1. Introduzione
La sentenza resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 9 ottobre 2025 affronta la delicata questione del riconoscimento giuridico del legame tra un minore nato in Italia a seguito di procreazione medicalmente assistita (PMA) e la madre d’intenzione, nell’ambito di una coppia omosessuale femminile. L’oggetto del ricorso è la perdita, a distanza di cinque anni dalla nascita, del vincolo di filiazione che univa il bambino alla madre intenzionale, a seguito della rettifica giudiziale dell’atto di nascita originariamente formato. La ricorrente lamentava la violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, sostenendo che l’annullamento parziale dell’atto di nascita aveva determinato una frattura nell’identità personale e familiare del figlio minore.
La Corte, dopo aver dichiarato il ricorso ricevibile all’unanimità, ha concluso - con sei voti contro uno - per la non violazione dell’art. 8 CEDU, ritenendo che lo Stato italiano avesse adempiuto alle proprie obbligazioni positive, avendo reso disponibile un mezzo giuridico effettivo per il riconoscimento del legame familiare di fatto: l’adozione “in casi particolari” prevista dall’art. 44 della legge n. 184 del 1983. Tale conclusione è stata accompagnata dall’opinione dissenziente della giudice Adamska-Gallant, che ha evidenziato come la lunga incertezza giuridica subita dal minore costituisse una violazione dell’obbligo positivo dello Stato di garantire la stabilità dell’identità personale.
2. Il caso
Il caso trae origine da una vicenda familiare non nuova nel panorama del diritto di famiglia. Due donne, C.D.O. e M.B., avevano realizzato in Spagna una procreazione medicalmente assistita eterologa, in un quadro giuridico che riconosce la piena legittimità dell’utilizzo di questa tecnica per coppie omosessuali. La madre biologica, C.D.O., aveva partorito in Italia nel 2018, e l’atto di nascita era stato formato nel Comune di M. con l’indicazione di entrambe le donne come madri del neonato. Tale trascrizione diventa oggetto di impugnazione da parte del pubblico ministero ai sensi dell’art. 95 del D.P.R. n. 396 del 2000, sul presupposto che la disciplina italiana in materia di PMA, dettata dalla legge n. 40 del 2004, non consentisse l’accesso alle tecniche alle coppie dello stesso sesso e non prevedesse la possibilità di riconoscere un vincolo di maternità “intenzionale”.
L’intervento del P.M. segna il punto di frizione tra diritto vivente e diritto positivo: da un lato, l’esperienza sociale di nuove forme familiari; dall’altro, un sistema normativo che, pur avendo accolto il principio della bigenitorialità e dell’interesse del minore, resta ancorato a una concezione biologica della filiazione. Ne consegue un contenzioso lungo e complesso, che culmina nella decisione della Corte di cassazione del 2023, la quale ordina la rettifica dell’atto di nascita con cancellazione del nome della madre d’intenzione.
L’effetto di tale decisione è dirompente: il minore, per oltre cinque anni (tempo trascorso per lo svolgimento dell’iter giudiziario), rimane privo di certezza sul proprio status giuridico, mentre la madre intenzionale all’esito del giudizio viene privata di qualunque riconoscimento formale del legame genitoriale, pur continuando a svolgere un ruolo effettivo di cura e responsabilità.
È su questo piano, ovvero quello della frattura tra realtà affettiva e realtà giuridica, che si innesta la questione di diritto sottoposta alla Corte europea.
Dinanzi alla Corte di Strasburgo, il Governo italiano ha preliminarmente eccepito il mancato esaurimento dei rimedi interni, sostenendo che il minore non fosse mai stato parte processuale nei giudizi nazionali. Tale eccezione viene respinta: la Corte ha richiamato il principio di flessibilità nell’applicazione della regola sull’esaurimento dei rimedi, già affermato nei precedenti Vučković e altri c. Serbia e Gherghina c. Romania, rilevando che, pur non avendo formalmente agito in nome del minore, le due madri avevano introdotto dinanzi alle giurisdizioni interne ricorsi che facevano valere le medesime questioni giuridiche oggi sottoposte alla Corte europea. L’azione risultava, dunque, sostanzialmente idonea a soddisfare il requisito di cui all’art. 35 CEDU.
Nel merito, la Corte ha inquadrato la questione nell’ambito delle obbligazioni positive dello Stato ai sensi dell’art. 8. Essa ha ribadito che la tutela della vita privata e familiare non si esaurisce nel dovere dello Stato di astenersi da interferenze arbitrarie, ma comprende l’obbligo di adottare misure atte a garantire il rispetto effettivo della vita familiare, in particolare quando sia in gioco l’identità giuridica di un minore. La Corte ha sottolineato che il nucleo centrale del diritto invocato risiede nella possibilità per il bambino di vedere riconosciuto giuridicamente il rapporto affettivo e genitoriale instaurato con la madre d’intenzione fin dalla nascita, rapporto che rappresenta un elemento costitutivo della sua identità personale.
Richiamando i precedenti Mennesson c. Francia e Labassee c. Francia del 2014, nonché l’avis consultatif del 10 aprile 2019 (P16-2018-001) e le pronunce D. c. Francia e C.E. e altri c. Francia, la Corte ha riaffermato il principio secondo cui, in presenza di un legame di fatto stabile e affettivamente significativo tra il minore e il genitore d’intenzione, lo Stato ha l’obbligo di prevedere un meccanismo effettivo per il riconoscimento giuridico di tale rapporto. Tuttavia, il margine di apprezzamento statale permane quanto alla scelta dei mezzi idonei a perseguire tale fine, potendo lo Stato optare per soluzioni alternative alla trascrizione diretta dell’atto di nascita.
Applicando tali principi al caso di specie, la Corte ha osservato che, a partire dal 2014, la giurisprudenza italiana aveva progressivamente ammesso la possibilità per il genitore d’intenzione di ricorrere all’adozione “in casi particolari”, secondo l’art. 44 della legge n. 184 del 1983. Tale evoluzione è stata consolidata dalle pronunce della Corte di cassazione (Sezioni Unite, 2022) e dalla giurisprudenza costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità parziale delle disposizioni che limitavano gli effetti parentali dell’adozione nei casi particolari (Corte cost., sentenze n. 32 del 2021 e n. 79 del 2022). La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 68 del 2025, ha poi riconosciuto l’incostituzionalità del divieto assoluto di riconoscimento della madre d’intenzione nei casi in cui l’atto di nascita formato all’estero rispetti le regole ivi vigenti, segnando così un’ulteriore apertura del sistema.
Nel contesto così delineato, la Corte EDU ha ritenuto che al momento in cui il tribunale ha scelto di rettificare l’atto di nascita, M.B. disponeva di uno strumento giuridico pienamente accessibile per ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione con il minore, e cioè l’adozione in casi particolari. La madre d’intenzione, tuttavia, non si è avvalsa di questo strumento. Secondo la Corte, tale omissione non può tradursi in una responsabilità dello Stato, che aveva invece predisposto un meccanismo conforme ai principi convenzionali. La possibilità di instaurare il rapporto giuridico di filiazione non era dunque preclusa da un limite generale e assoluto, ma soltanto dalla scelta processuale delle parti private.
Quanto alle obiezioni della ricorrente circa la rigidità delle condizioni per l’adozione e la sua natura unilaterale, la Corte ha riconosciuto che in astratto tali caratteristiche potrebbero generare incertezza per il minore, ma ha ritenuto che nel caso concreto esse non abbiano prodotto effetti pregiudizievoli, poiché la madre d’intenzione aveva da subito manifestato la volontà di riconoscere il bambino e di assumere il ruolo genitoriale. Inoltre, la Corte ha puntualizzato che l’art. 8 CEDU non impone agli Stati l’adozione di strumenti tipizzati per garantire il rispetto della vita privata e familiare; gli strumenti prescelti devono risultare effettivi ed equivalenti sul piano della protezione dei diritti coinvolti.
La Corte, inoltre, ha escluso che vi fosse stata un’ingerenza nella vita privata e familiare del minore, rilevando che il bambino aveva sempre vissuto stabilmente con entrambe le madri, godendo dunque di una situazione affettiva e sociale pienamente consolidata.
Su tali basi, la Corte ha concluso che lo Stato italiano non ha violato l’art. 8 della Convenzione. L’assenza di un riconoscimento immediato mediante trascrizione non integra una violazione quando l’ordinamento offre un rimedio alternativo adeguato e accessibile; il margine di apprezzamento statale in materia di filiazione rimane ampio, a condizione che l’interesse del minore sia preservato in modo sostanziale.
Questa impostazione evidenzia una tensione classica nella giurisprudenza di Strasburgo: da un lato, l’affermazione del diritto del minore all’identità e alla stabilità familiare; dall’altro, il riconoscimento del margine di apprezzamento statale, che consente a ciascun ordinamento di scegliere gli strumenti più consoni alla propria tradizione giuridica.
3. L’opinione dissenziente
L’opinione dissenziente della giudice Adamska-Gallant si muove su un piano parzialmente diverso. Pur condividendo l’accertamento dei fatti, la giudice ritiene che lo Stato italiano abbia comunque mancato ai propri obblighi positivi a causa dell’inerzia e dei ritardi nella gestione della vicenda. La lunga durata del contenzioso ha creato per il minore una condizione di prolungata incertezza giuridica, incompatibile con l’art. 8 CEDU. La giudice di minoranza sottolinea che il bambino, quale referente del diritto, non può essere ritenuto responsabile delle scelte processuali dei genitori e che lo Stato aveva, ed ha, il dovere di adottare misure correttive rapide e proporzionate per ristabilire la certezza del suo status. Secondo tale lettura, il difetto di diligenza e tempestività nell’azione delle Autorità costituisce di per sé una violazione dell’obbligo positivo di tutela della vita privata e familiare.
La pronuncia, nel suo complesso, conferma la linea di continuità della giurisprudenza europea in materia di filiazione non biologica, in cui la Corte tende a non imporre agli Stati un modello unico di riconoscimento, ma a esigere che il sistema interno garantisca un equilibrio ragionevole fra la salvaguardia dell’ordine pubblico nazionale e la protezione effettiva dell’identità del minore. La soluzione adottata rinviene nell’adozione in casi particolari uno strumento convenzionalmente compatibile. L’opinione dissenziente, tuttavia, segnala con forza che l’effettività della tutela non dipende solo dall’esistenza astratta del rimedio, ma anche dalla sua concreta accessibilità, dalla sua attuabilità e dalla tempestività della risposta statale.
4. Considerazioni conclusive anche alla luce della pronuncia 68/2025 della Corte Costituzionale italiana
Con la sentenza n. 68/2025 la Corte costituzionale ha posto fine a una stagione di soluzioni frammentarie, dichiarando l’illegittimità costituzionale della disciplina che escludeva la possibilità di riconoscimento diretto della madre d’intenzione nei casi di procreazione medicalmente assistita (PMA) praticata all’estero da coppie femminili italiane. In particolare, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 8 della legge n. 40 del 2004 nella parte in cui non prevede che il nato in Italia da donna che ha fatto ricorso all’estero, in osservanza delle norme ivi vigenti, a tecniche di PMA abbia lo stato di figlio riconosciuto anche della madre intenzionale che ha espresso il proprio preventivo consenso al progetto procreativo e alla correlata assunzione di responsabilità genitoriale. Muovendo dagli artt. 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, la Corte ha ritenuto che i diritti del minore all’identità personale e familiare, nonché alla continuità affettiva e giuridica con entrambe le figure genitoriali del progetto procreativo, esigono il riconoscimento automatico e sin dalla nascita dello stato di figlio di entrambe le donne, senza necessità di ricorrere a strumenti, eventuali e successivi, qual è l’“adozione in casi particolari”.
La Consulta ha dunque superato l’approccio rimediale che subordinava la tutela del legame con la madre intenzionale a una procedura adottiva, cioè ad un meccanismo concepito come misura eccezionale ed eventuale e non come strumento fisiologico di attribuzione della genitorialità.
In tal modo la Corte ha ricondotto la materia della PMA eterologa all’interno di un quadro sistematico coerente, fondato sul principio di eguaglianza sostanziale di cui è espressione lo stato unico di figlio e sul superiore interesse del minore quali parametri decisivi di legittimità costituzionale. L’elemento dirimente diviene così il consenso procreativo, inteso come atto di assunzione di responsabilità genitoriale, che fonda un vincolo di filiazione giuridicamente rilevante al pari di quello biologico.
La pronuncia della Corte EDU, per quanto di alcuni mesi successiva alla sentenza della Corte costituzionale, nel perimetrare il proprio intervento alla questione della compatibilità o meno dello strumento individuato dall’ordinamento italiano – l’adozione in casi particolari – per la tutela del nato da PMA effettuata all’estero da una coppia omosessuale femminile, si limita a valutare la sufficienza della soluzione adottata al tempo dei fatti senza proiettarsi in una dimensione più ampia volta a indagare l’eventuale sussistenza di strumenti maggiormente garantisti per il nato, idonei ad assicurare la massima tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare ex art. 8 CEDU, come l’immediata indicazione di entrambe le madri nell’atto di nascita del minore.
In ciò, ad avviso di chi scrive, risiede il limite strutturale della pronuncia: essa fotografa un sistema, peraltro già superato dalla stessa evoluzione giurisprudenziale italiana e in particolare dalla sentenza costituzionale n. 68/2025 che nel frattempo ha riconosciuto come insufficiente proprio quel meccanismo adottivo ritenuto adeguato dalla Corte di Strasburgo, senza una prospettiva di largo spettro.
La sentenza del 9 ottobre 2025 conferma la linea prudente sin qui tracciata dalla Corte europea, la quale evita di imporre agli Stati un obbligo generalizzato di riconoscimento automatico della maternità d’intenzione, ma al contempo riafferma che il diritto del minore all’identità deve trovare tutela effettiva. Si tratta di un equilibrio sottile, che lascia ampio margine di discrezionalità alle Autorità nazionali, ma che, proprio per questo, rischia di generare diseguaglianze tra ordinamenti e, soprattutto, di tradursi in incertezze per i minori coinvolti come è accaduto in più di una occasione in Italia.
Sul piano sistematico, la decisione si inserisce nel percorso di progressiva europeizzazione della filiazione, in cui la Corte di Strasburgo agisce come garante minimo, piuttosto che come promotrice di uniformità nella fruizione di diritti di rango primario. Il richiamo costante all’“interesse superiore del minore” sembra, infatti, talvolta restare in secondo piano in nome del rispetto del margine di apprezzamento. È forse questo il limite del ragionamento della maggioranza della Corte Edu: un’attenzione più sostanziale alla posizione del bambino avrebbe potuto condurre a una valutazione diversa del bilanciamento tra interesse pubblico e tutela identitaria (del minore e dell’intero nucleo familiare).