1. Lo stato delle cose
La giustizia civile in Italia versa in condizioni drammatiche, non solo e non tanto in relazione alla fatidica data del 30 giugno 2026 destinata al raggiungimento degli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), in seno al programma Next Generation EU, ma anche e soprattutto per quanto possa accadere negli anni a venire dopo quella data. Al momento sono stati raggiunti due dei tre obiettivi fissati dal PNRR (la riduzione dell’arretrato civile e del disposition time – DT - per il settore penale), ma non anche quello relativo al DT per il settore civile, che tarda a manifestarsi come possibile.
Il Consiglio superiore della magistratura, nella sua delibera del 16 luglio 2025, ha suggerito alcune misure di indubbia efficacia nell’immediato: la stabilizzazione degli oltre 8000 funzionari UPP; il ricorso a magistrati civili in pensione; l’estinzione dei giudizi tributari (il pesante fardello della Cassazione) aventi ad oggetto i debiti compresi nella dichiarazione di definizione agevolata; il riscontro in sede amministrativa alle domande di riconoscimento della cittadinanza provenienti da discendenti di emigrati italiani; la rivalutazione in sede amministrativa dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale sopravvenuti in epoca successiva al provvedimento di diniego impugnato in giudizio. Non è andato nella direzione indicata dal CSM il decreto-legge n. 117 del 2025, convertito con modificazioni dalla legge n. 148 del 2025, la cui insufficienza è già stata denunciata[1]. Come è stato documentato su questa Rivista on line[2], due dati destano maggiore preoccupazione: l’aumento delle iscrizioni nel settore civile ed il calo delle definizioni. Con riferimento a queste ultime, a partire dal 2021, avendo come base il 2019, il segno positivo riguarda solo i tribunali, mentre per quanto riguarda le corti d’appello e la Corte di cassazione, se si esclude solo per quest’ultima il numero straordinario, per ragioni intuibili, dell’anno post-covid (+ 40,4% nel 2021; più modesto il dato delle corti d’appello, pari a + 15,2%), il segno è sempre negativo. Impressiona, in particolare, quello complessivo delle corti d’appello, pari a - 24,7%.
Risuona ancora oggi quanto lamentò nel lontano 1982 Vittorio Denti, a proposito del nodo centrale delle criticità che attingono corti d’appello e Corte di cassazione: «l’eccessività del vigente sistema delle impugnazioni, che da un lato prolunga in modo abnorme la durata dei giudizi attraverso il loro triplice grado, e dall’altro lato impedisce alla Corte di cassazione di esercitare con tempestività e adeguato approfondimento la sua funzione regolatrice»[3]. Avvertiamo oggi quelle parole come ancora drammaticamente attuali. Nella delibera del CSM sopra richiamata si torna ad invocare riforme procedurali non più procrastinabili. Se guardiamo alle nostre spalle, vediamo come gli interventi legislativi sul processo abbiano attinto essenzialmente il rito, se si esclude la relativizzazione dell’effetto devolutivo dell’appello e la modifica del vizio motivazionale in cassazione. Non è da escludere che alla richiamata diminuzione delle definizioni possa avere concorso, sia pure in minima parte, la continua modifica del rito, in termini di continue esigenze di adattamento. A fronte dell’incessante ritorno legislativo sul rito, ciò che è rimasta immobile è la filosofia di fondo dell’impugnazione civile. Abbiamo ragione di ritenere, anche al di là del dato statistico sopra richiamato, che nel sistema delle impugnazioni si annidi una delle ragioni principali della perdurante crisi della giustizia civile. Si suole dire che per la Corte suprema una misura da adottare sarebbe l’introduzione di filtri professionali, ossia la limitazione dello ius postulandi in Cassazione ad un ristretto numero di avvocati, ma già Denti, nello scritto citato, in anni con numeri ben diversi dai nostri, senza nulla togliere alla necessità della misura, osservava che si tratterebbe comunque di «un rimedio a lunghissima scadenza, dato il numero enorme degli attuali iscritti nell’albo speciale»[4].
Siamo partiti dalla riconduzione della drammaticità della condizione della giustizia civile soprattutto agli anni a venire dopo il 2026. La prospettiva – si badi, ineludibile – del prossimo 30 giugno ci fa, forse, perdere di vista il dopo, quando dal regime straordinario, di cui il recente decreto-legge è l’ultima testimonianza, si tornerà a quello ordinario. Se nonostante lo sforzo straordinario della magistratura italiana il raggiungimento del DT per il settore civile è ancora lontano, cosa sarà della giustizia civile negli anni a venire, quando necessariamente, per forza di cose, si dovrà tornare agli standard ordinari e cesseranno le misure organizzative straordinarie[5]? Dobbiamo impegnarci a fondo per il giugno 2026, è una responsabilità nazionale che ci chiama, ma dobbiamo restare lungimiranti, e guardare al dopo, iniziando fin d’ora a mettere le mani sul futuro. Del resto, questo è quanto esige veramente il PNRR, il cui obiettivo è l’introduzione di interventi strutturali, idonei ad introdurre cambiamenti duraturi, e non determinati dall’occasionalità delle contingenze. La drammaticità del momento impone un intervento radicale: è allora la filosofia di fondo dell’impugnazione civile a dover essere ripensata.
2. Tornare alla Costituzione
Coloro che oggi guardano al processo civile di cui sono parti, guardano ormai non più al processo come tale, ma al tempo della sua durata. Il processo si snoda per giudici e gradi, lungo una distesa temporale che, non di rado, replica la stessa materia controversa, e che, soprattutto, relativizza sempre più la portata del giudizio di primo grado. Quest’ultimo è diventato il semplice anello di partenza di una catena, nella quale, il più delle volte, lo spazio, in termini fisico-temporali, è occupato per la parte prevalente dai diversi livelli di impugnazione. Il giudizio di primo grado è ormai il primo step di una vicenda destinata ad acquistare dimensioni talvolta elefantiache e che mette ai margini, in un angolo ormai lontano, il lavoro del primo giudice. Eppure, non è questa l’immagine che ricaviamo dalla Costituzione, al di là, ovviamente, dell’imperativo della ragionevole durata del processo.
È opinione comune che l’Assemblea costituente abbia scelto di non costituzionalizzare, a differenza del ricorso per cassazione, il principio del doppio grado di giurisdizione. Per quanto oggi non sia pensabile, proprio a causa del disegno costituzionale – lo preciseremo a breve -, l’eliminazione del giudizio di appello, come invece autorevolmente proposto in anni lontani da Mauro Cappelletti[6] e Alessandro Pizzorusso[7], l’assenza di copertura costituzionale dell’appello rende chiaro come, per il costituente, la dialettica fondamentale sia fra un giudice di merito ed un giudice di legittimità. La Costituzione conosce un giudice terzo e imparziale, davanti al quale il processo si svolge nel contraddittorio fra le parti, ed il ricorso in Cassazione per violazione di legge: quel giudice terzo e imparziale ben può essere (soltanto) quello del giudizio di primo grado, vera sede pertanto della cognizione di merito. Del resto, questo era stato l’intendimento di Ludovico Mortara che, pur consapevole della garanzia di giustizia assolta dall’appello, guardava ad un giorno lontano, in cui, abolito ogni controllo, «il sistema di un giudizio solo sul merito, posto sotto l’egida del ricorso in cassazione pel caso di violazione di legge» sarebbe apparso come «destinato a rappresentare il maggior progresso possibile negli ordini giudiziari»[8].
Come dimostra Pizzorusso nello scritto richiamato, «l’Assemblea costituente non volle vincolare il legislatore pronunciandosi a favore o contro il mantenimento o l’introduzione del principio del doppio grado di giurisdizione»[9]. All’agnosticismo del costituente storico fa tuttavia da contrappeso la living constitution, nel corso della quale, non solo nel processo penale, dove è del tutto evidente, ma anche in quello civile, il giusto processo dell’odierno art. 111 non sarebbe oggi immaginabile senza il grado di appello. Un input lo dà anche lo stesso documento costituzionale, che nel secondo comma dell’art. 24 fa riferimento non solo ad ogni stato, ma anche ad ogni «grado del procedimento». Si tratta allora, per quanto riguarda il processo civile (cui è rigorosamente limitata la portata del presente scritto), di comprendere, in una concezione dinamica dell’ordinamento, quale sia oggi il senso costituzionale dell’appello.
L’evoluzione dell’istituto è l’indicatore principale della sua natura costituzionale. Come è noto, l’effetto devolutivo dell’appello è stato notevolmente ridimensionato dalle riforme legislative. L’appello non è oggi un gravame sul merito tale da integrare un novum iudicium, che realizzi in modo automatico l’effetto devolutivo pieno, ma, pur conservando l’effetto sostitutivo della sentenza di primo grado, anche quando confermativo della statuizione del primo giudice, costituisce piuttosto una revisio prioris instantiae, perché, per quanto a critica libera, è fondato sui motivi specifici individuati dall’appellante, in funzione di controllo degli errori del primo giudice, con una cognizione quindi circoscritta alle questioni dedotte con i motivi di impugnazione. In questo quadro si è arrivati a dire che l’appello non è più un mezzo di gravame, attraverso il quale sottoporre ad un altro giudice il riesame del merito, ma è diventato un «mezzo di impugnazione in senso stretto a critica libera», assai prossimo al ricorso per cassazione[10]. Sia come sia, l’evoluzione dell’istituto schiude le porte ad una sua rinnovata interpretazione costituzionale, che colloca l’appello proprio in una zona intermedia fra il giudice del primo grado e quello di legittimità.
Se si muove dalla premessa di un costituente agnostico sull’appello, ma non sul primo grado e la Cassazione, quali architravi essenziali della giurisdizione, si deve osservare che al giudizio di appello si addice una funzione mediatoria fra merito e legittimità, funzione che l’effetto devolutivo pieno del novum iudicium non è in grado di assolvere, in quanto mera ripetizione di uno dei due termini che dovrebbe invece mediare, il giudizio di primo grado. Se di mediazione deve trattarsi, allora il grado di appello dovrebbe realizzare, è proprio il caso di dire, una graduazione, un approssimarsi per gradi al giudizio di legittimità, ripetendone i caratteri, ma senza perdere del tutto la sua natura di cognizione di merito. Il senso costituzionale dell’appello riposa proprio su questa sua natura di giurisdizione intermedia fra merito e legittimità, la quale ripete i tratti sia dell’uno che dell’altra, da una parte assolvendo – all’insegna del giusto processo - una fondamentale funzione di controllo del giudizio di fatto, dall’altra creando il filtro fondamentale rispetto al sindacato integralmente impugnatorio della Corte di cassazione[11]. L’attuale revisio prioris instantiae è un primo passo nella direzione dell’acquisto della funzione di anello di congiunzione fra merito e legittimità. Si tratta oggi di completare questa evoluzione, realizzando pienamente la natura ibrida dell’istituto processuale. È una logica costituzionale che si intende così offrire all’appello, e si tratta della stessa postura da assumere, come si vedrà subito, rispetto al ricorso per cassazione, in relazione al quale non c’è alcuna modifica dell’art. 111 Cost. da introdurre, in funzione di creazione di filtri di accesso, ma c’è invece da dare attuazione al dettato costituzionale, il quale concepisce il ricorso per cassazione esclusivamente in funzione della violazione di legge e del sindacato sulla giurisdizione.
3. La riforma necessaria delle impugnazioni civili: a) l’appello
Portare alle estreme conseguenze la configurazione dell’appello in termini di revisio prioris instantiae significa trasformarlo da mezzo di gravame a vera e propria impugnazione. Tale fu la proposta di riforma formulata nel 1991 da Andrea Proto Pisani[12], anticipata nell’impostazione di fondo un decennio prima da Vittorio Denti[13], e che successivamente vide l’adesione di Claudio Consolo[14].
Secondo la proposta in discorso, l’appello andrebbe strutturato come azione di impugnativa a motivi tipizzati, illimitati in diritto, ma limitati in fatto, secondo il modello del numero 5 dell’art. 360 c.p.c.. A quest’ultimo proposito, l’impugnazione del giudizio di fatto, coerentemente peraltro all’art. 360 n. 5 vigente all’epoca (omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione), veniva intesa dagli autori citati in termini di controllo di congruità logica della motivazione. Il nuovo art. 360 n. 5 consentirebbe di concepire oggi il motivo in fatto nei termini del vigente vizio motivazionale, per cui il giudizio di fatto del primo giudice sarebbe appellabile solo per omesso esame di fatto decisivo e controverso[15]. All’impostazione “cassatoria” dell’appello si accompagnerebbe, secondo la proposta di Proto Pisani, una fase rescindente ed una rescissoria, con decisione impugnabile in Cassazione anche per vizio motivazionale.
Una declinazione in chiave impugnatoria dell’appello è emersa nell’originario ddl delega presentato alla Camera nel 2015, elaborato in base alla commissione Berruti, il quale prevedeva la «tipizzazione dei motivi di gravame». Nella Relazione illustrativa si leggeva addirittura che ci si dovesse indirizzare verso una forma d’impugnazione a critica vincolata proponibile unicamente per due motivi: la violazione di norme di diritto sostanziale o processuale e l’errore “manifesto” di valutazione dei fatti. Come è noto, la norma sulla forma dell’appello (art. 342 c.p.c.) prevede oggi l’indicazione delle «censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado» e delle «violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata». Riteniamo che si debba prendere le mosse dalla proposta Proto Pisani. I motivi in diritto illimitati coincidono con le attuali «violazioni di legge», il giudizio di fatto potrebbe essere impugnato solo «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti», ed il procedimento dovrebbe articolarsi in una fase rescindente ed una rescissoria. Su queste basi, riteniamo di articolare l’ipotesi di riforma nei termini seguenti.
L’introduzione nel giudizio di appello di una norma analoga all’art. 366, comma 1, n. 6 c.p.c. (che prescrive, per il ricorso per cassazione, la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti, su cui il motivo si fonda, e l’illustrazione del contenuto rilevante degli stessi), consentirebbe di fissare i requisiti di ammissibilità della denuncia di vizio motivazionale per come interpretati dalla giurisprudenza. La limitazione del motivo in fatto al vizio motivazionale ha un’immediata ripercussione sulla revocazione, per cui dovrà intendersi esperibile anche nei confronti della sentenza pronunciata in primo grado il rimedio di revocazione ordinaria previsto dall’art. 395 n. 4 c.p.c. (errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa), ed in tale ipotesi la revocazione concorrerà con l’appello, richiedendo una disciplina analoga a quella prevista dall’art. 398, comma 4, c.p.c.. L’appello, introdotto in via generale mediante ricorso, si articolerebbe, si è anticipato, in due fasi di giudizio: la prima rescindente, relativa all’accertamento della fondatezza del motivo; la seconda rescissoria, alle condizioni appresso indicate, nella quale il giudice provvede, ricorrendone i presupposti, alla sostituzione della decisione di primo grado con altra priva del vizio ritenuto esistente. Si intende che, ove il vizio non sia ritenuto sussistente, e l’appello venga per tale ragione rigettato, non si realizza l’effetto sostitutivo della sentenza del primo giudice, con conseguenze al livello della revocazione che si vedranno più avanti. L’ingresso nella fase rescissoria comporterà eventualmente una nuova decisione di merito. Al riguardo, possono farsi delle distinzioni.
Se il motivo accolto è relativo al vizio motivazionale, il giudizio di fatto spetta al giudice di appello negli stretti limiti di quanto consegue all’esame del fatto pretermesso da parte del giudice di primo grado (con la realizzazione dell’effetto sostitutivo della sentenza di primo grado, anche nel caso di rigetto nel merito dell’appello). Se il motivo è in diritto, dovrà farsi applicazione del criterio di cui al secondo comma dell’art. 384 c.p.c.: se il giudice di appello può recepire il giudizio di fatto del primo giudice, non essendo necessari ulteriori accertamenti, la decisione di merito sarà adottata in sede rescissoria; diversamente (ad esempio se il motivo di diritto aveva ad oggetto la risoluzione della controversia sulla base di una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito, o addirittura l’omessa pronuncia su domanda), la causa sarà rinviata al primo giudice per la nuova decisione di merito. Il costo della regressione della causa al primo giudice, in quest’unica evenienza, sarebbe ampiamente compensato dalla maggiore snellezza e dunque celerità che il giudizio di appello dovrebbe guadagnare, quale conseguenza della circostanza che il giudice di secondo grado non deve più compiere il giudizio di fatto se non per quanto strettamente derivante dall’esame del fatto decisivo e controverso che sia stato pretermesso in primo grado, a parte il caso del giudizio di rinvio, nei limiti che si vedranno più avanti.
Lo spostamento del vizio motivazionale dal ricorso per cassazione all’appello comporta il venir meno del numero 5 dell’art. 360, come evidenziato da Consolo nello scritto sopra citato[16]. Requisito essenziale dell’accesso al giudizio di legittimità è la legalità del giudizio di fatto, la quale è assicurata dall’impugnazione in appello, o mancata impugnazione, di tale giudizio mediante la denuncia di vizio motivazionale. Se il vizio motivazionale non viene denunciato con l’appello, deve assumersi che il giudizio di fatto del primo giudice sia munito del requisito di legalità nel senso dell’avvenuto esame di tutti i fatti decisivi e controversi. La legalità del giudizio di fatto non sarebbe viceversa assicurata, una volta venuto meno il numero 5 dell’art. 360, da un accertamento del fatto per la prima volta in appello e fuori dell’ambito di un vizio motivazionale, cosa che accadrebbe se non si prevedesse il rinvio al primo giudice all’esito dell’accoglimento di un motivo in diritto. Questa è la ragione per la quale, anche nel caso di accoglimento di motivi sia in fatto che in diritto, la decisione di merito dovrebbe spettare al giudice di primo grado, ove il motivo in diritto postuli un nuovo accertamento di fatto, a meno che il giudizio di fatto imposto dall’accoglimento del motivo di diritto non coincida con quello depurato del vizio motivazionale, nel quale caso la decisione di merito spetterebbe al giudice di appello. Il giudizio di fatto, fuori dell’orbita del vizio motivazionale, dovrebbe competere al giudice di appello solo in sede di giudizio di rinvio dalla Corte di cassazione, ma con la speciale di impugnabilità in Cassazione, come si vedrà subito (principio di impugnabilità in Cassazione mediante vizio motivazionale del giudizio di fatto non munito del requisito di legalità). Siamo così passati all’esame del giudizio di legittimità.
4. (Segue): b) il ricorso per cassazione
Della indispensabilità di una «grande riforma» per la Corte di cassazione Michele Taruffo parlava già nel 1991[17], ma il tema, come si sa, è antico. Esso rinvia al rapporto di proporzionalità inversa fra autorevolezza delle pronunce di legittimità e numero delle decisioni. Una Corte di cassazione che viaggia all’incirca a centomila pendenze annue non è in grado di garantire la funzione nomofilattica come dovrebbe ed è destinata ad una permanente oscillazione fra i due modelli, Corte suprema o terza istanza, come ormai si dice da decenni. Tale è l’interiorizzazione nelle stanze della Corte di un’identità debole, che quest’ultima viene assunta negli stessi documenti ufficiali. Nel decreto di convocazione dell’ultima assemblea generale della Corte di cassazione, fra i temi all’ordine del giorno vi era quello della Corte come “vertice ambiguo”, ossia ciò che per Taruffo, già più di trenta anni fa, significava “crisi di identità” del giudice di legittimità[18]. Da questa sorta di assuefazione ad un’identità incerta è necessario che la Corte di cassazione si liberi. Se vogliamo sciogliere quell’ambiguità nel senso dell’opzione in favore della Corte suprema, la prima modifica da attuare è l’abrogazione del numero 5 dell’art. 360, senza timore che ciò possa significare l’obliterazione dello ius litigatoris, perché quest’ultimo è in realtà affidato alla circostanza che contro ogni decisione giurisdizionale è «sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge» (art. 111, comma 7, Cost.). È l’universalità della garanzia di legalità che fonda la natura non solo oggettiva, ma anche soggettiva del ricorso per cassazione[19]. Sotto quest’aspetto, non dovrebbe esserci distinzione fra ius constitutionis e ius litigatoris, l’uno è l’altra faccia dell’altro, per cui, come è stato scritto, solo l’art. 360 n. 5 c.p.c. sarebbe espressione del mero ius litigatoris[20].
L’argomento a favore della coerenza del vizio motivazionale al sindacato di legittimità è che la correttezza del giudizio di fatto è condizione necessaria della legalità della decisione perché la corretta applicazione della legge postula l’esistenza della sua premessa di fatto. Argomento indiscutibile, ma che verrebbe superato una volta che si affidi al giudizio di appello, concepito in termini impugnatori, la funzione di assicurare la legalità dell’accertamento di fatto mediante il sindacato sulla motivazione. Il giudizio di fatto che il giudice di appello compie in sede rescissoria, una volta accolta la denuncia di vizio motivazionale, è assistito dal requisito di legalità per essere la relativa motivazione depurata del vizio denunciato, a seguito dell’esame del fatto decisivo e controverso che sia stato pretermesso dal primo giudice. La non impugnabilità di esso, con un’ulteriore denuncia di vizio motivazionale (in Cassazione), deriva dallo statuto di legalità acquisito. Si tratta, in conclusione, di un giudizio di fatto con valenza di legittimità. La censura per omesso esame di fatto decisivo e controverso dovrebbe permanere in sede di legittimità nel solo caso di ricorso avverso sentenza di appello emessa in sede di rinvio ai sensi dell’art. 392 c.p.c. (nell’ipotesi indicata nel seguente paragrafo), a seguito del mancato esercizio da parte della Corte di cassazione del potere di decidere la causa nel merito, in relazione ai nuovi accertamenti di fatto che possano essere stati compiuti dal giudice del rinvio. Si tratta di un giudizio di fatto svolto per la prima volta e che non può essere lasciato privo di controllo motivazionale.
Come è noto, il codice di procedura civile del 1865 non faceva alcun riferimento al vizio motivazionale nei motivi di ricorso, ma prevedeva all’art. 517, comma 1, n. 2, la ricorribilità per cassazione avverso la sentenza «nulla a norma dell’art. 361». Quest’ultima disposizione prevedeva al numero 2, fra i casi di nullità della sentenza, l’omissione dei requisiti indicati dalla disposizione precedente, e fra questi «i motivi in fatto e in diritto». Ciò che quindi il precedente codice processuale contemplava era la nullità della sentenza per mancanza del requisito della motivazione. La seconda parte del numero 2 dell’art. 517 («i motivi si reputano omessi quando la sentenza siasi puramente riferita a quelli di un’altra sentenza») contribuì tuttavia al diffondersi di letture giurisprudenziali della mancanza di motivazione in termini non solo meramente formali, ma anche sostanziali, fino alla trasformazione del vizio di omessa motivazione in vizio di «difettosa motivazione», per dirla con Calamandrei[21].
La seconda modifica da attuare per ciò che concerne il ricorso per cassazione è l’abrogazione del numero 4 dell’art. 360 («per nullità della sentenza o del procedimento»). È all’autorità di Piero Calamandrei che bisogna riferirsi per evidenziare sia l’estraneità alla funzione della Cassazione del sindacato sugli errores in procedendo, che la necessità di ricondurre questi ultimi ai motivi di revocazione[22]. Come sempre osservava Calamandrei, con la trasformazione dell’error in procedendo in motivo di revocazione non viene meno la funzione della Corte regolatrice in materia processuale, perché la norma di diritto, di cui si denuncia la violazione o falsa applicazione, è sia quella sostanziale che quella processuale. L’error in procedendo è questione mista, di fatto e di diritto, perché vi è anche il fatto processuale da accertare. Fermo dunque il fatto processuale come accertato in sede di revocazione, denunciabile in Cassazione sarebbe l’errore di diritto in cui il giudice della revocazione sia incorso nello scrutinio dell’error in procedendo, in base al combinato disposto degli artt. 403, comma 2, e 360, comma 1, n. 3.
Si intende che nella nullità della sentenza è compresa anche l’ipotesi della motivazione inesistente. Trasformato il vizio motivazionale in motivo tipico del ricorso in appello, e fatta dell’assenza del requisito motivazionale un motivo di revocazione quale ipotesi di nullità della sentenza, la motivazione dovrebbe restare questione estranea al sindacato di legittimità (salvo il ricorso per vizio motivazionale avverso la sentenza di appello emessa in sede di rinvio, come si è visto). L’eliminazione dei numeri 4) e 5) dall’art. 360 (il primo vizio revocatorio, il secondo prerogativa dell’appello) dovrebbe determinare un significativo cambio di cultura nella formulazione del ricorso per cassazione, emancipandolo finalmente da ogni riferimento al giudizio di fatto, come quando si denuncia, secondo modalità quasi sempre inammissibili, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Nel quadro di un diverso atteggiamento culturale e approccio al ricorso per cassazione, importante è anche l’introduzione di una nuova disciplina delle modalità di accesso all’albo speciale per il patrocinio davanti alla giurisdizione di legittimità, nei termini indicati dal documento approvato all’esito dell’assemblea generale della Corte di cassazione del 19 giugno 2025.
I motivi di ricorso per cassazione dovrebbero essere, in conclusione, i primi tre tipizzati dall’art. 360, con la previsione del vizio motivazionale per le sole decisioni di merito emanate in sede di giudizio di rinvio. La violazione o falsa applicazione di norma di diritto è la funzione elettiva dell’istituto della Cassazione e corrisponde alla «violazione di legge» contemplata dall’art. 111. Il cuore del numero 3 dell’art. 360 è l’interpretazione della legge, perché anche il vizio di sussunzione presuppone la corretta comprensione del significato della norma, la cui applicazione nel caso concreto è oggetto di sindacato. I motivi attinenti alla giurisdizione rimandano alla funzione di Corte suprema che la Costituzione assegna alla Corte di cassazione, facendone la corte regolatrice della giurisdizione. Infine, si addice al ruolo di Corte suprema anche la regolazione della competenza fra i diversi uffici giudiziari, ed una volta che essa abbia la titolarità del regolamento di competenza coerenza vuole che quest’ultima torni anche fra i motivi di ricorso.
5. (Segue): c) il giudizio di rinvio
Il giudizio di rinvio deve essere adattato alle nuove caratteristiche del giudizio di appello e di quello di legittimità. Se in sede di appello è stata adottata la decisione rescissoria, l’eventuale riassunzione della causa avverrà davanti al giudice di secondo grado in base alla vigente disciplina di cui all’art. 392 c.p.c., per essere stata sostituita la pronuncia del primo giudice da quella di appello. Se invece in sede di appello è stato disposto il rinvio al primo grado per la nuova decisione di merito, per un verso, conformemente alla disciplina vigente in materia di rimessione al primo giudice (art. 354 c.p.c.), il termine per la riassunzione innanzi a quest’ultimo è interrotto nel caso di ricorso per cassazione contro la sentenza d’appello (ed il giudizio eventualmente riassunto prima del ricorso deve essere sospeso[23]), per l’altro, a seguito della pronuncia di legittimità, il giudizio va riassunto innanzi al primo giudice nel termine previsto dall’art. 392 c.p.c., non essendovi stata sostituzione della decisione di merito.
Se per una qualsivoglia ragione il ricorso per cassazione sia stato disatteso, il giudice di primo grado dovrà uniformarsi a quanto previsto dalla sentenza rescindente di appello. Se invece il ricorso è stato accolto, il primo giudice dovrà uniformarsi alla sentenza rescindente di appello per come risultante dopo il passaggio attraverso il giudizio di legittimità in relazione ai motivi di ricorso accolti. La decisione di merito sarà così adottata sulla base della regola di giudizio risultante dal passaggio di legittimità e nei limiti del giudicato interno ormai formatosi. Nel caso poi di appello accolto non solo per motivi in diritto, ma anche per vizio motivazionale, la motivazione del primo giudice dovrà risultare depurata del vizio censurato, pena la violazione di legge, poiché si tratterebbe di pronuncia in trasgressione della regola di legittimità sul giudizio di fatto somministrata dal giudice di appello.
La regressione della causa al primo giudice è un costo del sistema che verrebbe ampiamente compensato dai binari particolarmente rigidi entro cui il giudizio di primo grado dovrà svolgersi, ormai plasmato sia dalla regola di giudizio somministrata dalle giurisdizioni superiori, che da ciò che costituisce giudicato interno.
6. (Segue): d) la revocazione
Ai casi di revocazione ordinaria di cui all’art. 395 c.p.c. (numeri 4 e 5) va dunque aggiunto un numero 7), che potrebbe essere il seguente: «se la sentenza è nulla o è nullo il procedimento». Fra i casi di nullità della sentenza, sulla base della previsione del motivo di appello in fatto limitato al vizio motivazionale, dovrebbe esserci anche il giudizio di fatto in sede rescissoria che non rispetti il limite dell’esame del fatto decisivo e controverso. Condizione di legittimità del giudizio di fatto del giudice di appello, una volta accolta la denuncia di vizio motivazionale, che ne fonda pure lo statuto di legalità ai fini del giudizio in Cassazione, è la cognizione di merito rigorosamente limitata a quanto deriva dall’esame del fatto, decisivo e controverso, che sia stato pretermesso dal primo giudice. Se tale limite è violato, in eccesso, o anche in difetto, si concretizza la violazione del principio di corrispondenza di chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.).
La riscrittura dell’appello e del ricorso per cassazione, nei termini indicati, impone una messa a punto delle condizioni di applicabilità della revocazione. Come si è anticipato, la revocazione ordinaria dovrebbe essere esperibile anche contro le sentenze di primo grado limitatamente all’errore di fatto di cui al numero 4 dell’art. 395, disciplinando il concorso con l’appello in termini analoghi all’art. 398, comma 4, c.p.c.. In relazione ai fatti di revocazione straordinaria (numeri 1, 2, 3 e 6) che avvengono dopo il corso del termine per impugnare, e dunque il passaggio in giudicato della sentenza, il rimedio dovrebbe essere diretto nei confronti della sentenza di appello solo se, a seguito dell’annullamento derivante dalla pronuncia rescindente, vi sia stata la pronuncia rescissoria, la quale, comportando l’effetto sostitutivo, fa della sola sentenza di appello quella suscettibile di passare in cosa giudicata. Nel caso in cui il vizio non sia stato ritenuto sussistente, e sia stato pure rigettato il ricorso per cassazione, è la sentenza di primo grado, anche laddove risultante da un rinvio per l’accoglimento di un motivo di appello in diritto, a passare in giudicato ed a diventare suscettibile di revocazione straordinaria.
7. (Segue): e) tempus regit actum
Poiché la riforma, che qui si propone, investe l’intero sistema delle impugnazioni, l’actus di riferimento, per l’applicazione del criterio tempus regit actum, dovrebbe essere il provvedimento giurisdizionale di primo grado. La nuova disciplina dovrebbe quindi trovare applicazione alle decisioni di primo grado pubblicate successivamente alla data della sua entrata in vigore. Si vedrebbero così da subito gli effetti della riforma.
8. Per andare avanti
Il ridimensionamento del sistema delle impugnazioni dovrebbe comportare un’assunzione di centralità del giudizio di primo grado. Collocare in quest’ultimo il centro di gravità del sistema significa anche dotarlo delle risorse umane e strumentali necessarie. È dunque fondamentale provvedere a adeguati investimenti, anche mediante gli opportuni riequilibri con la dotazione umana e strumentale degli uffici collocati nei gradi d’impugnazione. Per riprendere Mortara, la giustizia civile ideale sarebbe quella di un primo grado, perfettamente funzionante, «posto sotto l’egida del ricorso in cassazione pel caso di violazione di legge». L’ideale ci serve, però, soltanto come criterio regolativo delle scelte legislative, ma il mondo reale dell’oggi non può fare a meno della pluralità di impugnazioni. Ciò a cui bisogna realisticamente puntare è una residualità delle impugnazioni rispetto al cuore della giustizia civile, che dovrebbe essere collocato nel primo grado. È probabilmente necessario anche un cambio di prospettiva circa la composizione degli organi giudicanti. Pensare che i magistrati di maggior esperienza debbano essere riservati all’appello, mentre quelli di prima nomina debbano andare nei tribunali, significa non comprendere che è invece nel primo grado, per la sua centralità, che debbono concentrarsi le professionalità più mature. Salvaguardando una quota di magistrati esperti nell’appello, che potrebbe corrispondere in ciascun collegio fondamentalmente al presidente e quanto meno ad un altro componente, c’è da chiedersi se non sia il caso di invertire l’ordine e guardare al primo grado come la sede deputata ai magistrati più anziani (tenendo peraltro così sempre alte le risorse motivazionali di un magistrato avanti con gli anni).
A ben vedere, è la logica del processo civile che pone al centro il primo giudice. La verità si fa nel contraddittorio, come sancisce l’art. 111. Essa non è quindi lo specchio della realtà, ma è il prodotto di un dibattito del quale, elemento fondamentale, è l’istruzione della causa, diretta da un giudice terzo e imparziale. L’epistemologia del processo civile risponde ad una concezione retorico-argomentativa di verità (non così nel processo penale, dove il rito accusatorio ha subito nel corso degli anni un drastico ridimensionamento nella direzione dell’accertamento della verità materiale), concezione che rinvia non ad essenze ontologiche, ma a oneri probatori non assolti (in mancanza di accertamento positivo della circostanza rilevante), contegni processuali e mancate contestazioni, tutto l’universo insomma in cui si articola il giudizio di primo grado. A questa filosofia non si sottrae neanche il processo del lavoro, nel quale il principio dispositivo, pur ridimensionato dalla ricerca della verità materiale alla base dei poteri istruttori d’ufficio, continua ad essere dominante, ove si pensi alla rigidità delle preclusioni ed al potere di allegazione dei fatti costitutivi riservato alle parti, la cui iniziativa probatoria continua ad essere quella prevalente (conferendo a quella giudiziale una funzione meramente integrativa).
Se la verità nel processo si forma mediante il dibattito, oggetto del controllo nel successivo grado di giudizio non è la conformità alla realtà esterna di quella verità, ma la persuasività della sua giustificazione argomentativa. Questo è il senso della garanzia di legalità del giudizio di fatto offerta dallo scrutinio del vizio motivazionale ed è la ragione per la quale, in base alla nostra proposta di riforma, questo scrutinio spetta all’appello, quale grado di giudizio successivo al primo grado (mentre, come si è detto, ai fini del sindacato di legittimità, la legalità del giudizio di fatto reso dal giudice di appello riposa sul suo essere depurato del vizio motivazionale). La vigente previsione in appello delle «censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado» sembra contraddire la filosofia di fondo del processo civile. Secondo quest’ultima, come stiamo vedendo, la verità materiale è soltanto l’ideale regolativo, l’idea-limite che si concretizza esclusivamente mediante l’argomentazione nel contraddittorio delle parti, per cui punto di riferimento dell’impugnazione non può che essere la motivazione, e non la realtà esterna. La verità è sempre catturata all’interno di un argomento. Lo stesso errore di fatto oggetto di revocazione rinvia, del resto, al contrasto fra decisione e risultanze processuali, e non fra decisione e realtà.
Il futuro della giustizia civile è gravido di grandi incertezze e richiede scelte radicali non più differibili. Una riforma delle impugnazioni civili, che miri al loro ridimensionamento in favore della centralità del giudizio di primo grado, richiede l’apertura di un confronto con il mondo dell’avvocatura, dal quale verranno prevedibilmente le maggiori resistenze. Bisogna far comprendere i vantaggi delle nuove opzioni processuali, le nuove prospettive che si aprono di una giustizia civile davvero efficiente. Ma per far tutto questo è necessaria, naturalmente, una classe politica determinata. Vorremmo vedere nel nostro legislatore, sul terreno di ineludibili riforme processuali, tutta la determinazione manifestata in una sede, quale quella della revisione costituzionale, che avrebbe invece richiesto la ponderazione e la ricerca del consenso più largo, essendo la Costituzione di tutti e non di una maggioranza politica.
Infine, un impegno per noi magistrati della Corte di cassazione, che viviamo quotidianamente il disagio di una funzione di legittimità ormai sbiadita e schiacciata dai numeri. È necessario aprire una discussione all’interno della Corte sul tema di una grande riforma delle impugnazioni civili, che veda al suo interno una chiara opzione in favore del modello di Suprema corte. L’attuale stato delle cose sembra reificato, una sorta di destino al quale pare impossibile sottrarsi, per cui unica prospettiva resterebbe quella di governarlo e renderlo compatibile con la funzione istituzionale della Corte. È invece lo stato delle cose che deve cambiare, ed in questo quadro la Corte, piuttosto che convivere con la sua ambigua ed incerta identità, deve finalmente conquistare quella - che per statuto le dovrebbe appartenere - di suprema garante, con la legalità delle decisioni giurisdizionali, della uniforme interpretazione della legge. Dall’interno della Corte potrebbe avviarsi un percorso per una stagione nuova della giustizia civile in Italia.
[1] C. Castelli, Misure urgenti per raggiungere il PNRR Giustizia, in Giustizia Insieme, 11 settembre 2025.
[2] C. Castelli, PNRR Giustizia lontano dal raggiungere gli obiettivi nel settore civile, in Questione Giustizia online, 20 giugno 2025.
[3] V. Denti, Appunti sulla riforma delle impugnazioni civili, in Il Foro italiano, 1982, V, col. 112.
[5] Si consideri, in questo quadro, la deroga, introdotta dal decreto-legge n. 117 del 2025, ai carichi di lavoro esigibili, previsti dai programmi di gestione annualmente fissati dagli uffici giudiziari.
[6] Parere iconoclastico sulla riforma del processo civile, in Giurisprudenza italiana, 1969, V, p. 81 ss..
[7] Doppio grado di giurisdizione e principi costituzionali, in Rivista di diritto processuale, 1978, p. 33 ss..
[8] L. Mortara, Appello civile, voce del Digesto Italiano, III, parte 2, Torino 1890, p. 454.
[9] A. Pizzorusso, Doppio grado di giurisdizione e principi costituzionali, cit., p. 36.
[10] R. Poli, Il nuovo giudizio di appello, in Rivista di diritto processuale, 2013, p. 120 ss. e Id., Appello come revisio prioris instantiae e acquisizione del documento erroneamente interpretato o valutato dal giudice di primo grado, ivi, p. 1186 ss..
[11] Già Michele Taruffo, nel suo volume del 1991, individuava in «un appello di tipo sostanzialmente cassatorio» uno strumento di possibile funzione deflattiva dei ricorsi per cassazione (M. Taruffo, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna 1991, il Mulino, p. 176).
[12] Note sulla struttura dell’appello civile e sui suoi riflessi sulla Cassazione, in Il Foro italiano, 1991, I, col.107 ss. Diversi anni dopo Proto Pisani ebbe ad orientarsi nella diversa direzione da una parte della rigorosa restrizione della cognizione del giudice di secondo grado alle questioni devolute (negando tuttavia l’effetto sostitutivo dell’appello nel caso di infondatezza dei motivi di impugnazione), dall’altra dell’apertura ai nova (Note sull’appello civile, in Il Foro italiano, 2008, V, col. 257 ss.).
[13] Appunti sulla riforma delle impugnazioni civili, cit..
[14] La rimessione in primo grado e l’appello come gravame sostitutivo (una disciplina in crisi), in Jus, 1997, 94 ss..
[15] Sul grado di maggiore penetrazione nel giudizio di fatto della vigente disposizione rispetto al vecchio vizio motivazionale rinvio a E. Scoditti, Fatto e diritto nel giudizio civile di cassazione: a partire da Guido Calogero, introduzione a G. Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione (1937), in corso di ripubblicazione presso l’editore Rubbettino.
[16] C. Consolo, La rimessione in primo grado e l’appello come gravame sostitutivo (una disciplina in crisi), cit., p. 98.
[17] M. Taruffo, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, cit., p. 168.
[19] Sulla natura, a un tempo oggettiva e soggettiva, del giudizio di legittimità, rinvio a E. Scoditti, La nomofilachia naturale della Corte di cassazione. A proposito di un recente scritto sulla «deriva della Cassazione», in Il Foro italiano, 2019, V, col. 416 ss..
[20] G. Scarselli, Sulla distinzione fra ius constitutionis e ius litigatoris, in Questione Giustizia on line, 13 gennaio 2017.
[21] C. Di Iasi, Il sindacato sulla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, in M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti (a cura di), La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, Bari 2020, Cacucci, p. 372.
[22] P. Calamandrei, La Cassazione civile, II, in Id., Opere giuridiche, vol. VII, Edizioni Roma Tre-Press, Roma 2019, p. 401 ss..
[23] Cfr. Cass. 12 marzo 2004, n. 5119 in Giurisprudenza italiana, 2005, p. 332.