Non credo di dover spiegare in questa sede perché questa riforma imprime una radicale virata all’assetto della magistratura. Scopriremo più avanti se la radicalità di questi mutamenti sarà successivamente moderata o esaltata dalla normativa ordinaria, ma oggi dobbiamo ragionare di ciò che c’è, dell’assetto che introduce la riforma e intendo attenermi a questo impegno.
Credo che aver eliminato il principio di rappresentatività dei magistrati nel CSM, aver sottratto a questo organo la disciplina, mutandone addirittura gli equilibri numerici ed aver creato un CSM dei soli PM consenta di affermare che questo intervento costituisce una riscrittura dell’assetto di uno dei tre poteri dello Stato e in definitiva una nuova perimetrazione nei rapporti fra i tre poteri. Se è così, allora prima di fare qualche osservazione nel merito, mi sia consentita una prima franca protesta di metodo: non è accettabile che si cambi la Costituzione nella regolazione fra i poteri dello Stato come se si stesse approvando un qualsiasi decreto-legge, senza ragionarne sul piano culturale con la magistratura che di quel potere costituisce il cuore, sul piano politico con l’opposizione (e financo all’interno della maggioranza), ma addirittura senza ragionarne sul piano istituzionale con lo stesso Parlamento, relegato al ruolo di notaio. Qualunque cosa accada con il referendum, di questo strappo il Ministro e la sua maggioranza portano una responsabilità storica. Ci si rimprovera di aver trascinato la magistratura nell’agone referendario, non ne sono affatto contento, ma è stato proprio questo modo di procedere che lo ha reso inevitabile.
Veniamo al merito. Questa riforma rende la magistratura nel suo complesso più debole e più corporativa. Eliminare dal nostro modello costituzionale l’architrave democratico del principio di rappresentatività decapita la magistratura. Questo era l’obiettivo ed è stato colto.
A fronte di ciò, il legame della componente laica con la politica resta sostanzialmente intonso. Per la verità, è agevole ipotizzare che questo legame sarà addirittura esaltato, perché mentre nell’attuale assetto esclusivamente elettivo il Parlamento è spinto a conservare una certa rappresentatività dell’organo parlamentare (come conferma la storia del CSM, che finora ha visto eleggere componenti anche su indicazione della minoranza parlamentare), una volta introdotto il sorteggio all’interno della rosa dei soggetti eletti dal Parlamento in seduta comune è assai improbabile -per non dire escluso- che la maggioranza parlamentare del momento accetti il rischio che la sorte favorisca i componenti indicati dalla minoranza.
Avremo quindi introdotto nel CSM una falange politicamente omogenea e agguerrita, che si fronteggia con una compagine di magistrati isolati, privi di esperienza su questo terreno, mossi al più da una logica personale o genericamente corporativa. E’ dunque evidente che il controllo della politica sulla magistratura sarà profondo. Ed è per questo che il Ministro candidamente dice alla leader dell’opposizione che la riforma conviene anche a lei, quando governerà. Questo è esattamente ciò che il Costituente del ‘48 aveva voluto in ogni modo scongiurare.
Tra l’altro, questa che ai miei occhi è un’evidente involuzione, paradossalmente non è un’involuzione uniformemente distribuita fra i magistrati, ma integra una pericolosa regressione rispetto all’assetto attuale, dunque soprattutto per la magistratura giudicante.
Per la magistratura requirente il bilancio è assai diverso. Vediamolo.
Il PM - ufficio, ricordiamolo, assai più gerarchizzato - guadagna un CSM tutto suo, parimenti presieduto dal Capo dello stato. Diventa uno degli architravi costituzionali, al pari della magistratura giudicante (in realtà dotato addirittura di un potere maggiore, come segnalerò a breve). Acquista maggiore potere e senso di autoreferenzialità rispetto all’oggi, sebbene si chiuda in un orizzonte davvero asfittico, con un corpo molto omogeneo di appena 2000 persone.
Tutto questo non ha nulla a che fare con la separazione delle carriere e con la parità delle parti innanzi al giudice. Le carriere erano già separate, caso mai si poteva lavorare ancora su quel terreno per rendere più distinti i ruoli, si potevano creare sezioni distinte all’interno del medesimo CSM. Ma in realtà occorreva lavorare sul processo penale, se si voleva davvero mettere al centro il giudice e la parità delle parti: l’odierna sovraesposizione del PM è legata al fallimento del processo penale.
Invece, si separano i CSM e al posto di un solo organo costituzionale se ne realizzano tre, oltretutto con costi proibitivi anche per un paese più ricco del nostro. Non era affatto necessario creare due CSM: sono carriere separate anche quelle dei magistrati del Consiglio di Stato e dei TAR, con concorsi ed accessi diversi, ma siedono tutti nel medesimo organo di autogoverno. Anche per la Corte di conti non si è sentito questo bisogno.
Fino ad oggi la carriera dei PM la amministrava un CSM in larga maggioranza composto da giudici, la deontologia, l’etica, la professionalità era valutata con gli occhi dei giudicanti; con la riforma abbiamo esaltato la prospettiva dell’accusatore, dandogli un’importanza straordinaria e ponendo quella che è una parte processuale addirittura in una posizione di forza anche rispetto ai giudici, verso i quali esercita l’azione disciplinare, se le cose resteranno come oggi. Anche più allarmante, però, l’alternativa, vale a dire che con i decreti attuativi il Ministro trattenga a sé l’esclusivo esercizio dell’azione disciplinare, comprensivo del patrocinio innanzi all’Alta Corte.
Non è un caso se il sottosegretario Delmastro ha detto testualmente che «Dare ai pm un proprio csm è un errore strategico che, per eterogenesi dei fini, si rivolterà contro. I pm, prima di divorare i politici, andranno a divorare i giudici»: al netto della franca ruvidità, la sostanza del bilancio è interamente condivisibile, anzi è di puro buon senso.
E’ impossibile dire oggi cosa tutto ciò determinerà in concreto, ma ci sono tutte le premesse perché si riveli una scelta pessima. Sono i garantisti e i liberali e in definitiva i cittadini, che dovrebbero inorridire davanti a questa riforma, non i magistrati. I cittadini e per loro gli avvocati avranno di fronte a sé una magistratura giudicante molto più debole, intimidita e controllata dalla politica ed un PM molto più autocentrato ed accusatore dell’attuale. Gran bell’acquisto!
Come ho detto, non voglio trattare oggi lo scenario più verosimile che tutto ciò determinerà, vale a dire la successiva sottoposizione del PM al Ministro della giustizia, agevolmente raggiungibile anche senza una nuova modifica costituzionale, come potremmo constatare ragionandone più analiticamente.
Se in tutto questo posso comprendere il desiderio di rivincita della politica, trovo invece del tutto incomprensibile e autolesionista la scelta dell’avvocatura di schierarsi a favore di questa riforma.
In teoria, la riforma aveva l’obiettivo di evitare che le ragioni dell’accusa condizionassero eccessivamente il giudice. Non discuterò la ragionevolezza di questa esigenza, diciamo che proviamo a prenderla sul serio, ma mi pare evidente che la cosa è sfuggita di mano, realizzando un mostro, una casta di PM: meno di 2000 magistrati che si autogovernano e che diventano gli arbitri indiscussi della libertà e della reputazione dei cittadini, per usare le parole di Luciano Violante. Si voleva ridimensionare il PM e invece se n’è esaltata la sua funzione, la sua autoreferenzialità, moltiplicandone anche la logica corporativa, preparandolo per il passaggio successivo.
Peraltro, creando alcune incongruenze di cui mi incuriosisce comprendere la lettura: da un lato il nuovo articolo 102 Cost. ha previsto che con legge ordinaria si disciplinano le diverse carriere dei magistrati giudicanti e requirenti, dall’altro si è lasciato invariato l’art. 107, comma 3, Cost. che stabilisce con una limpida precisione che i magistrati, TUTTI i magistrati, «si distinguono soltanto per diversità di funzioni»: come va letta questa apparente antinomia? Se ne dovrà occupare la Corte costituzionale? Sarà possibile premiare economicamente i PM?
E veniamo al coronamento di questo riassetto: l’Alta Corte disciplinare. Qui si completa una furia iconoclasta che stupisce e che probabilmente metterà la Corte costituzionale al centro di una tensione istituzionale.
Su questo segmento, le pagine ancora da scrivere ed affidate alla legislazione ordinaria sono, indubbiamente, una grande parte, densa di interrogativi inquietanti: - la determinazione degli illeciti disciplinari; - la determinazione delle relative sanzioni; - l’indicazione della composizione dei collegi dell’Alta Corte disciplinare; - la determinazione delle forme del procedimento disciplinare; - la determinazione delle norme necessarie per il funzionamento dell’Alta Corte disciplinare. Alcune addirittura di rilievo dirompente, nella misura in cui la nuova norma costituzionale affida alla norma ordinaria addirittura la concreta assicurazione che i magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio.
Ma intanto, la sua prima e più evidente incongruenza è quella di aver creato un organo dedicato alla sola magistratura ordinaria. La sua seconda incongruenza è quella di non aver fatto i conti con la natura giurisdizionale di questo procedimento, che credo debba ritenersi oramai irrimediabilmente consacrata nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Da questo punto di vista, in disparte il tema dei rapporti numerici -in tutta evidenza suscettibile di incidere anche da questo punto di vista in profondità sull’indipendenza e l’autonomia della magistratura- l’aver assegnato le impugnazioni alla gestione della medesima Corte è un vulnus enorme, che entra addirittura in tensione con i principi dell’art. 111 Cost., tensione a cui la Corte costituzionale, se non già quella di cassazione, dovrà trovare il modo di porre rimedio: financo la disciplina all’interno del mondo forense, è esercitata interamente da un organo elettivo e non sorteggiato e prevede l’impugnazione innanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Si tratta in tutta evidenza di un’altra mortificazione della magistratura maldestramente realizzata e forse la più grave, se si tiene conto che quello disciplinare è senza dubbio il fronte più minaccioso per un giudice o per un pm.
Tutto ciò se vogliamo ragionare intorno ai fatti normativi.
Il discorso si fa più complesso e -lo riconosco- più scivoloso se si passa a ragionare delle colpe. Ma anticipo che se si passa a questo terreno non ce n’è per nessuno. Non ce n’è per la magistratura, ma ce n’è ancora di meno per la politica.
Vediamo. Innanzitutto, abbiamo appreso di recente che quando parliamo di credibilità e di affidabilità, se è vero che la magistratura è considerata affidabile da poco più del 50% dell’opinione pubblica, la politica ha un livello di affidabilità di circa il 30%: indubbiamente uno scontro fra giganti, che però ci dice che se seguissimo il sentimento prima di sorteggiare i magistrati dovremmo sorteggiare i politici. Il mio non è né un auspicio, né una proposta, ovviamente, ma solo la segnalazione di un allarme: quando si insegue questo terreno si sa dove si comincia, ma non si sa dove si finisce.
Ebbene, la magistratura ha fatto molti errori, anche importanti. Quello che le viene maggiormente rimproverato è il correntismo e lo scandalo Palamara che ne ha svelato la deriva. Non è l’unico errore e forse neppure il più grave, ma partiamo da qui.
Innanzitutto, al Hotel Champagne insieme a Palamara non c’era solo la magistratura, c’era anche la politica: la magistratura ha sanzionato i protagonisti seduti a quel tavolo e li ha allontanati, la politica cosa ha fatto al suo interno su questo terreno? Nulla.
Ma lasciamo da parte le inadeguatezze degli altri, ciò che mi sarei aspettato da un approccio autenticamente liberale è la comprensione della lezione che vicende come quella Palamara ci insegnano. Di scandali come -e peggio- di quello Palamara la realtà della politica è piena: dobbiamo dedurne che è sbagliata la democrazia? Non credo. Vicende come quella dimostrano che la democrazia è un sistema imperfetto, come l’uomo, va coltivata, partecipata, resa vitale e se non è vitale ne resta solo l’apparato, la clientela, il potere personale.
Se è così, allora non è non è del tutto vero che la magistratura è rimasta solo con le mani in mano. Si sta sforzando di fare una cosa difficile: rendere vitale quella democrazia. Ci sarebbe servito, semmai, l’aiuto della politica, rivisitando la legge elettorale del CSM e rivedendo la normativa sui direttivi, facendo entrare aria nuova nel circuito dell’autogoverno, anche ripensando alcuni meccanismi di quell’assetto.
Gli oltre sei anni trascorsi dallo scandalo Palamara per i magistrati sono stati densi di dolore, ma anche di fatica, contrasti, discussioni anche drammatiche. Da allora sono usciti migliaia di magistrati ed altre migliaia di giovani magistrati sono entrati. E partecipano. Un anno fa abbiamo fatto un’assemblea nazionale estremamente partecipata come non si vedeva da anni. L’abbiamo ripetuta un mese fa ed ha visto una partecipazione anche maggiore. Anche con idee molto diversificate, la magistratura oggi partecipa, si confronta e cerca di mettersi in discussione: quando andiamo a votare al nostro interno la partecipazione è tornata altissima e possiamo affermare che oggi la nostra democrazia è vitale. Lancio una provocazione: imitateci! Chi vive la politica nel Paese porti la gente a partecipare e sentirsi parte di un progetto, qualsiasi progetto, e la riporti nelle urne, prima che qualcuno pensi che la democrazia non serve e faccia da solo.
Ma secondo me non è neppure su questo terreno che la magistratura porta le responsabilità maggiori. Ciò che non si può perdonare alla magistratura è di non aver avuto abbastanza rispetto e considerazione per le esigenze e le aspettative dei cittadini, di aver lasciato, anzi di aver accettato che la giustizia della vita quotidiana finisse nello stato comatoso nel quale versa, quella civile e quella penale e non so quale di più.
Non le si può perdonare di aver accettato di amministrare una giustizia lontana dalle esigenze e dai bisogni, di aver accettato che i tribunali e l’organizzazione fosse abbandonata a sé stessa; in realtà dovrei dire di aver subito tutto questo, perché amministrare una macchina rotta è solo fonte di un’enorme frustrazione, ma accettare tutto questo senza opporvisi fieramente, significa restare sostanzialmente indifferenti di fronte al fallimento del proprio mandato.
Di questo la magistratura deve effettivamente chiedere scusa ai cittadini.
Ma questa colpa, su cui noi abbiamo dovuto mettere la faccia, solo in piccola parte è nostra, nella misura in cui non siamo riusciti a fermare lo scadimento. Ancora una volta, la più gran parte di questa responsabilità è di chi aveva il dovere di creare le condizioni per un processo civile e penale funzionante e di qualità ed ancora oggi preferisce cambiare la Costituzione e mettere in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura piuttosto che rimboccarsi le maniche e fare funzionare questa macchina. Perché una giustizia efficiente e non condizionabile fa paura. Se non si può avere condizionabile, meglio averla disfunzionale. Chissà, magari rendendola condizionabile tornerà interessante renderla funzionante?
Questa riforma apre una pagina inedita nei rapporti fra i Poteri dello Stato. Una pagina che oggi vede una parte politica tirare le redini, domani ne vedrà irrimediabilmente un’altra. Peraltro, i cambiamenti effettivi su questo terreno sono lenti. Questa maggioranza ha seminato, ma magari raccoglieranno altri. La giustizia, la magistratura, devono restare fuori da tutto questo.
Se si voleva davvero ripensare con equilibrio ai problemi che nella società contemporanea sollecitano il rapporto fra la comunità e i suoi giudici, evitando di delegare interamente al ceto dei giuristi e al giudiziario il governo esclusivo della società -aspirazione che comprendo e che di per sé non trovo eversiva- bisognava avviare un confronto culturale franco, magari una stagione di confronto costituzionale, non aggirare il dibattito con scorciatoie e semplificazioni frettolose, buone per approvare al massimo la proroga di un termine che scade.
Intervento al convegno La riforma costituzionale della magistratura, Roma, Corte di cassazione, Aula Giallombardo (20 novembre 2025)