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Il caso Piacenza. Sindacati o associazioni a delinquere?

di Linda D'Ancona
giudice del Tribunale di Napoli

Ai coordinatori di due sindacati di base della logistica operanti nel territorio di Piacenza la Procura della Repubblica ha contestato il reato di associazione a delinquere e una lunga serie di reati fine (tra cui violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, sabotaggio) ed il Gip ha applicato nei loro confronti misure cautelari. La vicenda ha suscitato dure critiche e reazioni nel mondo del lavoro, tra gli intellettuali e sulla stampa, facendo nascere un “caso Piacenza”. L’articolo sottopone ad un rigoroso esame critico tanto l’imputazione provvisoria di associazione a delinquere presa in considerazione nell’ordinanza cautelare del GIP di Piacenza quanto le imputazioni concernenti i reati fine delle presunte associazioni. Sottolineando come nell’ordinanza piacentina sia stata trascurata la valutazione delle reali finalità della lotta sindacale e si sia costruita l’esistenza di un programma criminoso su azioni o condotte meramente eventuali, non programmate né programmabili al momento della nascita dell’associazione, il cui unico elemento unificante è rappresentato dal perseguimento di uno scopo del tutto lecito e costituzionalmente garantito. 

1. Con l’ordinanza in esame la GIP del Tribunale di Piacenza ha applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari a sei sindacalisti di due diverse sigle sindacali, perché ritenuti gravemente indiziati del delitto di associazione per delinquere descritti nei capi di imputazione sub 1) e 2).

Si tratta di due capi di imputazione, che differiscono soltanto nella configurazione di presunte associazioni per delinquere costituite tra due gruppi di sindacalisti in seno a due diversi sindacati tra loro contrapposti, e qualificate come “gruppi di potere” nell’ambito del parterre dei lavoratori nel settore della logistica, attività molto diffusa sul territorio di Piacenza poiché importanti multinazionali hanno stabilito i loro HUB strategici proprio in quella provincia.  

Il provvedimento cautelare riguarda anche alcuni altri soggetti, lavoratori di multinazionali operanti nel settore della logistica e trasporti: ad alcuni viene applicata la misura dell’obbligo di presentazione alla Polizia giudiziaria e ad altri la misura del divieto di dimora in relazione a reati – satellite rispetto a quelli associativi, aventi ad oggetto i reati di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali aggravate, violenza privata, ed altre ipotesi.  

 

2. Una prima disamina del provvedimento non può che riguardare il delitto di associazione per delinquere, nelle forme contestate nelle imputazioni sub 1) e 2), che divergono soltanto con riferimento alla sigla sindacale cui aderiscono i soggetti due gruppi di indagati. 

Secondo le imputazioni provvisorie, i due reati associativi si imperniano sulla qualità di coordinatori – nazionali ovvero provinciali – dei due diversi sindacati SI COBAS e USB, e sono finalizzati a «commettere più delitti di violenza privata (art. 610 c.p.), di resistenza a pubblico ufficiale (artt. 336 e 337 c.p.), di interruzione di pubblico servizio (art. 340 c.p.), di sabotaggio (art. 508 c.p.) ed altri».  

Come è noto, l’associazione per delinquere è reato di pericolo a condotta libera: a causa dell’ampiezza della formulazione normativa e dell’anticipazione della soglia di punibilità, tale fattispecie incriminatrice ha costantemente impegnato la giurisprudenza a delinearne i confini, a stabilirne gli elementi costitutivi, ed a razionalizzare una previsione normativa che, se non fosse adeguatamente delimitata,  rischierebbe di precipitare nell’abisso della vaghezza, travolgendo diritti di libertà garantiti dalla Costituzione oltre che da convenzioni e trattati internazionali.  

In primo luogo, sorprende che tra i reati elencati nel programma criminoso delle due associazioni ipotizzate dal Pubblico ministero sia incluso il delitto di resistenza a pubblico ufficiale. 

Invero le condotte previste dagli artt. 336 e 337 cod. pen. intervengono in modo naturalmente occasionale, e sono commesse per effetto dell’insorgenza di fattori del tutto estemporanei: il pubblico ufficiale – agente di polizia – subisce la minaccia o l’aggressione da parte del destinatario, a volte da parte di una pluralità di destinatari, di ordini o disposizioni qualificate come atti del suo munus publicum e la condotta tipica consiste in una reazione illecita ad un ordine o disposizione non preventivamente conosciuti, anche se a volte prevedibili (come nel caso di manifestazioni di piazza). 

Esiste una differenza non piccola tra mera possibilità del verificarsi di un evento, da un lato, e precisa volontà di attuare un programma criminoso di sistematica aggressione delle forze dell’ordine. 

 

3. Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo escluso che possa ravvisarsi continuazione tra reati allorché uno dei delitti sia proprio la resistenza a pubblico ufficiale: nella sentenza n. 3589 del 2000, proprio a proposito della configurabilità del reato continuato di resistenza, la sesta Sezione ha affermato: «è principio di diritto reiteratamente affermato da questa Corte Suprema di Cassazione che, ai fini della configurabilità della continuazione dei reati, ha rilevanza decisiva l’identità del disegno criminoso, inteso specificamente in senso soggettivo, come ideazione, volizione di uno scopo unitario che dà senso ad un programma complessivo, nel quale si collocano le singole azioni od omissioni, di volta in volta poi commesse con singole determinazioni, sul piano volitivo. Ciò esige che lo scopo sia sufficientemente specifico, che la rappresentazione dell’agente ricomprenda tutta la serie degli illeciti, che si inquadrano nel programma, concepito nelle sue linee generali ed essenziali, sicché una divergenza essenziale esclude l’illecito o gli illeciti dal disegno criminoso e quindi dalla continuazione; ed infine, che il programma criminoso sia prefigurato fin dalla consumazione del primo reato, che si assume rientrare nella continuazione, del quale i singoli reati costituiscono momenti di attuazione. L’accentuazione del carattere determinante del medesimo disegno criminoso, nonché il suo carattere soggettivo – psichico – da cui deriva l’esigenza di una più rigorosa prova della sua presenza – riduce l’importanza dell’elemento oggettivo, costituito dall’elemento cronologico e cioè dalla vicinanza o dalla lontananza, sul piano temporale, dei diversi illeciti». La Corte prosegue evidenziando che «peraltro, questa Corte Suprema ha specificato che il “medesimo disegno criminoso” di cui al secondo comma dell’art. 81 cpv. cod. pen., può essere ravvisato solo se la decisione di commettere i vari reati sia stata presa dall’agente in un momento precedente la consumazione del primo e si sia estesa a tutti gli altri, già programmati, sia pure nelle loro linee generali. Pertanto non possono rientrare nella previsione della norma in questione tutti quei fatti costituenti reato che si trovino, rispetto al primo, in un rapporto di mera occasionalità, ovvero siano, con il primo, espressione di una abitualità o addirittura di un costume di vita. Siffatta occasionalità si riscontra ogni volta che il reato successivo venga commesso per effetto dell’insorgenza di fattori del tutto estranei, per loro natura, all’iniziale disegno criminoso…».

Pur nella diversità tra reato continuato, in cui l’autore deve prefigurarsi in anticipo la serie di condotte illecite che intende commettere, e delitto di associazione per delinquere in cui il programma criminoso è necessariamente più generico, non si può non cogliere il minimo denominatore comune alle due fattispecie, costituito dal fatto che le condizioni per la consumazione della catena di delitti oggetto del programma non deve dipendere da fattori estemporanei ed imprevedibili: non si può prevedere se e quando ci si troverà davanti ad un pubblico ufficiale a cui opporsi. 

Tali considerazioni possono valere anche con riferimento al delitto di violenza privata, altro reato inserito nel programma criminoso di cui ai capi di imputazione.  

 

4. È dunque evidente che tra il delitto associativo ed i singoli reati –fine deve configurarsi la continuazione, poiché i secondi sono espressione del programma criminoso maturato in seno al sodalizio criminoso. 

Qualora, come nel caso di specie, non sia ipotizzabile l’esistenza di un programma criminoso che leghi le condotte qualificate come reati satellite al delitto di partecipazione al sodalizio criminoso, dal programma associativo vanno esclusi i delitti che non possono ontologicamente rientrarvi. 

Ne consegue che, ad avviso di chi scrive, il dedotto programma criminoso dell’associazione scolora fino a confondersi con le precipue finalità del sindacato, di lotta per ottenere migliori condizioni di lavoro. 

Né può tenersi conto del generico riferimento, contenuto nell’imputazione, ad altri reati non specificati, poiché si tratta di un richiamo a condotte assolutamente indeterminate, e per tale motivo incompatibili con la configurazione del delitto di associazione per delinquere che presuppone un programma criminoso ben determinato quantomeno nella tipologia dei delitti che i partecipanti dovranno commettere per raggiungere il fine comune al sodalizio[1] [2] [3].  

Pertanto occorreva analizzare a fondo la fattispecie delineata nelle imputazioni provvisorie, prima ancora di soppesare il compendio degli indizi. 

 

5. Proseguendo nella disamina dei capi di imputazione relativi al delitto di associazione per delinquere, il Pubblico ministero enumera una serie di elementi che appaiono ictu oculi riconducibili esclusivamente all’attività sindacale, perciò scriminati dall’esercizio di diritti di rango costituzionale, ed in particolare: 

- il piccolo sindacato SI COBAS era attivo da anni nel settore della logistica di Piacenza; 

- in tale settore era successivamente comparso il sindacato USB, rivelatosi attivo nel «tentare di fare proseliti tra i lavoratori di diverse aziende», quali ad esempio Leroy Merlin, TNT/Fedex, GLS, Traconf ed altre; 

- tra il SI COBAS e la sigla USB era quindi insorto un conflitto per la conquista dei consensi tra i lavoratori e per «cercare di allontanarli dai diversi magazzini»; 

 - il “terreno di scontro” tra i due sindacati locali era rappresentato dagli stabilimenti delle multinazionali della logistica operanti nel territorio di Piacenza, imprese che avevano un elevato numero di dipendenti, «perlopiù di origine straniera» (davvero non si comprende questa precisazione, se non in chiave discriminatoria); 

- i lavoratori erano considerati dai sindacati vero e proprio terreno di conquista, poiché le adesioni all’una o all’altra sigla consentiva a ciascun sindacato di lucrare gli introiti derivanti dal tesseramento e dalle conciliazioni con la parte datoriale e permetteva ai sindacalisti indagati di garantire assunzioni su base «clientelare», stabilizzazioni e «ricche» buonuscite in caso di cambio degli appalti; 

- i sindacalisti, quindi, fomentavano i conflitti all’interno dei magazzini (hub delle multinazionali) provocando scontri con la parte datoriale, con la cooperativa che appaltava la manodopera ovvero con il sindacato avverso, e ottenendo in tal modo ulteriori «affiliazioni» (o meglio, adesioni) dei lavoratori all’una o all’altra sigla, così da assicurarsi i proventi di tessere e conciliazioni. 

 

6. I capi di imputazione, la cui lettura non risulta affatto scorrevole, proseguono affermando che gli indagati:  

-  «creavano ad arte o alimentavano situazioni di conflitto con la parte datoriale, prendendo a pretesto ogni normale e banale problematica di lavoro risolvibile tramite fisiologici rapporti datore di lavoro/lavoratori, avviando attività di picchettaggio illegale all’esterno degli stabilimenti interessati impedendo ai mezzi di entrare e uscire, anche occasionando scontri con le forze dell’ordine, occupando la sede stradale anche con oggetti oltre che con la persona dei lavoratori istigati allo scopo, ponendo in essere continue azioni di sabotaggio (ad esempio azionando l’interruttore di emergenza per interrompere l’azione dei macchinari utilizzati per la movimentazione dei pacchi), istigando i lavoratori a forme di lotta sindacale illecite, compreso il rallentamento pretestuoso o strumentale dell’attività lavorativa o l’uso dell’astensione per malattia anche in assenza di problematiche sanitarie»; 

- «Così alimentato il conflitto costringevano la parte datoriale – piegata dall’illegale blocco dei mezzi e delle merci, con il rischio di vedersi bloccata tutta la filiera logistica del “supplì chain” e in definitiva di perdere l’appalto con il committente (fortemente danneggiato non solo dalle mancate consegne ma dal blocco o rallentamento di tutta la filiera) – a continue concessioni, anche indebite contrattualmente, ed alla fine costringendola ad addivenire a procedure conciliative garantendo ai lavoratori ricche buonuscite ed agli indagati di incassare il contributo previsto per sigle che avevano perorato le ragioni dei lavoratori interessati»; 

- «tramite tale sistema alimentavano attorno alla loro persona reti clientelari di lavoratori interessati alla stabilizzazione, anche e soprattutto a scapito dei lavoratori iscritti a sigle contrapposte, o comunque a lucrare ricche buonuscite, nonché ad approfittare della forza ricattatoria del sindacato di appartenenza per sottrarsi alla propria obbligazione lavorativa (ricorrendo a scioperi bianchi, rallentamenti, uso distorto ed illegale della malattia)»; 

- «infatti, una volta ottenuto e consolidato il potere di ricattare la parte datoriale minacciando continui dannosissimi blocchi, al fine di consolidare la propria presenza all’interno del magazzino con le stesse modalità iniziavano a favorire “i propri lavoratori”, affinché ottenessero di svolgere le mansioni più gradite a scapito degli altri, ottenendo pretestuosi privilegi e ciò per accreditarsi davanti agli “altri” come l’organizzazione più efficace ed in grado di fare ottenere loro condizioni migliori, sebbene ingiuste, in una logica di proselitismo autoalimentato»; 

- «così raggiunta una forza evidente e monopolizzante all’interno dell’HUB cominciavano ad imporsi alla proprietà anche per le scelte squisitamente a questa riservate, come appunto l’organizzazione del lavoro ovvero l’assunzione di singoli lavoratori a scapito di altri, imponendo il proprio volere minacciando in qualsiasi momento arresti alla produzione pretestuosi, non annunciati e dannosissimi; di qui le onerose conciliazioni, con incasso di ingenti somme da parte della sigla»; 

- «e così, per le finalità sopra indicate, si associavano per commettere un numero indeterminato di delitti della specie sopra indicata” ossia violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e sabotaggio». 

Le condotte sono contestate dal 2014 fino all’attualità. 

Seguono oltre centoquaranta capi di imputazione relativi ai dedotti reati – fine, tra cui violenza privata (art. 610 cod. pen.), sabotaggio (art. 508 cod. pen.), turbata libertà dell’industria o del commercio (513 cod. pen.), inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità (650 cod. pen.), omesso avviso al Questore dell’organizzazione di pubblica manifestazione (art. 18 r.d. n. 773/1931), interruzione di servizio o di pubblica necessità (art. 340 cod. pen.), resistenza a pubblico ufficiale aggravata (artt. 337, 339 cod. pen.), inosservanza del provvedimento dell’Autorità emesso per ragioni di ordine pubblico (art. 24, comma 3, r.d. n. 773/1931), rifiuto di indicazioni sulla propria identità (art. 651 cod. pen.), inottemperanza all’ordine di esibire il documento di identità e il permesso di soggiorno (art. 6, comma 3, legge n. 286/1998). 

Le imputazioni sono suddivise per “episodi” e per singole aziende erogatrici di servizi; coprono un arco di tempo molto ampio, con indicazione di episodi criminosi che, stando a quanto afferma la stessa giudice per le indagini preliminari, sono anche oggetto di separati procedimenti.  

Nei confronti di alcuni indagati, oltre agli arresti domiciliari per il reato associativo, è emessa anche la misura dell’obbligo di presentazione alla Polizia giudiziaria per alcuni dei reati satellite, nonché il divieto di dimora nel territorio della provincia di Piacenza per altri reati. 

 

7. Ciò posto, sempre con riferimento ai reati associativi ed alla descrizione delle condotte contenuta nei capi di imputazione provvisori, si osserva:  

- Non è chiaro cosa sia un’assunzione «clientelare» favorita da un sindacalista; 

- Le imputazioni provvisorie sembrano peccare di indeterminatezza, poiché non si chiarisce in quali casi, e per quali importi di denaro, una conciliazione sarebbe così sproporzionata da potersi qualificare come «ricca»; peraltro siamo nell’ambito di accordi negoziali aventi ad oggetto diritti disponibili, specie da parte datoriale, e non si comprende come una conciliazione tra datore di lavoro e lavoratore, ancorché molto favorevole per quest’ultimo, possa costituire elemento caratterizzante il delitto associativo, posto che si versa in tema di attività lecite, e che in caso di eccessiva sproporzione tra le posizioni contrattuali sono previsti  specifici rimedi di tipo civilistico. Resta da parte ogni considerazione ulteriore circa i rapporti di forza contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore; 

- Gli introiti provenienti dal tesseramento e dalle attività di mediazione e conciliazione dei sindacalisti sono del tutto leciti, in quanto costituiscono il corrispettivo dell’attività svolta dal rappresentante sindacale in virtù del mandato conferitogli dai lavoratori con l’adesione al sindacato. Soltanto qualora il sindacalista tenesse per sé il denaro frutto di tessere o conciliazioni, invece di versarlo nelle casse del sindacato, si potrebbe pensare ad un’appropriazione indebita, in cui però parte offesa e danneggiata sarebbe il sindacato stesso, che dovrebbe sporgere apposita querela, in assenza della quale non potrebbe procedersi nei confronti del presunto autore del reato; 

- Il picchettaggio è ormai da tempo considerato attività lecita, sempre che non vengano compiute vere e proprie azioni di violenza contro persone o cose per impedire ai lavoratori di entrare in azienda in occasione di scioperi o manifestazioni. La giurisprudenza penale in materia di picchettaggio risale agli anni settanta; non si registrano successive pronunce della Suprema Corte, che nella sentenza n. 7595/1975 ha affermato il principio secondo cui l'esercizio del diritto di sciopero comporta la legittimità  di praticare liberamente quelle azioni sussidiarie che sono ritenute necessarie per la riuscita dell'astensione, quale il lancio di manifesti, la ripetizione di slogans, la formazione di blocchi volanti propagandistici, o dei cosiddetti picchettaggi di persuasione e altre consimili attività dirette a svolgere opera di convincimento nei confronti di coloro che dimostrano assenteismo o dissenso; ma è evidente che non è lecito porre in essere tali attività con modalità lesive di diversi interessi privati penalmente tutelati fino a giungere alla violenza privata. (fattispecie in cui un sindacalista non appartenente alla categoria in sciopero, cioè ai lavoratori del commercio, aveva contribuito a far chiudere alcuni negozi i cui proprietari erano estranei alla manifestazione); altra pronuncia, la n. 1249 del 1975, afferma che il cosiddetto picchettaggio, vale a dire l'attività svolta dagli scioperanti per indurre eventuali dissenzienti a desistere dall'accedere al posto di lavoro, costituisce reato soltanto se sia accompagnato da violenza o minacce; negli altri casi, integra un illecito civile, violando il diritto di libertà del lavoro tutelato dalla Costituzione; 

- Eventuali forme di lotta sindacale che si pongano al di fuori del perimetro del diritto allo sciopero, come scioperi “bianchi” o atipici, possono costituire condotte disciplinarmente rilevanti, ma non sembra proprio che possano rappresentare elementi costitutivi di un’associazione per delinquere.  

- La falsa astensione per malattia del lavoratore che in realtà non ha alcuna patologia si qualifica come truffa ai danni del datore di lavoro e concorso nel falso ideologico commesso dal medico che redige il falso certificato di malattia: tali reati non sono descritti in alcuna delle centoquaranta imputazioni nè ricompresi nel programma criminoso dell’associazione, e dunque non utili a connotare i presunti scopi illeciti del gruppo sindacale; il concorso morale del sindacalista nei reati di truffa e falso ideologico è astrattamente possibile, ma va dimostrato in ciascuno specifico caso, e comunque non vi è alcuna contestazione, tra quelle relative ai reati satellite, che abbia ad oggetto tali condotte. 

Ad avviso di chi scrive appare, inoltre, arduo pensare che un’associazione per delinquere possa avere come programma criminoso l’obiettivo di commettere delitti di interruzione di pubblico servizio e sabotaggio: in realtà, gli eventuali reati di sabotaggio, le cui condotte sono ancora tutte da scandagliare considerato che per ciascuna imputazione occorre dimostrare la concreta e dolosa manomissione di macchinari o strumenti delle aziende, non hanno uno scopo a se stante, ma rientrano nelle dinamiche di lotta sindacale e costituiscono azioni di forza, la cui rilevanza penale deve essere valutata caso per caso, e sono finalizzati ad ottenere dalla parte datoriale migliori condizioni di lavoro o retributive. 

Non bisogna dimenticare che, una volta ammessa la possibilità di deroghe in peius alla contrattazione collettiva nazionale mediante la sottoscrizione di accordi aziendali e finanche di contratti individuali, si è aperto un terreno di conflittualità potenzialmente sconfinato: mentre i sindacati “storici” possono avere linee di interlocuzione più “morbide” con le parti datoriali, piccole sigle sindacali come quelle oggetto delle vicende in esame possono, invece, attestarsi su posizioni più rigorose, tenuto conto che i lavoratori non hanno alternative se vogliono ottenere risultati concreti e indurre le parti datoriali ad accettare tutte o parte delle loro richieste. 

Sotto tale aspetto, non vi è nulla di strano se il sindacato prende posizione in favore dei propri iscritti, e non di altri lavoratori: è proprio questo il compito del sindacato, quello di tutelare i propri iscritti, ed è ciò che accade normalmente in caso di riconoscimento di corrispettivi per l’estromissione dall’azienda (esodi incentivati, e quelle che vengono chiamate buonuscite), o in caso di stabilizzazione di lavoratori a tempo determinato. 

 

8. Sembra, pertanto, che nelle imputazioni relative ai reati associativi si registri una sorta di strabismo inquisitorio: si confonde la condotta tipica di alcuni reati, come quello di sabotaggio, per la finalità perseguita dal gruppo di sodali, rectius sindacalisti, e si perde di vista il reale scopo delle condotte – che talvolta possono trasmodare in atti illeciti penalmente rilevanti – costituito dall’obbiettivo di costringere le parti datoriali ad addivenire a patti con il gruppo sindacale che persegue obiettivi di tutela della collettività dei lavoratori aderenti.  

In altre parole, l’aberratio consiste nell’aver obliterato il reale scopo della lotta sindacale, ed aver costruito l’esistenza di un programma criminoso su azioni o condotte meramente eventuali, non programmate né programmabili al momento della nascita dell’associazione, il cui unico elemento unificante è rappresentato dal perseguimento di uno scopo del tutto lecito e costituzionalmente garantito. 

A nulla vale enunciare in premessa che le condotte degli indagati esulano dal perimetro dell’attività sindacale, poiché all’affermazione astratta deve seguire, in primo luogo, la rigorosa dimostrazione della riconducibilità della fattispecie concreta all’ipotesi criminosa delineata nella norma di cui all’art. 416 cod. pen. (operazione di sussunzione del fatto nella fattispecie astratta prevista dalla norma penale); se tale dimostrazione è tecnicamente impossibile, le singole condotte contestate come reati – fine rimangono azioni non unificabili da un programma criminoso, semplicemente perché il programma, o scopo dell’associazione, non è illecito. 

Alla luce delle suesposte considerazioni sembra possibile affermare che le condotte indicate nell’imputazione quali espressioni del programma criminoso non possono rientrare in un ipotetico programma criminoso perché frutto di determinazioni occasionate da circostanze contingenti, imprevedibili, e collegate tra loro soltanto dall’obbiettivo di perseguire gli scopi caratterizzanti l’attività sindacale. 

La forte conflittualità tra datori di lavoro e lavoratori, che emerge dalla lettura dell’ordinanza, non può essere fronteggiata ipotizzando un delitto sfornito, in concreto, degli elementi costitutivi la fattispecie incriminatrice, ma occorre intervenire su altri piani, prima di tutto chiamando in causa le istituzioni territoriali e cercando di comprendere quali sono i disagi e le difficoltà delle comunità di immigrati stanziati sul territorio. È necessario, dunque, mettere in atto tecniche di gestione dei conflitti che richiedono tempo, capacità di mediazione, e disponibilità all’ascolto[4]. 

In conclusione, prescindendo dal comprensibile clamore mediatico che ha suscitato l’ordinanza di custodia cautelare in commento, le vicende oggetto di disamina appaiono riconducibili, dal punto di vista tecnico-giuridico, ad una fisiologica ancorché aspra lotta sindacale per l’affermazione di diritti connessi alle posizioni di lavoratori iscritti ai due sindacati; anche la “guerra” tra le due sigle sindacali non è nuova nel panorama nazionale, e non sembra che in precedenza siano stati ipotizzati reati di associazione per delinquere. 

Eventuali condotte di violenza o di sabotaggio a beni o cose delle imprese datrici di lavoro sono ascrivibili ai singoli lavoratori che le hanno commesse, poiché il programma e lo scopo del sindacato non è quello di commettere reati, bensì di ottenere migliori condizioni di lavoro. 

Sotto tale profilo colpisce l’affermazione contenuta nell’ordinanza, secondo cui i fatti oggetto del procedimento fuoriescono dal perimetro della libertà sindacale e dei diritti a questa connessi: prescindendo dal sapore di “excusatio non petita”, le condotte descritte nel capo di imputazione dimostrano il contrario, dal momento che siamo di fronte ad attività sindacali, anche molto forti, ma pur sempre riconducibili alla sfera della libertà di rivendicare modalità e condizioni di lavoro più favorevoli nei confronti di aziende che svolgono attività analoghe, e applicano analoghe condizioni e tariffe salariali.

Non stupisce, quindi, che i lavoratori di imprese diverse si siano associati per combattere insieme, persino trasferendosi a bordo di automezzi da uno stabilimento all’altro per portare avanti le loro rivendicazioni.   

Ciò non toglie che singole, specifiche azioni possano costituire fatti penalmente rilevanti; ma di qui ad ipotizzare un’associazione per delinquere operante sin dal 2014, e ritenere sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati, intercorre uno spazio siderale.  

 

Clicca qui sotto per leggere l'ordinanza del Tribunale di Piacenza, Ufficio del Giudice delle Indagini Preliminari, 12 luglio 2022

Parte 1 (pp. 1-100)

Parte 2 (pp. 101-200)

Parte 3 (pp. 201-300)

Parte 4 (pp. 301-348)


 
[1] Per un’analisi più approfondita della compatibilità tra associazione per delinquere e reato continuato, Cass., Sez. V, n, 44606/2016 – Rv. 232797, secondo cui non vi è incompatibilità strutturale tra le due figure, in quanto nulla si oppone a che, sin dall'inizio, nel programma criminoso dell'associazione si concepiscano uno o più reati-fine individuati nelle loro linee essenziali, di guisa che tra questi reati e quello associativo si possa ravvisare una identità di disegno criminoso.

[2] Sugli elementi costitutivi del reato continuato, Cass. Sez. Un., n. 28659/2017 – Rv. 270074, secondo cui il riconoscimento della continuazione necessita di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l'omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea.

[3] Sulla differenza tra delitto di associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato, Cass., Sez. V, n. 1964/2019 – Rv 274442 (e giurisprudenza ivi richiamata), secondo cui elemento distintivo tra le due figure è individuabile nel carattere dell'accordo criminoso, che nel reato associativo risulta diretto all'attuazione di un più vasto programma criminoso per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programmati. Proprio alla luce di tale pronuncia il carattere paradossale del reato associativo finalizzato alla commissione di delitti di resistenza a pubblico ufficiale e violenza privata appare ancor più evidente, non risultando verosimile l’esistenza di un generico programma criminoso consistente nell’aggredire pubblici ufficiali e commettere atti di violenza contro i lavoratori che provino a superare i picchettaggi fuori degli stabilimenti produttivi per entrare al lavoro anche in caso di proclamazione di uno sciopero da parte dei sindacati.

[4] Sul punto, cfr. M. Sclavi e L. Susskind, Confronto creativo: dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati, et. al. Edizioni, 2011. 

02/08/2022
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