1. Premessa metodologica
Un primo interrogativo si impone.
C’è una questione di genere, non sul piano sociologico e dei rapporti governati dal mercato e dall’economia dove è indubitabile che ci sia, ma in ambiente giuridico? Utilizzo l’attributo giuridico perché mi occupo della giurisprudenza e dell’interpretazione della norma.
La risposta è ancora oggi affermativa e la traccia dei temi, davvero perfetta, indicata nel programma ci conduce ad evidenziarla ed ad indicarne i correttivi, in alcuni ambiti ancora insufficienti, senza, tuttavia, avere pretese di completezza.
E’ affermativa perché l’universo normativo si presta ad interpretazioni delle norme anche in chiave protezionistica e discriminatoria.
Si oscilla ancora tra un approccio che pone la questione di genere come attinente ad un soggetto debole, seguendo una categorizzazione ormai desueta anche nel diritto dei contratti, ed uno, per fortuna, nettamente prevalente che pone al centro della riflessione la triade uguaglianza sostanziale nell’esercizio dei diritti, dignità, ed autodeterminazione-autoresponsabilità. Seguiamo metodologicamente la traccia tematica del programma
2. Separazione e divorzio
La stessa Costituzione contiene qualche norma, che, se letta, isolatamente, conduce verso un approccio protezionistico e paternalistico: l’art. 31 afferma che la Repubblica “protegge” la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.
La stessa declinazione solenne del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi, ovvero la norma cardine del superamento della primazia del marito nella comunità familiare, contiene un temperamento relativo alla salvaguardia dell’unità familiare sostanzialmente corrispondente ad un modello che, pur se sociologicamente in via di superamento, evoca rapporti di forza all’interno del nucleo familiare fondati sulla supremazia economica di uno dei partner, e che ha avuto ricadute rilevanti anche nella disciplina della separazione e del divorzio, sia sul piano normativo che su quello interpretativo.
Sul piano normativo, in tema di assegno separativo, l’art. 156 c.c. stabilisce che il coniuge ha diritto di ricevere quanto necessario «al suo mantenimento» qualora non abbia adeguati redditi propri. La nozione di mantenimento che si ritrova anche nell’art. 337 ter, quarto comma c.c. con riferimento agli obblighi verso i figli minori (e maggiorenni non autosufficienti) si fonda sulla proporzionalità del contributo rispetto al reddito e alla posizione economica dell’obbligato. Ed al famigerato tenore di vita. Si tratta di un contributo temporalmente ormai molto limitato, potendo la fase separativa essere davvero molto breve[1]. Essa ha rilievo per la capacità espansiva che questo criterio ha avuto anche nell’elaborazione dei criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio che si fonda su criteri anche testualmente diversi e non contiene l’indicazione del «mantenimento».
Questa la previsione normativa di cui all’art. 5 c.6 l. n. 898 del 1970: «tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell'assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria».
Credo che l’elaborazione giurisprudenziale sull’assegno di divorzio fotografi o, meglio, filmi (perché si tratta di un processo diacronico) il passaggio tra il pregiudizio della “debolezza” strutturale del genere femminile come indicatore primario della differenza, e l’accoglimento dei canoni dell’uguaglianza, della dignità e dell’autodeterminazione/autoresponsabilità. L’art. 29 che nel secondo comma reca il retaggio…originalista e non più attuale di una visione patriarcale della famiglia si modernizza e si attualizza mediante il prisma della dignità e dell’autodeterminazione che diventano due attributi ineludibili dell’uguaglianza, il primo in chiave antidiscriminatoria e di riconoscimento effettivo delle scelte compiute in ambito endofamiliare e dell’apporto di queste scelte sul patrimonio comune e dell’altro coniuge, l’altro in chiave di autoresponsabilità ovvero di definitivo abbandono dell’idea del matrimonio come mezzo per conseguire un definitivo assetto economico e reddituale.
La più recente giurisprudenza di legittimità ha ben evidenziato queste due linee guida assiologiche nella ricerca di una soluzione che tenga conto dell’irreversibilità dello scioglimento del vincolo e del riconoscimento in chiave di uguaglianza sostanziale del contributo dato nell’ambito della vita familiare valorizzando il profilo solidaristico che scaturisce dall’art. 29 Cost. primo comma e si invera nell’art. 143 c.c.
I principi espressi più di recente evidenziano come i doveri di solidarietà stabiliti nell’art. 143 c.c. in condizioni di assoluta eguaglianza, possono non esaurirsi definitivamente con lo scioglimento del vincolo a condizioni precise e da accertare giudizialmente secondo gli ordinari criteri dell’onere della prova:
a) La precondizione è che vi sia un depauperamento economico derivante dallo scioglimento del vincolo. In questo accertamento la dottrina ha in parte colto un segno di continuità con il passato criterio del tenore di vita che tuttavia non c’è perché in mancanza di squilibrio le condizioni di vita, rilevanti sul piano economico endoconiugale, sono prive di effetti
b) Deve esservi una chiara fotografia dei ruoli endofamiliari, in quanto espressione dell’autodeterminazione dei partners. Ove vi sia uno dei due in prevalenza o in via esclusiva dedito alla conduzione della vita familiare, ed un altro che ha progredito nella sua affermazione professionale e nell’incremento della propria condizione economico-reddituale, deve riconoscersi in chiave perequativo/compensativa un assegno non commisurato al tenore di vita ma all’efficienza causale del contributo offerto, alla durata, alla effettiva possibilità di ottenere una collocazione lavorativa etc. L’attribuzione dell’assegno secondo il criterio compensativo perequativo assorbe il profilo assistenziale, che pure può da solo sostenere una domanda di assegno ove difettino le condizioni per l’altro criterio.
c) La condizione può non essere definitiva e deve essere attentamente valutata in divenire. La prova è presuntiva. Non è necessario provare la perdita di chances.
In conclusione, la solidarietà si coniuga con l’uguaglianza sostanziale e la dignità ma non può che riflettere le scelte emergenti dai fatti accertati. Non residua alcuno spazio all’impianto protezionistico/patriarcale cui era ispirato il criterio del tenore di vita, in quanto fortemente lesivo della dignità personale e del valore dei ruoli endofamiliari, salvaguardati in via legislativa e dall’intervento della Corte Costituzionale anche in tema di impresa familiare[2] e di estensione delle tutele alla famiglia di fatto.
La norma spia del sistema da contrastare è il non abrogato art.143 bis c.c. che conserva la facoltà per la moglie di aggiungere il cognome del marito e di conservarlo nello stato vedovile e l’art. 156 bis c.c. che consente al giudice di vietare l’uso del cognome del marito alla moglie separata. Le due norme esprimono anche simbolicamente la potenza di una concezione del matrimonio come ascensore sociale che garantisce status, benessere e subalternità. Un modello che dovrebbe scomparire dall’universo legislativo in via definitiva.
3. Il cognome materno
Ciò che maggiormente ha caratterizzato il peso della cultura patriarcale sulla disciplina dei rapporti familiari è la ferma determinazione legislativa relativa all’assunzione del cognome paterno da parte dei figli nati all’interno del matrimonio o comunque riconosciuti da entrambi i genitori, contemporaneamente, anche al di fuori di esso.(art. 262 c.c. primo comma). La norma com’è noto è stata oggetto del recente intervento della Corte Cost. (n.131 del 2022) ma la Corte era già intervenuta nel 2016 (sentenza n.286).
Nel 2016 l’intervento additivo si era limitato a prevedere che i genitori di comune accordo potessero attribuire al figlio anche il cognome materno. Nel 2022 si è capovolta la prospettiva applicativa in chiave esplicitamente antidiscriminatoria. La norma è illegittima perché non prevede l’attribuzione di entrambi i cognomi al figlio, nell’ordine concordato, salvo che vi sia accordo sull’attribuzione di un solo cognome.
Senza ricostruire la storia dell’imposizione normativa è rilevante conoscere gli approdi e le insufficienze di regolamentazione attuali.
Così la Corte Cost. nel 2022: «La selezione, fra i dati preesistenti all'attribuzione del cognome, della sola linea parentale paterna - retaggio di una concezione patriarcale della famiglia che riflette una disparità di trattamento concepita in seno alla famiglia fondata sul matrimonio - oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre, cosicché, a fronte del riconoscimento contemporaneo del figlio, il segno dell'unione fra i due genitori si traduce nell'invisibilità della donna, recando il sigillo di una diseguaglianza fra i genitori, che si riverbera e si imprime sull'identità del figlio, così determinando la contestuale violazione dei parametri indicati».
Ed ancora: «Il cognome deve, pertanto, radicarsi nell'identità familiare e, al contempo, riflettere la funzione che riveste, anche in una proiezione futura, rispetto alla persona. Sono, dunque, proprio le modalità con cui il cognome testimonia l'identità familiare del figlio a dover rispecchiare e rispettare l'eguaglianza e la pari dignità dei genitori. La proiezione sul cognome del figlio del duplice legame genitoriale, infatti, è la rappresentazione dello status filiationis: trasla sull'identità giuridica e sociale del figlio il rapporto con i due genitori. Al contempo, è il riconoscimento più immediato e diretto del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali».
La Corte Cost. si è preoccupata di regolare anche la vigenza: «poiché tutte le norme dichiarate costituzionalmente illegittime con la presente sentenza - gli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge n. 184 del 1983 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui prevedono la prevalenza del cognome paterno nell'assegnazione di quello del figlio - riguardano il momento attributivo del cognome al figlio, ciò comporta che la medesima sentenza, dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, troverà applicazione alle ipotesi in cui l'attribuzione del cognome non sia ancora avvenuta, comprese quelle in cui sia pendente un procedimento giurisdizionale finalizzato a tale scopo».
La esigenza antidiscriminatoria, tuttavia, potrebbe comprimere la primaria funzione del cognome ovvero quella di essere elemento determinante l’identità personale. La corte invita il legislatore a scongiurare la proliferazione di cognomi dando suggerimenti sulla disciplina normativa da adottare «La necessità, dunque, di garantire la funzione del cognome, e di riflesso l'interesse preminente del figlio, indica l'opportunità di una scelta, da parte del genitore - titolare del doppio cognome che reca la memoria di due rami familiari - di quello dei due che vuole sia rappresentativo del rapporto genitoriale, sempre che i genitori non optino per l'attribuzione del doppio cognome, o di uno di loro soltanto. In secondo luogo, spetta al legislatore valutare l'interesse del figlio a non vedersi attribuito - con il sacrificio di un profilo che attiene anch'esso alla sua identità familiare - un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle. Ciò potrebbe ben conseguirsi riservando le scelte relative all'attribuzione del cognome al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia (o al momento della sua nascita nel matrimonio o della sua adozione), onde renderle poi vincolanti rispetto ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori (o nati nel matrimonio o adottati dalla medesima coppia)».
Dunque la Corte svolge due rilevantissime considerazioni: l’identità giuridica e sociale del figlio non può essere deprivata della derivazione da uno dei genitori. Questo non solo per il palese effetto discriminatorio di genere che la diversa soluzione evidenzia ma perché ne risentirebbe la completezza di ciò che effettivamente costituisce il nucleo dell’identità personale. Per la centralità di questo profilo della personalità umana occorre trovare un meccanismo semplificatorio e riduttivo della moltiplicazione dei cognomi a pena della dispersione della traccia che deve essere forte ma anche chiara che il cognome trasmette alla nozione d’identità personale.
La Corte di Cassazione con l’ord. n.8369 del 2025, richiamando peraltro una precedente sentenza del Consiglio di Stato di identico tenore (sent. 8422 del 2023), ha ritenuto che i principi elaborati dalla Corte Costituzionale assumono rilievo nelle controversie che traggono origine da domande di modifica del cognome ex art. 89 d.p.r. n.396 del 2000 pur se l’attribuzione del cognome paterno in via esclusiva sia avvenuta prima della decisione della Corte Costituzionale e la richiesta di modifica da parte di uno dei genitori del figlio minore successivamente a tale decisione.
Dunque il valore dell’uguaglianza coniugato con il diritto fondamentale all’identità costituisce criterio immanente non soggetto a soluzione di continuità applicativa.
4. L'art. 250 e l'opposizione al riconoscimento del minore
C’è un ulteriore profilo legato all’identità del minore, strettamente connesso all’assunzione del cognome di uno dei genitori, in via esclusiva o congiunta. che non può essere trascurato. Si tratta della necessità per il genitore che vuole riconoscere il figlio infraquattordicenne già riconosciuto dall’altro genitore (generalmente la madre) di richiedere il consenso al primo genitore che ha effettuato il riconoscimento. Il rifiuto del consenso non ha efficacia potestativa perché il genitore che vuole il riconoscimento può rivolgersi al giudice per ottenere una sentenza che tenga luogo del consenso, ove le difese del genitore oppositivo non siano palesemente fondate. La giurisprudenza di legittimità è estremamente rigorosa al riguardo. Il riconoscimento da parte del secondo genitore biologico completa l’identità del figlio minore e del genitore. Entrambi ne hanno diritto ai sensi dell’art. 2 Cost. ed 8 Cedu. Per il genitore si tratta di un diritto che non ha carattere di assolutezza nel senso che può essere anche negato se destinato a produrre un grave pregiudizio per il minore.
Ma come si misura in questa ipotesi l’interesse del minore?
L’errore che ha spesso condotto alla riforma delle pronunce di merito che avevano rigettato la domanda volta ad ottenere il consenso rifiutato è consistito proprio nell’aver ritenuto che qualsiasi svantaggio derivante dal futuro riconoscimento potesse impedire l’accoglimento della domanda.
La conflittualità accesa, le divergenze educativo-culturali, la mancanza di relazione continuativa, ad esempio non possono integrare il pregiudizio che può incidere sull’esistenza o meno dello status filiationis. Si tratta di profili di centrale interesse ai fini del regime di affidamento e collocamento del minore ma ininfluenti ai fini della costituzione dello status. Anche il giudizio di adeguatezza genitoriale deve essere svolto con particolare cautela. Non può, infatti, ignorarsi la generale disciplina normativa in tema di misure conformative o ablative della responsabilità genitoriale (art. 330 e 333 c.c.). Al fine di disporre la decadenza dalla responsabilità genitoriale è necessario un grave pregiudizio per il figlio minore che derivi da una condotta fortemente omissiva od abusiva dei doveri genitoriali. Per le misure conformative il pregiudizio non assume il carattere di particolare gravità o definitività anche in relazione alle condotte soggettive che lo determinano ma impone misure limitative. Deve, tuttavia, osservarsi, che la decadenza riguarda l’esercizio della responsabilità genitoriale e non determina la perdita dello status che nel nostro ordinamento deriva dall’accertamento della condizione giuridica dell’abbandono, oggetto di rigorosa e ampia indagine da parte del Tribunale per i minorenni, da cui scaturisce l’adottabilità del minore. E’ necessario per ritenere cogente il rifiuto del consenso un quid pluris anche rispetto ai requisiti che possono condurre alla privazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale.
All’interno di queste rigorose coordinate si è mossa la giurisprudenza di legittimità
La necessità di non confondere status ed esercizio della responsabilità genitoriale è stato affermato a partire da Cass. 24718 del 2021 (pienamente confermata in 8762 del 2023) così massimata: «In tema di riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio, il ricorso all'autorità giudiziaria, nel caso in cui l'altro genitore (che abbia già effettuato il riconoscimento) rifiuti il consenso, richiede al giudice un bilanciamento tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l'interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, da compiersi operando un giudizio prognostico, che valuti non già il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono diversi strumenti di tutela, ma la sussistenza, nel caso specifico, di un grave pregiudizio per il minore che derivi dal puro e semplice acquisto dello "status" genitoriale e che si riveli superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel rigettare la domanda proposta ex art. 250 c.c., aveva del tutto omesso di effettuare il predetto bilanciamento, limitandosi a considerare i vari precedenti penali del padre e l'intervenuta revoca del permesso di soggiorno)».
E’ stata, tuttavia, precisato che l’operazione di bilanciamento tra l'esigenza di affermare la verità biologica e l'interesse alla stabilità dei rapporti familiari deve essere effettuata in concreto e deve essere rigorosamente giustificata sul piano argomentativo dal momento che tale bilanciamento non può costituire il risultato di una valutazione astratta, ma deve conseguire ad un accertamento in concreto dell'interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all'esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale.
La scelta legislativa di rimettere al giudice la decisione finale sulla rispondenza all’interesse del figlio al riconoscimento risponde all'esigenza di consentire l'adattamento della clausola generale alle infinite varietà delle situazioni concrete che non potrebbero mai essere tutte previste nella norma scritta, consentendo così, senza lacune, in ogni caso il bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti dalla norma. Ne consegue, secondo la Corte, l’insussistenza di alcun sospetto di incostituzionalità della norma (Cass. 21428 del 2022).
Conseguenza del riconoscimento dello status è la domanda relativa all’aggiunta del cognome (generalmente paterno) che segna il rapporto di filiazione con il genitore che ha effettuato, per secondo, il riconoscimento. La valutazione da svolgere ruota attorno al diritto all’identità del minore ed in particolare al bilanciamento tra l’esigenza di completezza del profilo dell’identità personale del minore e quella alla conservazione dell’identità già acquisita, con attenzione all’aspetto della possibile lesività dell’ostensione di una provenienza familiare che possa arrecare pregiudizio. Il favor, tuttavia, è rivolto verso la coincidenza tra lo status acquisito per effetto del secondo riconoscimento e l’attribuzione ancorché non esclusiva del cognome.
L’operazione di bilanciamento è ben rappresentata nella massima che segue: «è ammissibile l'attribuzione del cognome del secondo genitore in aggiunta a quello del primo, purché non arrechi pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del secondo e purché non sia lesiva della identità personale del figlio, ove questa si sia già definitivamente consolidata, con l'uso del solo primo cognome, nella trama dei rapporti personali e sociali».(Cass. 8762 del 2023)
In conclusione non si ravvisa un vantaggio di genere nella disciplina legislativa illustrata dal momento che il limite al secondo riconoscimento è rigorosamente circoscritto, tenuto conto del profilo centrale dell’identità del minore (e del genitore), del valore assiologico della bigenitorialità e dell’esigenza di fondare lo sviluppo della personalità sull’effettiva trama dei rapporti che hanno condotto alla nascita e ad ogni fase della vita.
5. Il diritto a conoscere le proprie origini
L’identità non è una istantanea o un fotogramma fisso ed insostituibile. E’ un processo continuo che si arricchisce di diverse stratificazioni della conoscenza di sé. Il diritto all’identità, come già largamente osservato, intercetta per tutto il suo percorso la questione di genere, perché una condizione di disparità di trattamento giuridicamente imposta (quale il lungo corso dell’attribuzione del solo patronimico) si confronta con altre previsioni legislative che sembrano evidenziare un regime di favore assoluto per il genere femminile in quanto strettamente conseguenti alla differenza strutturale ed organica del ruolo biologico femminile e maschile nel processo generativo che pure ha un’incidenza diretta sulla costruzione e conservazione dell’identità.
Il tema della scoperta, costruzione e conservazione dell’identità del figlio, della madre e dei contesti familiari di riferimento è dirompente in relazione al diritto della donna madre a non essere nominata alla nascita, ovvero a mantenere l’anonimato ove scelga di non diventare madre in quanto si contrappone allo speculare diritto del figlio adottivo a conoscere le proprie origini.
Gli interrogativi che pone la disciplina legislativa sono molteplici.
E’ attuale la tutela dell’anonimato? Determina una discriminazione del genere maschile la insussistenza di un potere analogo per il genere maschile?
Il diritto all’anonimato è irreversibile?
Quale è l’operazione di bilanciamento da svolgere in relazione al diritto del figlio adottivo di conoscere le proprie origini?
L’art. 30 del d.p.r. n. 396 del 2000 afferma il diritto della madre a non essere nominata nella dichiarazione di nascita, prevedendo, tuttavia, (Cass. 31196 del 2018) la possibilità di richiedere il riconoscimento in pendenza del giudizio di adottabilità, mediante la sospensione della procedura ed essendo, altresì, prevista la possibilità di ripensamento immediato (entro 10 gg. dalla nascita).
L’art. 93 del d.lgs n. 196 del 2003 salvaguarda questo diritto prescrivendo che il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica che rechino il nome della madre anonima possono essere rilasciati a chi abbia interesse dopo 100 anni, salvo ragioni di protezione del diritto alla salute del minore rispetto alle quali, a questo esclusivo e limitato fine, l’accesso è consentito previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni (art. 28 c.4, ultima parte l. n. 184 del 1983) richiesta dai genitori adottivi finché l’adottato è minore, altrimenti dal maggiore di età.
In questo contesto di tutela quasi assoluta dell’anonimato si inserisce l’art. 28, c.5 della l. n. 184 del 1984 che consente al figlio adottivo, dell’età di 25 anni di esercitare il diritto di accesso alle proprie origini ma il c.7 esclude l’esercizio di questo diritto nel caso in cui la madre abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata.
Il sistema di protezione dell’anonimato fondato sulla peculiarità della partecipazione al processo generativo del genere femminile si scontra con il diritto a statuto costituzionale e convenzionale all’identità personale. Su questa contrapposizione e sulla necessità di un bilanciamento è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013, con la quale è stata superata la contraria valutazione della costituzionalità della norma fissata nella sentenza n. 425 del 2005 anche grazie all’intervento della Corte Edu. Ferma l’attualità della tutela del diritto alla vita ed alla salute sottesi alla disciplina normativa del diritto a non essere nominata della madre biologica[3] la Corte ha ritenuto che anche il diritto a conoscere le proprie origini e la propria storia parentale sia un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona, richiamando espressamente la sentenza della Corte Edu Godelli contro Italia (ricorso n. 33783/09 sentenza del 22/9/2012). La Corte Costituzionale ha stigmatizzato l’eccessiva rigidità ed assolutezza della tutela dell’anonimato e la giurisprudenza di legittimità a S.U. (sent. n. 1946 del 2017) ha trovato un punto di equilibrio nel prefigurare un procedimento, assistito dalla massima riservatezza, d’interpello della madre biologica ai fini di una eventuale revoca della dichiarazione di anonimato ove sia stata formulata richiesto dal figlio maggiorenne ultra venticinquenne di conoscere le proprie origini. Affermano solennemente le s.u. che il procedimento oltre alla riservatezza deve garantire il più assoluto rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile nella persistenza del diniego della madre di svelare la propria identità.
La recessività dell’esercizio del diritto a conoscere le proprie origini nell’ipotesi di diniego di superare la condizione di anonimato da parte della madre biologica ha un’operatività non assoluta. E’ stato ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità in più di una pronuncia che il diritto dell'adottato - nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ex art. 30, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000 - ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l'identità della madre biologica sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando nella fattispecie il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica di cui all'art. 93, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 196 del 2003. (Cass.22838 del 2016; Cass. 26616 del 2022).
Questo avanzamento del diritto alla conoscenza delle proprie origini, riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, nell’ipotesi peculiare sopra illustrata non è privo di ricadute in relazione agli effetti indiretti della prevalenza accordata al diritto a conoscere le proprie origini ove la madre biologica sia medio tempore venuta meno. L’area del diritto alla riservatezza dei terzi familiari della donna deve essere salvaguardata, dal momento che il diritto ha un contenuto limitato alla conoscenza della discendenza[4] ma non anche all’allargamento delle relazioni familiari.
Il diritto a conoscere le proprie origini non esclude la protezione dell'identità "sociale" costruita in vita dalla madre biologica, in relazione al nucleo familiare e/o relazionale eventualmente costituito dopo aver esercitato il diritto all'anonimato.
Non si condivide, ma si tratta di avviso personale, che deriva, tuttavia, dalla ratio del sistema normativo di conoscenza delle proprie origini, l’affermazione contenuta in Cass. 26616 del 2022, (vedi anche Cass. 19824 del 2020), secondo la quale anche nell’ipotesi di madre biologica premorta e dunque in mancanza di un consenso, può essere proposta anche l’azione di accertamento dello status di figlio naturale.
L’art. 28 della l. n. 184 del 1983 e la sistematica costituzionale e convenzionale che lo sorregge e ne ha consentito lo sviluppo ermeneutico attuale, tutela il diritto all’identità personale, al riconoscimento della propria storia, della propria genealogia, non il diritto alla genitorialità, dal momento che la scelta dell’anonimato ove definitiva corrisponde normativamente alla condizione di abbandono che sostiene la pronuncia di adottabilità.
Rimane tuttavia la differenza tra filiazione non desiderata maschile e femminile. Per la madre c’è il diritto a non essere nominata e, quanto meno per tutta la vita, a non avere alcun legame giuridico con il figlio biologico. Per l’uomo, al contrario, c’è la coercizione alla paternità, quanto meno sotto il profilo dello statuto giuridico, mediante gli strumenti destinati alla costituzione o riconoscimento dello status filiationis. Le ragioni già evidenziate in Corte Cost. 278 del 2013 come giustificative del regime giuridico dell’anonimato, sono state fatte proprie dalla giurisprudenza di legittimità nel ritenere manifestamente infondate le eccezioni d’illegittimità costituzionale poste all’attenzione della Corte,
6. Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita
La questione di genere assume una caratterizzazione originale e specifica nell’ambito della filiazione che consegue al ricorso alla p.m.a.
La ha assunta in modo dirompente da quando le coppie omoaffettive, femminili e maschili, hanno richiesto riconoscimento giuridico al proprio desiderio di completare la unione con la genitorialità, potendo grazie alla p.m.a. eterologa, da un lato, e la gestazione per altri dall’altro, attuare il progetto generativo biologicamente non realizzabile.
Lo è ancora di più ora dopo la sentenza n. 68 del 2025 della Corte Cost. con la quale in relazione ad una coppia omoaffettiva femminile che aveva condiviso il progetto di genitorialità mediante l’accesso a p.m.a. eterologa, in osservanza della lex loci. Il minore, nasce in Italia da una delle componenti la coppia. L’altra, che ha prestato il proprio consenso alla realizzazione del progetto generativo e all’assunzione della responsabilità genitoriale richiede il riconoscimento dello status, fino a questa pronuncia sempre negato a causa del divieto di accesso alla p.m.a. per le coppie dello stesso sesso. La corte dichiara l’incostituzionalità proprio della norma della l. n. 40 del 20024 (l’art. 8) che afferma il divieto, evidenziando che il ricorso all’adozione non legittimante, pur con i correttivi ampliativi dei diritti del minore introdotti dalla medesima Corte costituzionale in relazione a questo modello genitoriale è caratterizzata da una vera e propria inidoneità di tipo strutturale. «E ciò per la determinante e assorbente considerazione che, mediante il ricorso all’istituto dell’adozione in casi particolari, l’acquisizione dello status di figlio è fisiologicamente subordinata all’iniziativa dell’aspirante adottante e allo svolgimento di un procedimento, caratterizzato da costi, tempi e alea propri di tutti i procedimenti. Inoltre, e soprattutto, l’eventuale esito positivo del procedimento non può che spiegare effetto dal suo perfezionamento. L’impedimento posto dall’art. 8 della legge n. 40 del 2004 a essere sin dalla nascita riconosciuto come figlio di entrambe le donne che hanno deciso di fare ricorso a tecniche di PMA – nel rispetto della lex loci – determina, dunque, un vulnus all’interesse del minore. E se è vero che l’interesse del minore, per quanto centrale, non è un interesse “tiranno”, potendo essere oggetto di un bilanciamento in presenza di un interesse di pari rango, non è ravvisabile alcun controinteresse di peso tale da richiedere e giustificare una compressione del diritto del minore a vedersi riconosciuto il proprio stato di figlio (della madre intenzionale) automaticamente sin dal momento della nascita. Sotto tale profilo, infatti, la situazione in esame si distingue radicalmente dall’ipotesi di ricorso alla c.d. maternità surrogata, in cui viene in considerazione la finalità di disincentivare il ricorso a una pratica che l’ordinamento italiano considera meritevole di sanzione penale e violativa di un principio di ordine pubblico, in quanto offende la dignità della donna»[5]. Le ultime righe riprodotte evidenziano plasticamente la configurabilità di una questione di genere, ma speculare rispetto alla sua prospettazione tradizionale.
Lo status filiationis è accessibile solo per le coppie omoaffettive femminili, per quelle maschili rimane il rimedio, ritenuto effettivo ed efficace ove vi si ricorra tempestivamente, anche dalla CEDU, nella recente sentenza sopra richiamata, della adozione in casi particolari, così come rafforzata dai recenti interventi della Corte Cost. e delle S.U. della corte di Cassazione[6], non potendosi superare la contrarietà al limite costituito dall’ordine pubblico internazionale insito nel ricorso alla gestazione per altri che “offende la dignità della donna”.
Anche in questa ipotesi la differenza biologica nel processo generativo tra donna e uomo produce effetti giuridici di forte rilevanza, come già riscontrato nella diversa disciplina del riconoscimento della filiazione biologica in caso di maternità o paternità non desiderati.
Su quest’ultima differenza di regime la giustificazione risiede nel diritto alla vita e alla salute della donna e del minore, altrimenti esposti all’interruzione volontaria di gravidanza od a gestazione e nascita rischiose per entrambi; sulla prima pesa lo stigma verso la gestazione per altri che, tuttavia, per la coppia omoaffettiva maschile non ammette alternative, essendo vietata anche la strada verso la genitoriale adottiva piena, sociale e solidale. Da non dimenticare in questo contesto che la Corte Cost. ha nella sentenza n. 68 del 2025 affermato che il carattere omosessuale della coppia che ha avviato il percorso genitoriale tramite ricorso alla PMA non può costituire impedimento allo stato di figlio riconosciuto per il nato in quanto l’orientamento sessuale non evoca scenari di contrasto con princìpi e valori costituzionali, né incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale, dovendo escludersi un’inidoneità genitoriale, in sé, della coppia omossessuale pur rientrando nella discrezionalità legislativa la determinazione dell’accesso alla p.m.a.
Il diverso regime giuridico attuale riguardante le coppie omoaffettive rappresenta un ulteriore aspetto della potenza del differente apporto al processo generativo dei due generi e alla sua efficacia condizionante non soltanto il profilo normativo ma anche quello assiologico ed interpretativo.
Non è stato affrontato per restare fedeli all’approccio di genere il profilo peraltro di preminente rilievo della disparità di trattamento per il minore che subisce le più consistenti conseguenze pregiudizievoli del suo diritto alla bigenitorialità
Deve, tuttavia, osservarsi che la scomposizione del progetto generativo dovuta all’accesso alle tecniche di p.m.a. determina anche effetti sostanzialmente discriminatori verso il genere femminile. In quanto tende a scardinare i principi che ordinano (quanto meno) il regime probatorio dello status filiationis.
L’art. 269, terzo comma, riconosce come madre colei che ha partorito. Non è previsto che l’ovocita non sia di provenienza della madre gestante. Ma con l’accesso alle tecniche di p.m.a. questa eventualità è realizzabile ed anzi è usuale per le coppie omoaffettive femminili, le quali per avere un legame biologico biunivoco, realizzano l’embrione o gli embrioni da impiantare con ovocita della partner cui non sarà impiantato l’embrione a fini di gestazione.
Fino alla sentenza n. 68 del 2025 anche in questa peculiare ipotesi la madre non gestante era mera madre d’intenzione e poteva ricorrere ai fini di costituire una relazione genitoriale, soltanto alla domanda di adozione in casi particolari.
Al contrario, per la coppia omoaffettiva maschile il legame genetico costituisce certa genitorialità e consente la trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero da parte del genitore biologico ancorché il minore sia venuto al mondo necessariamente con l’apporto di gamete femminile eterologo e gestazione per altri.
Qui si annida un sospetto di forte anacronismo dell’art. 269 terzo comma c.c., rispetto all’ampia possibilità di scomposizione del progetto procreativo che proviene dall’utilizzo di p.m.a. eterologa e in caso di errore umano anche omologa.
Una recentissima pronuncia della Corte Costituzionale la n. 155 del 2025 fornisce una prima rilevante risposta al problema, però riguardante un caso di p.m.a. omologa. A fronte di una vicenda nella quale una coppia eterosessuale ricorre alla fecondazione assistita omologa, ma, prima della nascita dei figli minori venuti al mondo grazie all’impianto degli embrioni così formati, il partner maschile ottiene sentenza di attribuzione di rettificazione di sesso in femminile, costituisce un’unione civile con l’ex moglie e chiede la trascrizione della sua genitorialità nell’atto di nascita. La corte Costituzionale ritiene determinante l’apporto e la discendenza genetica pur nella sopravvenienza della rettificazione di sesso ritenendo inammissibile la questione prospettata sotto la lente della l. n. 40 del 2004 dovendosi valorizzare, nella specie, le norme codicistiche (art. 250 e 269 cod. civ.) sulla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità ed il fondamento biologico della domanda come stabilito per la paternità fuori dal matrimoniale costantemente dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 32308 del 2018 e 37023 del 2021).
Ma il problema della discendenza genetica femminile permane e non è stato risolto.
Il caso italiano derivante da un errore umano che ha condotto all’impianto di embrioni con scambio di coppie riceventi non ha avuto soluzione giuridica definitiva. La gestazione è stata portata avanti solo da una delle due coppie, l’altra titolare del patrimonio genetico dei due gemelli nati è rimasta esclusa dallo status filiationis, secondo due pronunce ancorché rese in fase cautelare dal Tribunale di Roma che ha applicato le norme codicistiche e ritenuto che lo status filiationis appartenesse alla coppia coniugata all’interno della quale erano nati i gemelli ex art. 269 terzo comma c.c. in relazione alla madre gestante e per la presunzione di paternità per il suo coniuge.
In questa ipotesi la discendenza genetica è stata ritenuta recessiva. Il comitato nazionale di bioetica ha suggerito una condivisione con rispetto della diversità dei ruoli e la condivisione della verità.
Ma a parte questo caso limite i problemi che si possono porre (e che si sono già posti) sono anche altri.
Se ne accenna uno: l’irrevocabilità del consenso post fecondazione in vitro (Corte Cost.161 del 2023) è idonea a risolvere tutti i problemi che possono sorgere in relazione alla possibilità che sorga conflitto sull’embrione conteso ove vi sia almeno una coppia ricomposta?
La decisività della volontà della donna sull’impianto sembra essere la chiave per la soluzione del problema essendo stato il suo corpo e la sua psiche ad aver subito i trattamenti pre-impianto.
Dunque ancora una volta la diversità biologica che per altri aspetti l’accesso alla p.m.a. tende a sfumare torna centrale e crea un regime differenziato.
[1] «In tema di crisi familiare, nell'ambito del procedimento di cui all'art. 473 bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio». (Cass. 28727 del 2023). La decisione è stata sollecitata da rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c.
[3] «Il fondamento costituzionale del diritto della madre all'anonimato riposa, infatti, sull'esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l'emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili». Così Corte Cost. 278 del 2013.
[4] Per l’applicazione del principio anche fuori del diritto all’anonimato della madre si richiama cass. 6863 del 2018 così massimata: «L'adottato ha diritto, nei casi di cui all'art. 28, comma 5, della l. n. 184 del 1983, di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti non solo l'identità dei propri genitori biologici, ma anche quelle delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all'accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell'esercizio del diritto».
[5] La forza cogente della pronuncia non è scalfita dalla recentissima pronuncia della Cedu del 9/10/2025 (caso X c. Italia) con la quale è stata esclusa la violazione dell’art. 8 Cedu da parte dell’ordinamento italiano per non aver consentito la trascrizione della madre intenzionale nell’atto di nascita del minore, avendo quest’ultima la possibilità di ricorrere alla domanda di adozione in casi particolari, senza limiti temporali. La situazione verificatasi dopo la rettifica giudiziale della trascrizione inizialmente attuale non è stata ritenuta rilevante dal momento che esisteva un rimedio alternativo adeguato e accessibile in un ambito in cui il margine di apprezzamento statale in materia di filiazione rimane ampio, a condizione che l’interesse del minore sia preservato in modo sostanziale. La possibilità di instaurare il rapporto giuridico di filiazione non era dunque preclusa da un limite generale e assoluto, ma soltanto dalla scelta processuale delle parti private. La Corte ha ritenuto, inoltre, che la rigidità delle condizioni per l’adozione e la sua natura unilaterale, in astratto potrebbero generare incertezza per il minore, ma e nel caso concreto non hanno prodotto effetti pregiudizievoli, poiché la madre d’intenzione aveva da subito manifestato la volontà di riconoscere il bambino e di assumere il ruolo genitoriale. Infine, la Corte ha puntualizzato che l’art. 8 CEDU non impone agli Stati l’adozione di strumenti tipizzati per garantire il rispetto della vita privata e familiare; le modalità prescelte devono risultare effettivi ed equivalenti sul piano della protezione dei diritti coinvolti. E’ stato escluso che vi fosse stata un’ingerenza nella vita privata e familiare del minore, rilevando che il bambino aveva sempre vissuto stabilmente con entrambe le madri, godendo dunque di una situazione affettiva e sociale pienamente consolidata.
[6] Corte Cost. n. 79 del 2022 sulla eliminazione del divieto di rapporto civile (parentela) tra famiglia dell’adottante e adottato ex art. 44 l. n. 184 del 1983 e S.U.38163 del 2022 sulla possibilità che il giudice superi il rifiuto di consenso del genitore esercente la responsabilità genitoriale all’adozione in casi particolari ex art. 44 lettera d) l. n. 184 del 1983, in favore del genitore sociale, in funzione del preminente interesse del minore.
Il testo riprende la relazione tenuta alla Scuola Superiore della Magistratura il 30 ottobre 2025