivi all’attentato a Togliatti, la sommossa di Genova del luglio 1960, le manifestazioni di piazza Statuto e di corso Traiano a Torino o, ancora, alcune manifestazioni del 1968; e lo stesso vale per Reggio Calabria e il movimento dei “boia chi molla” che, tra il 1970 e il 1971 paralizzò la città per sei mesi con 6 morti, assalti alla questura e alla prefettura, carri armati sul lungo mare.  

[10] Rientra nella repressione indiretta quella realizzata colpendo comportamenti collaterali ma essenziali. L’input viene dal paese guida, gli Stati Uniti, dove la libertà di esprimere il proprio pensiero e di dissentire, astrattamente tutelata – almeno fino a qualche tempo fa – nella maniera più ampia dal Bill of Rights del 1791, è in concreto erosa da interventi repressivi indiretti che finiscono per vanificarla quasi in toto. Per esempio, secondo linee guida delle autorità di polizia di New York, i manifestanti possono esprimere le critiche più radicali ma vanno arrestati se lo fanno usando cartelli sorretti da aste (considerate alla stregua di armi) o se scendono dai marciapiedi occupando il sedime stradale; la resistenza passiva può essere perseguita come «ostruzione dell’amministrazione pubblica»; la bandiera americana può essere bruciata ma chi lo fa può essere arrestato per aver cagionato il pericolo di incendio e via dicendo.

[11] Un caso particolare di “zona rossa” permanente è quello dell’area circostante il cantiere Tav della Maddalena di Chiomonte in cui «l’ingresso e lo stazionamento di persone, mezzi e cose estranei allo svolgimento delle previste attività connesse con l’apertura del cantiere» è vietato «fino al venir meno delle preminenti esigenze di ordine pubblico», in forza di oltre 50 ordinanze prefettizie emesse senza soluzione di continuità dal 22 giugno 2011 ad oggi. Da notare che si tratta di ordinanze che partono ancor prima degli scontri del 27 giugno e del 3 luglio e che sono rinnovate per 15 anni benché l’art. 2 TULPS ne preveda la possibilità solo «nel caso di urgenza e per grave necessità pubblica» e il Consiglio di Stato abbia ripetutamente stabilito che le ordinanze contingibili e urgenti non possono disciplinare una situazione in modo stabile, ma debbono necessariamente possedere il carattere della temporaneità (Cons. Stato, sez. V, n. 580 del 9 febbraio 2001; Cons. Stato, sez. IV – n. 6169 del 13 ottobre 2003). In Val Susa opera inoltre, anche qui da quasi 15 anni, la legge n. 183/2011 il cui art. 19 prevede che «le aree ed i siti del Comune di Chiomonte, individuati per l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione del tunnel di base della linea ferroviaria Torino-Lione, costituiscono aree di interesse strategico nazionale. / Fatta salva l’ipotesi di più grave reato, chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale di cui al comma 1 ovvero impedisce o ostacola l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale».

[12] Il riferimento è, in particolare, ai decreti legge asseritamente diretti a tutelare la sicurezza adottati negli ultimi 15 anni e consegnati ai posteri con i nomi dei ministri degli Interni proponenti: Maroni (23 febbraio 2009, n. 11); Minniti (17 febbraio 2017 n. 13 e 20 febbraio 2017, n. 14), Salvini (4 ottobre 2018, n. 113 e 14 giugno 2019, n. 53); Lamorgese (21 ottobre 2020, n. 130). La serie è stata, infine (per ora), completata, con il decreto legge Piantedosi (11 aprile 2025, n. 48 convertito in legge 9 giugno 2025, n. 80).

[13] Merita segnalare, al riguardo, la presentazione, da parte di alcuni senatori leghisti (primo firmatario il capogruppo Massimiliano Roneo), del disegno di legge «Disposizioni per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo, nonché per il contrasto agli atti di antisemitismo» il cui articolo 3 prevede che «il diniego all’autorizzazione di una riunione o manifestazione pubblica [...] può essere motivato anche in caso di valutazione di grave rischio potenziale per l’utilizzo di simboli, slogan, messaggi e qualunque altro atto antisemita ai sensi della definizione operativa di antisemitismo adottata dalla presente legge». Evidente la finalità, perseguita con una previsione estremamente ampia e generica, di vietare o limitare le manifestazioni e le iniziative contro il genocidio in atto a Gaza.

[14] Si è arrivati finanche alla sottolineatura della pericolosità di un indagato – poi condannato, nel giudizio di primo grado, a due mesi di reclusione – desunta dalla circostanza che «nel 1970 (cioè 42 anni prima dei fatti, ndr) – è contiguo ai movimenti della sinistra extraparlamentare Lotta continua e Potere operaio e partecipa a una manifestazione non preavvisata all’autorità di pubblica sicurezza, promossa dai predetti movimenti» (gip Torino, 20 gennaio 2012).

[15] Esemplare il caso dei 25 imputati sottoposti alla misura della custodia in carcere per resistenza e violenza a pubblico ufficiale in relazione allo sgombero del cantiere della Maddalena del 27 giugno 2011 e alla successiva manifestazione del 3 luglio: come era ampiamente prevedibile nonostante il clamore degli inquirenti e dei media, all’esito del giudizio (svoltosi con alcuni stralci e separazioni e con un doppio passaggio in appello e in Cassazione) ben 4 imputati sono stati assolti per ragioni di merito e 10 hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena mentre agli altri sono state applicate pene pari o inferiori a due anni, con conseguente ampia possibilità, almeno in linea teorica, di beneficiare, in sede esecutiva, di misure alternative al carcere.

[16] Cfr. C. Novaro: https://volerelaluna.it/societa/2019/07/09/repressione-giudiziaria-e-movimenti-gli-anarchici-i-processi-le-regole/  

[17] Due esempi per tutti di motivazioni in tal senso: «È ragionevole ritenere che nel caso in cui la G. avesse avuto intenzione di limitarsi a manifestare pacificamene, non appena la manifestazione ha assunto carattere violento si sarebbe allontanata» (ordinanza Tribunale del riesame di Torino, 22 settembre 2011) e «È superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano» (ordinanza Giudice per le indagini preliminari Torino, 20 gennaio 2012).

[18] Cfr. L. D’Ancona: https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-piacenza-sindacati-o-associazioni-a-delinquere

[19] Cfr. L. Ferrajoli: https://volerelaluna.it/commenti/2025/01/28/askatasuna-no-tav-e-le-nuove-frontiere-della-repressione/

[20] Cfr. M. Revelli: https://volerelaluna.it/controcanto/2021/12/20/kafka-nella-locride-sulla-surreale-condanna-di-mimmo-lucano/

[21] Il massimo dell’esemplarità sta nella contestazione a quattro attivisti della Val Susa dei delitti di «attentato per finalità terroristiche» (art. 280 codice penale) e di «atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi» (art. 280 bis) in relazione a un “assalto” al cantiere della Maddalena realizzato mediante il superamento delle reti e l’incendio un compressore da parte di alcuni mentre gli altri impedivano l’intervento degli operai e degli agenti di polizia con il lancio di artifici esplosivi e incendiari, senza lesioni di sorta per alcuno. Evidenti i reati di danneggiamento aggravato e di violenza a pubblico ufficiale, ma davvero difficile pensare al terrorismo. Eppure esso venne evocato facendo ricorso a due argomenti grotteschi: a) l’idoneità del fatto ad arrecare un grave danno al Paese (con il venir meno della sua immagine, in ambito europeo, di partner affidabile»); b) l’attitudine dell’attacco al cantiere, in considerazione delle sue modalità e coerentemente con l’obiettivo perseguito, a intimidire la popolazione valsusina e/o a costringere i poteri pubblici ad astenersi dalle attività necessarie per realizzare la nuova linea ferroviaria Torino-Lione. L’infondatezza dell’impostazione ha determinato l’esclusione del reato in tutti i gradi del giudizio e da parte della Corte di legittimità (attivati da ricorsi dei pubblici ministeri) ma la contestazione non è rimasta senza effetto sortendo numerosi esiti: un anno di carcere duro per gli imputati, in condizioni di sostanziale isolamento; un anno di massacro mediatico per gli imputati e per l’intero movimento No Tav; la possibilità di procedere a intercettazioni telefoniche sostanzialmente illimitate nei confronti di interi settori del movimento; l’effetto di induzione per i giudici, pur nel momento in cui hanno escluso il reato, a mantenere livelli di pena più elevati del consueto per i reati residui (con un processo psicologico automatico seppur, verosimilmente, inconscio).

[22] È il caso delle contestazioni dei reati di resistenza o violenza a pubblico ufficiale e di violenza privata in cui, ai fini della sussistenza del reato, viene evocata la «minaccia implicita determinata dal numero di persone schierate». Evidente la forzatura e la sostanziale cancellazione di diritti costituzionali fondamentali, posto che le manifestazioni e i picchetti prevedono per definizione la presenza di più persone. Eppure ciò accade abitualmente nella repressione del movimento No Tav e in quella dell’antagonismo sociale ma anche in numerosi processi per picchettaggio.

[23] Cfr. L. Pepino: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/09/18/dana-la-vendetta-del-tav/

[24] Cfr. G. Scarpari, Processo a mezzo stampa: il “7 aprile”, in Qualegiustizia, n. 51, maggio-giugno 1979.

[25] Si vedano, per tutti i documenti critici del direttivo dell’Associazione italiana professori di diritto penale (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/04/14/tutti-i-rischi-del-decreto-sicurezza/), di 237 professori di diritto piubblico (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/05/02/237-professori-di-diritto-pubblico-il-decreto-sicurezza-viola-la-costituzione/) e del Massimario della Corte di cassazione (https://volerelaluna.it/materiali/2025/07/01/le-molte-falle-del-decreto-sicurezza/).

[26] Il riferimento è alla giurisprudenza in tema di resistenza a pubblico ufficiale che afferma – con valenza, evidentemente, generale – che «non integra il delitto di cui all'art. 337 codice penale la condotta consistente nel mero divincolarsi posto in essere da un soggetto fermato dalla polizia giudiziaria per sottrarsi al controllo, quando lo stesso si risolva in un atto di mera resistenza passiva, implicante un uso moderato di violenza non diretta contro il pubblico ufficiale» (così Cass. Sez. 6, 6 novembre 2012, Roccia, pres. Milo, est. Conti G.).

[27] Merita sottolineare che la considerazione della resistenza passiva come illecito penale è implicita anche nella nuova disciplina del blocco stradale nella quale è esplicitamente menzionata l’ostruzione stradale realizzata con solo corpo (cioè la condotta tipica delle manifestazioni non violente). Con tale modifica normativa sono criminalizzati – in caso di mancato preavviso di manifestazione o di intervenuto divieto del questore ai sensi dell’art. 18 del Testo unico di pubblica sicurezza o di modalità di attuazione difformi da quelle concordate – anche i manifestanti pacifici che stazionino continuativamente e in gruppo in una strada prospiciente i cancelli di una fabbrica (dove, per esempio, è in corso uno sciopero) o l’ingresso di una scuola (dove, sempre per esempio, gli studenti sono in agitazione), ovvero che blocchino una strada o un’autostrada, sdraiandosi a terra o semplicemente percorrendola, senza alcuna violenza (dove il riferimento a cortei di operai in sciopero o ad azioni dimostrative di gruppi come Ultima generazione o Extinction Rebellion è trasparente).

[28] Il riferimento è all’articolo 13 del decreto che prevede l’estensione del Daspo urbano alle persone denunciate o condannate, anche con sentenza non definitiva, per delitti contro la persona o contro il patrimonio commessi in aree interne delle infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze.

[29] Anche qui si tratta di una scelta di fondo del disegno di legge (e non solo), come dimostra anche la previsione dall’articolo 29 che, modificando alcune norme del codice della navigazione, ostacola ulteriormente le attività delle ONG impegnate nei soccorsi in mare, facendo così “terra bruciata” intorno ai migranti.

[*]

Il testo è la rielaborazione della relazione svolta il 19 luglio 2025 nel corso di formazione di Rovigo di Amnesty International.

09/09/2025
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