La recente sentenza del Tribunale di Torino (sez. III n. 2356 del 4 giugno 2025) in tema di maltrattamenti ha scatenato l’ormai consueta ondata di polemiche e, purtroppo, di vere e proprie aggressioni verbali rivolte al giudice autore della sentenza. Passa così in secondo piano il merito del provvedimento, mentre viene impropriamente in rilievo il suo estensore, fatto addirittura oggetto, a dimostrazione del livello infimo assunto dal dibattito pubblico sui social, su un noto sito di petizioni, ad una richiesta di rimozione (!) che ha raggiunto in pochi giorni circa 40.000 firme. Come se non bastasse, alcune luoghi istituzionali hanno impropriamente assunto iniziative del tutto impertinenti con il loro ruolo, come chiedere gli atti processuali e preannunciare la volontà di procedere all’audizione dell’estensore della sentenza, per stigmatizzare l’improvvida decisione. Una iniziativa che il Presidente dell’UCPI avv. Petrelli ha giustamente definito «un’idea medievale» e un «precedente pericolosissimo» (Quel giudice alla gogna è il sintomo di un diritto emotivo, ne Il Dubbio, 29 settembre 2025) che lede la separazione dei poteri.
Ciò premesso e non abbastanza stigmatizzato, qualche considerazione sui motivi da poco pubblicati può essere sviluppata, circa il senso del ragionamento operato dal Tribunale, che ha condannato l’imputato per lesioni, assolvendolo invece dai maltrattamenti, ritenendo insufficienti le dichiarazioni della vittima, la (ex) moglie dell’imputato.
Questa denunciava comportamenti aggressivi e minacciosi prolungati nel tempo, all’indomani della richiesta di separazione avanzata dalla donna nell’agosto 2021. Bisogna partire proprio da questo punto per comprendere il ragionamento del Tribunale e la sostenibilità e correttezza logico-giuridica della decisione.
Il Tribunale ricostruisce compiutamente la dissoluzione del vincolo coniugale, dal momento della comunicazione della volontà della donna di separarsi, espressa a mezzo messaggio WhatsApp (stigmatizzato dal tribunale e giudicato come «brutale», pag. 4 della sentenza), in poi.
Tuttavia, da questa analisi non sfuggirà come il Tribunale ha costantemente intriso la motivazione di giudizi di valore sulla scelta della donna di separarsi sebbene non vi fossero evidenti maltrattamenti posti in essere dall’imputato, come se questa fosse legittimata ad interrompere il vincolo matrimoniale solo in determinate situazioni drammatiche e non fosse invece una sua libera e insindacabile scelta a prescindere.
Il Tribunale ricorda le dichiarazioni della donna in cui lamenta, a sostegno della decisione, solo il vizio del gioco e un carattere «difficile», con discussioni in cui «alzava la voce». Il Tribunale, un po' cinicamente e con dubbia pertinenza, afferma: «La verità è che dopo il COVID la [-] si stancò dell’imputato per sue proprie motivazioni – e non per gravi mancanze del marito- e decise di lasciarlo»(pag. 4).
La questione che bisogna porsi è se il Tribunale sia legittimato a chiedere e a chiedersi se la scelta della donna di interrompere una relazione matrimoniale sia o meno dovuta a comportamenti maltrattanti del marito o a sue «gravi mancanze», e se sia legittimato il Tribunale ad addentrarsi all’interno dell’intimità psichica di una persona che decide di interrompere una relazione e dei motivi che la determinano, per poi empatizzare con una delle parti se i motivi siano o no «condivisibili». Più di qualche dubbio è legittimo.
In ogni caso, dalla asserita (e apparente ma poco realistica) assenza di responsabilità dell’imputato nella rottura matrimoniale, il Tribunale fa discendere la conseguenza di ritenere pretestuose le doglianze e quindi inesistenti i maltrattamenti prima della comunicazione della volontà di separarsi da parte della donna col famoso messaggio WhatsApp del 3 agosto 2021.
Il Tribunale si pone da subito in una posizione impropriamente “empatica” con l’imputato («Non è difficile immaginare cosa abbia provato l’imputato nel constatare che sua moglie poneva fine con un messaggio WhatsApp ad un legame quasi ventennale»), tanto da giustificare le discussioni e financo le gravi mortificazioni (che possono ben costituire se reiterate condotte maltrattanti) riferite dalla vittima.
Infatti, quando la Regna ha riferito cosa accadeva dopo il 3 agosto 2021 e il tenore delle discussioni («nei miei confronti diceva che ero una puttana che avevo rovinato la famiglia, che per 17 anni lui aveva dato l’anima a questa famiglia, che io non guadagnavo un cazzo e avrei fatto la fame con i ragazzi»), il Tribunale, afferma significativamente: «Pare evidente che queste frasi devono essere calate nel loro specifico contesto: l’amarezza per la dissoluzione della comunità domestica era umanamente comprensibile; era pienamente legittimo poi, che l’imputato rivendicasse il contributo da lui dato alla famiglia; le frasi finali, al di là dello scurrile linguaggio adoperato, semplicemente esprimevano il disappunto e la preoccupazione per il sicuro peggioramento delle condizioni economiche a cui la famiglia sarebbe andata incontro». Nel contesto empatico ormai avviato, vengono valorizzate le parole dell’imputato il quale ammette: «E’ successo che è volata qualche parolaccia, perché stava rovinando un matrimonio felice ed una famiglia felice». Ci si chiede, ma chi lo ha stabilito che il matrimonio fosse felice e la famiglia fosse altrettanto felice? L’imputato? Forse il Tribunale (ma è un interrogativo destinato a restare insoluto) si è lasciato convincere (propendendo fin da subito per rapporti idilliaci e sereni fino all’agosto del 2021) dell’esistenza di un quadro familiare privo di problemi come descritto dall’imputato ma, alla luce degli accadimenti successivi, tale quadro pare francamente irrealistico.
In definitiva, così destrutturate le umiliazioni raccontate dalla donna (che il giudice non ritiene insussistenti, ma sminuisce e svilisce nella loro essenza maltrattante, riducendoli a sfoghi umanamente comprensibili dell’imputato) il Tribunale può infine giungere ad affermare che «in conclusione si è in presenza non del reato di cui all’art. 572 c.p. ma soltanto di normale ancorché concitata dialettica innescata da una decisione sicuramente traumatica».
Il Tribunale sembra che, senza una condotta oggettivamente rilevabile come maltrattante prima della separazione, abbia ritenuto e valutato come ingiustificata e non attribuibile al marito la separazione, e abbia da ciò fatto discendere l’inattendibilità della vittima circa i maltrattamenti psicologici di cui è stata vittima, considerando come “normale dinamica familiare” i litigi densi di insulti ed umiliazioni da parte del marito come “reazione umanamente comprensibile” alla decisione di separarsi, tenendo in piedi solo l’episodio del gravissimo pestaggio avvenuto successivamente, che ha coinvolto anche i familiari della donna, visto anch’esso come reazione abnorme, ma pur sempre conseguente al trauma della separazione.
Il ragionamento effettuato dal Tribunale torinese non regge alla luce della costante giurisprudenza della Corte di cassazione e della CEDU.
La Suprema Corte afferma da tempo (da ultimo, Cass. sez. VI n. 23956 del 27 giugno 2025) che integrano il reato di maltrattamenti le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che abbiano avuto origine durante la convivenza e siano proseguite senza soluzione di continuità dopo la separazione. Non rileva, ai fini della tipicità della fattispecie, la cessazione della convivenza o l’assenza di una relazione affettiva stabile nel momento della separazione, poiché la qualifica di “persona della famiglia” permane fino allo scioglimento definitivo degli effetti civili del matrimonio. Sotto questo profilo, pertanto, vessazioni e umiliazioni che siano motivate dal risentimento del marito nei confronti della moglie che assume l’iniziativa della separazione, non possono essere confinate tout court nell’ambito dell’irrilevanza penale e giustificate come reazioni umanamente comprensibili all’interno di una «normale ancorché concitata dialettica innescata da una decisione sicuramente traumatica». Nella specie non vi è alcun dubbio che le condotte umilianti e vessatorie siano iniziate durante la convivenza e siano proseguite dopo l’inizio della procedura di separazione, di talché l’inquadramento delle frasi oltraggiose e umiliante rivolte dall’imputato alla consorte come «frasi (che) devono essere calate nel loro specifico contesto: l’amarezza per la dissoluzione della comunità domestica era umanamente comprensibile; era pienamente legittimo poi, che l’imputato rivendicasse il contributo da lui dato alla famiglia; le frasi finali, al di là dello scurrile linguaggio adoperato, semplicemente esprimevano il disappunto e la preoccupazione per il sicuro peggioramento delle condizioni economiche a cui la famiglia sarebbe andata incontro», appare fuorviante e, sia consentito, fuori contesto. Il dispiacere, il dolore e la rabbia per un rapporto in frantumi non possono mai legittimare comportamenti costituenti reato. E questo principio, addirittura banale, trova conforto nella giurisprudenza della CEDU.
Nella recentissima (23 settembre 2025) decisione CEDU nella causa Scuderoni c. Italia, la Corte Europea ha ribadito che nei casi di violenza domestica, offese, umiliazioni e condotte vessatorie, in ossequio alla Convenzione di Istanbul, gli Stati devono porre in essere procedure di protezione della vittima senza alcun indugio. Viene dalla Corte inoltre stigmatizzato che l’autorità giudiziaria italiana aveva rifiutato misure di protezione attribuendo le condotte maltrattanti (insulti, umiliazioni, denigrazioni, aggressioni) denunziate dalla vittima a «situazioni tipiche di un conflitto nell’ambito di una coppia in via di separazione» che avevano portato alla assoluzione dell’imputato (pag. 27 della sentenza). Nella fattispecie l’Italia è stata condannata a risarcire la vittima con 25mila euro per le omissioni e le negligenze commesse dalla autorità giudiziaria italiana.
Va pertanto fatta molta attenzione nell’inquadramento delle vicende che vengono portate al cospetto dell’autorità giudiziaria, perché si potrà dire che la vittima nel suo racconto non ha convinto per eventuali contraddizioni, aporie, incertezze nella narrazione delle condotte maltrattanti. Ma non si potrà dire che quei fatti sono da ritenere veri e tuttavia riconducibili a «normali dinamiche familiari di una coppia che si sta separando», come accaduto nel caso Scuderoni, e per certi versi nel caso Regna. Quelle condotte, se accertate, costituiscono sempre reato e non sono da comprendere nel contesto fisiologico della separazione o, come dice il giudice torinese, «espressione di disappunto» e per tal via ritenere «che queste frasi devono essere calate nel loro specifico contesto: l’amarezza per la dissoluzione della comunità domestica era umanamente comprensibile; era pienamente legittimo poi, che l’imputato rivendicasse il contributo da lui dato alla famiglia; le frasi finali, al di là dello scurrile linguaggio adoperato, semplicemente esprimevano il disappunto e la preoccupazione per il sicuro peggioramento delle condizioni economiche a cui la famiglia sarebbe andata incontro».
La sentenza del 23 settembre appena citata, non è la prima e verosimilmente non sarà l’ultima. Un articolo su ilfattoquotidiano.it (La sentenza di Torino sul caso Lucia Regna? Non pronunciatela in nostro nome, signori giudici, Nadia Somma Caiati, 13 settembre 2025) riporta che dal 2015 ad oggi ci sono state ben otto condanne per lo Stato Italiano per inadempienze giudiziarie nella tutela di vittime di violenza, ovvero in ben otto casi l’autorità giudiziaria italiana non ha correttamente o tempestivamente valutato il materiale probatorio a carico dell’imputato di violenze di genere, prosciogliendolo ingiustamente. Forse un ripensamento circa gli orientamenti giudiziari in tema di credibilità della vittima ed una minore empatia umana con gli aggressori che subiscono una separazione o un diniego si impongono, almeno per distribuire giustizia in modo più equo ed evitare condanne a Strasburgo. Sotto questo punto di vista basterà applicare la costante giurisprudenza della Suprema Corte e della CEDU. Non dovrebbe essere difficile. La categoria della “umana comprensione” non ha, in definitiva, alcuna legittimazione nello scriminare comportamenti costituenti reato, altrimenti si rischia l’introduzione di una scriminante non codificata contra legem.
Soprattutto l’utilizzo della predetta categoria implica necessariamente l’adozione di giudizi morali di parte, perché dove si ha comprensione per una parte processuale, necessariamente se ne ha poca o nulla per l’altra parte. Nella specie, sin da subito, la sentenza torinese ha adottato un linguaggio che è ben presto scivolato dall’ambito giuridico a quello morale (il messaggio WhatsApp ritenuto «brutale»), prendendo apertamente le parti dell’imputato. Come giustamente affermato (Il giusto processo e il giusto linguaggio, Iacopo Benevieri, su PQM Il Riformista, 24 settembre 2025), «quando la motivazione abbandona l’analisi giuridica e imbocca la via del giudizio morale, introduce una torsione che funge da innesco. (…) Quando [il linguaggio] si colora di giudizi di valore, si producono due effetti nocivi: alterare la percezione dei fatti e sottrarre le premesse alla confutazione razionale». Ad esempio, l’aggettivo «brutale» sopra ricordato, «non misura un illecito, né un nesso probatorio; appartiene alla costellazione semantica del biasimo morale. Inietta nella motivazione un ammonimento paternalistico: non solo espone, ma suggerisce “il modo giusto” di stare al mondo, trasformando la sentenza in un sermone. Che la qualifica colpisca la persona offesa e non l’imputato, non attenua il problema: in entrambi i casi si oltrepassa il confine del giuridico per entrare nel foro dell’etica. (…) il linguaggio della giurisdizione non può travestirsi da sermone, né per stigmatizzare l’imputato né per biasimare la persona offesa».
Ma giudicare non secondo i fatti applicando norme prestabilite ma secondo valori e condizioni emotive comporta un rischio enorme per chi giudica: lo scivolamento verso forme di giustizia emotiva, imprevedibile, «senza obblighi di coerenza, senza precedenti da rispettare, né norme da applicare secondo metodo. E’ una giustizia più politica che giuridica, estranea alla tradizione occidentale dello Stato di diritto (…) arbitraria, rituale, premoderna» (cfr. N. Nappi, Prevedere è decidere? Riflessioni sulla prevedibilità del diritto, in Diritto delle nuove tecnologie), che diventa assimilabile alla cd. Giustizia di cadì (che già Max Weber aveva individuato come contromodello rispetto alla giustizia del moderno Stato di diritto) che, nella sua imprevedibilità e incontrollabilità, scade inevitabilmente nell’arbitrio. La corrispondenza del fatto alla norma secondo le norme dello Stato di diritto moderno, per quanto imperfetta, resta l’unico argine alla giustizia di cadì. Che piaccia o no.
Sia chiaro, non si vuole sminuire l’importanza delle convinzioni personali del giudice nella soluzione delle controversie: si tratta di acquisizioni ormai pacifiche sin dalla fine del secolo scorso. Ma si tratta di convinzioni personali che riguardano casi implicanti giudizi di valore coinvolgenti la gran parte se non tutta la collettività, (cfr. J. Patrone, Le convinzioni personali del giudice e la soluzione delle controversie, in Questione Giustizia, n. 1/2004), non convinzioni personali relative ad un singolo caso con incursioni nella moralità delle singole parti in causa: non è questo il suo compito. Quando ciò accade, come è stato accennato sopra, il passo tra una sentenza e un sermone è purtroppo breve.