SOMMARIO 1. Il significato del femminicidio; 2. La ratio di una possibile incriminazione del femminicidio; 3. Il contesto normativo di riferimento; 4. Il disegno di legge 1433, sull’introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime. Profili critici; 5. Proposte per una efficace incriminazione della violenza di genere e del femminicidio nel sistema penale italiano; 6. La parte processuale del ddl 1433; 7. Incoerenza assiologica tra la prospettiva carcero-centrica dell’ergastolo e la prospettiva vittimologica di genere.
1. Il significato del femminicidio
1.1. Il termine femminicidio indica letteralmente l’uccisione di una donna da parte di un uomo o di un’altra donna ma, nell’accezione socio-criminologica elaborata nel contesto dei Women e poi dei Gender studies, sviluppatisi in particolare in Africa e negli Stati Uniti, questo termine intende, più precisamente, l’uccisione di una donna da parte di un uomo, come atto esponenziale di un sistema sociale di oppressione delle donne da parte degli uomini.
In questo senso, il termine femminicidio (al quale, nel lessico criminologico, viene spesso preferito il termine femicidio, in quanto più esattamente corrispondente al termine omicidio) finisce quindi per assumere un’estensione semantica più ampia e indicativa di un intero sistema di oppressione socio-antropologico, per effetto del quale le donne sono tuttora esposte in tutte le parti del mondo (e, come noto, in alcuni Paesi e culture più che in altri) a forme di discriminazione e di violenza sistemica nell’ambito relazionale, in particolare di coppia e familiare, così come sul versante sociale, lavorativo ed economico. Senza dimenticare l’uso della violenza contro le donne (violenza sessuale, violenza riproduttiva, femicidi, infanticidi e deportazione di minori) nei conflitti internazionali[1].
Il femminicidio, o femicidio, indica quindi il fenomeno della violenza di genere nella sua manifestazione più diffusa, che è appunto la violenza maschile contro le donne in ambito relazionale, familiare, sociale ed economico, e conseguentemente vuole inquadrare l’uccisione della donna, in un contesto di violenza di genere, non in modo atomistico, come “episodio”, bensì come un’uccisione che ha cause sociali e antropologiche specifiche e non confondibili con i fattori che possono portare, per le ragioni più diverse, all’uccisione di un uomo. Il femminicidio, in altre parole, non descrive (solo) singoli episodi, ma descrive un “sistema” a sua volta fondato su una solida struttura sociale e normativa, e che trae la spinta agogico-propulsiva dalla sovrastruttura sociale di genere, che è una struttura oppressiva comune a tutte le società.
1.2. Il primo significato del femminicidio sta quindi nel cogliere che non esistono singole condotte oppressive né singole persone che esercitano oppressione sulle altre. Ogni condotta oppressiva, in quanto tale, si fonda su una struttura sociale più ampia, il cui funzionamento è deliberatamente funzionale all’esercizio dell’oppressione sui singoli, da parte di collettività organizzate (inclusi gli apparati statali) e da parte di singoli individui su altri.
Un punto, questo, importantissimo da capire nel momento in cui ci si accinge a riflettere su una possibile criminalizzazione del femminicidio, la quale, per essere realmente tale, non potrà ignorare ma dovrà al contrario focalizzare il legame tra la singola condotta “femicidiaria” e la struttura sociale oppressiva che l’ha generata.
Come chiarisce Simone Weil in un frammento estremamente nitido, di cui riporto un estratto per la sintesi e l’incisività con cui chiarisce il concetto: «La nozione di oppressione è, in fondo, una stupidaggine (…) e a maggior ragione la nozione di classe oppressiva. Si può solo parlare di una struttura oppressiva della società. Questa struttura non genererà mai automaticamente il suo contrario ma solo l’ideale del suo contrario[2]».
Non avrebbe quindi alcun senso né alcuna chance di riuscita il cercare di contrastare una condotta di oppressione come se fosse il frutto estemporaneo ed episodico di un singolo agito umano perché, come suggerisce icasticamente il frammento weiliano, in questo senso l’oppressione non esiste, o meglio, non è possibile parlare correttamente di oppressione.
La condotta oppressiva, quando è tale, è sempre la conseguenza di una struttura oppressiva che opera a un livello più ampio, nel sistema sociale e normativo e, per cogliere bene questo lemma, occorre considerare, come sinonimo di “oppressivo”, il termine “strutturale”.
1.3. Gli indici che rivelano quando si è di fronte a una condotta strutturale sono facilmente identificabili e consistono nella perpetrazione nel tempo di condotte analoghe, non direttamente correlate le une alle altre (perché attuate in territori e contesti storici, culturali e sociali diversi) ma realizzate con continuità, seguendo sempre lo stesso schema culturale e comportamentale.
Tra le prime a cogliere e a denunciare la franca sussistenza di indici di strutturalità nei casi di violenza maschile contro le donne, è stata la giurista americana Catharine MacKinnon, nell’opera Feminism Unmodified[3]: una raccolta, edita nel 1987, dei discorsi tenuti tra il 1981 e il 1986, in cui l’Autrice esprime il suo punto di vista dell’epoca, secondo il quale i contrasti legislativi agli abusi sessuali degli uomini contro le donne, nelle varie forme (stupri, atti di libidine, molestie, abusi su minori) erano più che altro formali e l’introduzione di leggi speciali serviva a dare l’impressione di un contrasto di facciata e a ridurre invece la percezione della dimensione strutturale del fenomeno. È infatti sufficiente considerare il modo in cui venivano svolte le indagini e i processi dopo le denunce delle vittime per capire la realtà della percezione sociale diffusa: le vittime venivano percepite e presentate come le prime devianti, prostitute per lo più, che raccontavano fatti devianti come ontologicamente inerenti a un contesto e a una vittima già in sé devianti, e ciò sul presupposto, implicito ma saldo, che la donna che non devia non subisce abusi. Inoltre, nei crimini sessuali l’accento veniva posto sulla natura sessuale del crimine ma sempre nella prospettiva dell’autore della violenza e mai della sua vittima; l’aggettivo sessuale, vale a dire, definiva il movente dell’autore non il bene giuridico della persona offesa. Ricondurre quindi lo stupro e le altre forme di violenza alla sfera sessuale dell’agente significava attestare e accettare che per il soggetto agente ciò che dalla vittima era percepito come una violenza era, in realtà, solo sesso.
E questo assioma è possibile solo se si accetta e si dà per scontata una disuguaglianza (inequality) di base, una asimmetria della sessualità: è cioè socialmente ammesso che la sessualità maschile comprenda atti, pratiche e istinti che, sebbene nella sfera dell’agente siano naturalmente inerenti al sesso, possono essere percepiti (soggettivamente, non oggettivamente) come una violenza dalla vittima.
La criminalizzazione di alcune forme di violenza non riflette altro che la pretesa statale di fissare un’asticella della tollerabilità alla inequality di base: al di sotto della quale la dinamica sessuale, che è naturalmente sbilanciata nei confronti della parte attiva del rapporto, il maschio, è tollerata; e oltre la quale invece non lo è più, perché un grado eccessivo di violenza (come lo stupro e l’omicidio) minerebbe la percezione di sicurezza sociale e quindi la convivenza civile.
Già negli anni ’80, quindi, MacKinnon coglieva perfettamente la dimensione strutturale e sociale della violenza e la correlava alla stessa essenza della società, intesa come patto fondazionale, un vero e proprio Pactum societatis in senso illuministico, in forza del quale gli individui rinunciano al pieno esercizio della propria libertà consegnandosi nelle mani dello Stato per essere protetti dalla violenza diffusa alla quale sarebbero invece esposti in un contesto di pura natura (Homo homini lupus), e lo Stato assume la missione di proteggere i consociati pretendendo, come condizione, quella di poterne limitare la libertà (Protego ergo obligo). La particolarità di questo contratto sociale originario è la natura sessuale dello scambio, nel senso che a essere compromessa è stata l’autodeterminazione sessuale delle donne, per effetto di un vero e proprio “contratto sessuale” dalla cui negoziazione le donne sono però state escluse, essendo stato negoziato tra uomini sui corpi delle donne[4].
1.4. Il punto di frizione antinomica, tutto interno alla filosofia politica dello Stato, è come possano coesistere, nello stesso coté illuminista, il principio del Protego ergo obligo e il principio dell’Habeas corpus, che tende invece a riconoscere all’essere umano un dominio assoluto e incondizionato sulla propria persona, sul proprio self, al che dovrebbe corrispondere un divieto per i sistemi statali e giuridici ‒ almeno negli Stati democratici, liberali e di diritto ‒ di inserirsi attraverso la normazione nell’intimità del rapporto che ogni individuo ha prima di tutto con sé stesso, con il proprio corpo e con la propria interiorità, e poi con gli altri individui, con i corpi, i pensieri e le emozioni dell’altro.
Eppure, è proprio all’interno di questa apparente contraddizione che si è progressivamente creato un “non luogo politico teologico giuridico” nel quale la coesistenza dei due poli opposti (Obligo e Habeas corpus) non solo è possibile ma si fa sistema, complesso e solido, nel quale si articola il rapporto dell’individuo con lo Stato.
Negli Stati che definiamo democratici, laici, liberali e di diritto (i.e., quelli che, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, hanno fatto una scelta netta per la democrazia costituzionale e per il multilateralismo dei diritti) il principio dell’Habeas corpus è enunciato in modo tendenzialmente assoluto ma non è mai garantito in modo davvero assoluto.
Il sistema sociale ‒ proprio per mantenere la constituency di agente detentore della libertà dei consociati, in quanto agente protettore della loro vita e della loro incolumità ‒ continua a manipolare la vita degli individui e le loro relazioni, attraverso quello che la scienza sociale definisce come un sistema “binario”, che cioè semplifica l’esistenza degli individui in due macro opzioni: l’opzione dominante che, anche se non propriamente imposta dallo Stato, viene comunque apertamente promossa come socialmente adeguata; e quella minoritaria, una categoria che invece include tutti gli individui, i modi di vivere e/o le tipologie di relazioni che vengono considerati outsider, fuori dalla categoria del normo-sociale.
Ciò significa che, nel passaggio dall’autoritarismo alla democrazia costituzionale che molti Stati (tra cui il nostro) hanno attuato a partire dal secondo dopoguerra, sulla falsariga del modello americano, non tutta l’eredità dell’autoritarismo è andata perduta e anzi una parte di questa eredità, consistente nell’oppressione razziale, di genere e capitalista, è stata mantenuta in quanto ritenuta essenziale alla forma Stato per poter garantire, anche in un contesto democratico, l’ordine sociale.
Quelle che storicamente nascono come macrostrutture oppressive legali della società (lo schiavismo, l’apartheid e il patriarcato) diventano, nel passaggio democratico, “retaggi”, nel senso che vengono legalmente aboliti ma non si dissolvono del tutto, perché il mantenimento di un certo grado di oppressione razziale, di genere e capitalistica, è ritenuto ineliminabile per una forma Stato in grado di mantenere l’ordine.
1.5. Il “non luogo” del retaggio è anche il luogo del biopotere, intendendo per esso l’azione perseguita dallo Stato per conformare in modo coattivo gli individui a un determinato modello di persona, di relazione e di famiglia, anche in assenza di leggi discriminatorie espresse – quali erano (e sono tuttora in molti Paesi) i sistemi normativi fondati sull’apartheid e sul patriarcato – e ricorrendo più sottilmente a regole, discipline e prassi, le quali, nel contesto dei settori sensibili dell’ordinamento sociale (ad esempio in materia di famiglia, di immigrazione e di lavoro) perseguono, pur non dichiarandolo, l’effetto di promuovere un modello dominante e di pregiudicare tutti gli altri[5].
È qui che si apre l’enorme problema politico di come contrastare i retaggi patriarcali senza contrastarli davvero sino in fondo perché, come MacKinnon aveva capito e denunciato a chiare lettere già negli anni ’80, questo era, e in larga parte è ancora, il vero obiettivo politico delle società democratico-liberali.
Enunciare la parità di genere e l’abolizione di ogni forma di discriminazione di genere e razziale, così come di ogni forma di sfruttamento capitalistico del lavoro, pur sapendo che a tale enunciazione formale non potrà e non dovrà seguire un reale e completo smantellamento della struttura oppressiva di genere, razziale e capitalista, perché ciò potrebbe compromettere la tenuta dell’ordine sociale e, come coglie ancora un illuminante passaggio di Simone Weil: «Finché ci sarà una gerarchia sociale stabile, qualunque ne possa essere la forma, coloro che stanno in basso dovranno lottare per non perdere tutti i diritti degli esseri umani. D’altra parte, la resistenza di coloro che stanno in alto, se di solito sembra contraria alla giustizia, si basa anch’essa su motivi concreti. Innanzi tutto, su motivi personali: tranne il caso di una generosità assai rara, i privilegiati non vogliono perdere una parte dei loro privilegi materiali o morali. Ma si basa anche su motivazioni più elevate. Coloro i quali sono investiti da funzioni di comando sentono su di sé la missione di difendere l’ordine indispensabile a ogni vita sociale e non concepiscono altro ordine possibile che quello esistente. Non hanno del tutto torto, perché finché un altro ordine non sia stato realmente instaurato, non si può affermare con certezza che sarà possibile; proprio per questo motivo può esserci progresso sociale solo se la pressione dal basso è sufficiente a mutare effettivamente i rapporti di forza e a costringere così a instaurare di fatto legami sociali nuovi. L’incontro tra la pressione dal basso e la resistenza dall’alto genera così continuamente un equilibrio instabile, che definisce a ogni istante la struttura di una società. Questo incontro è una lotta, ma non una guerra; può trasformarsi in guerra in determinate circostanze, ma non vi è in ciò alcuna fatalità[6]».
La dimensione del fenomeno della violenza maschile contro le donne, come MacKinnon notava già quarant’anni fa, ha però davvero assunto la dimensione di una guerra; una guerra dichiarata alle donne, sia in tempo di guerra che in tempo di pace, i cui strumenti sono quelli tipici di ogni guerra: la violenza fisica, che in un numero statisticamente rilevante di casi esita nell’eliminazione fisica della vittima, la violenza sessuale e riproduttiva, la violenza psicologica e la violenza economica. Ed è una violenza sistemica e randomica: è infatti certo che ogni giorno, in ogni parte del mondo, un numero elevato di donne è sottoposto a forme di violenza per motivi di genere, tra cui l’uccisione. Si tratta solo di vedere, giorno dopo giorno, chi, dove e quando.
2. La ratio di una possibile incriminazione di femminicidio
2.1. Le brevi premesse storico-filosofiche svolte nel paragrafo che precede sono necessarie per chiarire che ciò che caratterizza il femminicidio non è solo il sesso della vittima, e che non ricorre, quindi, automaticamente un’ipotesi di femminicidio in tutti i casi di omicidio doloso nei quali la vittima è una donna e l’autore di reato è un uomo.
La specificità del femminicidio risiede piuttosto nell’essere commesso da un uomo in danno a una donna in un contesto di violenza di genere e/o per una motivazione, o movente, di genere, ciò è a dire un movente che si forma nel soggetto agente uomo per un moto interiore individuale (e.g., non accettare un rifiuto, un tradimento, la volontà di separarsi o di svolgere, magari con risultati più brillanti di quelli del partner, un’autonoma attività lavorativa o di studio), ma la cui costituzione causale affonda (anche) nell’avere, il soggetto agente maschile, assorbito convinzioni, anche a livello inconscio, sul tipo di rapporto che, in quanto uomo, avrebbe potuto instaurare con una donna e in base al quale avrebbe potuto aspettarsi, solo in ragione della propria scelta o dei propri sentimenti, di non essere rifiutato, lasciato, tradito o surclassato nella sfera economico-sociale.
L’agente modello maschile si trova, a causa dei retaggi patriarcali di cui si è parlato nel primo paragrafo, ad assorbire e a maturare convinzioni di questo tipo, soprattutto attraverso il sistema educativo (scolastico, familiare e relazionale), al quale è strutturalmente affidato il compito di nutrire quel “non luogo del retaggio” che sta tra la formale enunciazione del superamento del patriarcato (l’Habeas corpus femminile) e la sostanziale perpetrazione di “retaggi patriarcali”, i quali, come quelli razziali e censitari, continuano invece a orientare le condotte delle nazioni, degli individui e delle individue.
2.2. Il modo in cui la sfera educativa risponde a questa complicata missione di “terra di mezzo” è costituito dalla perpetrazione di stereotipi di genere; gli attori educativi (in particolare la scuola e la famiglia) tendono a non mettere apertamente in discussione il principio egualitario di genere, e però costruiscono e insegnano ai bambini e alle bambine determinati stereotipi: tipologie di pensiero, sensazioni e comportamenti che vengono insegnate come “adeguate” in relazione al sesso di appartenenza, anche se vanno al di fuori e in alcuni casi anche contro il principio egualitario di genere.
Si pensi allo stereotipo, tuttora diffusissimo tra i giovani ed estremamente visibile nei modelli social a cui gli adolescenti si ispirano, in base al quale per il giovane uomo è segno di crescita fisiologica e di “normalità” avere molte partner sessuali, mentre un’analoga condotta, se è tenuta da una ragazza, viene immediatamente interpretata come segno di “smarrimento” e diviene un motivo di discredito sociale che spesso dà luogo, negli ambienti scolastici, a forme di bullismo e cyberbullismo molto violente, che talora inducono la vittima alla depressione e al suicidio.
Sono moltissimi i casi di bullismo e cyberbullismo a sfondo sessuale nei confronti di giovani donne, adolescenti e ragazze (anche per questo è stato introdotto il reato di c.d. Revenge porn, all’articolo 612-ter del Codice penale), mentre la casistica in danno ai ragazzi maschi riguarda giovani presi di mira perché, al contrario, non uniformati allo stereotipo maschile dominante e dileggiati come gay[7].
Gli stereotipi di genere servono a propagare convinzioni sulla asimmetria della sessualità che influenzano le condotte degli individui e delle individue e creano le premesse per l’instaurazione di rapporti e relazioni asimmetriche tra i generi, nei quali l’uomo si sente, anche inconsciamente, investito di una posizione di primazia sulla donna e sugli uomini non etero-conformi. Allo stesso modo accetta di lottare, nell’agone sociale, su un piano di parità con gli altri uomini etero-conformi, per la propria affermazione personale.
Questa asimmetria relazionale che si crea, anche nell’inconsapevolezza degli attori della relazione, è pericolosissima perché costituisce un humus molto fertile per l’innesco di dinamiche di possessività, controllo e gelosia patologica, le quali, in alcuni casi, possono tracimare nella violenza sino ad arrivare, nei casi più gravi (nei quali giocano certamente un ruolo importante anche le individuali fragilità personologiche) al femminicidio.
2.3. Rientrano quindi nel concetto di femminicidio gli omicidi in danno a una donna che sia o sia stata in stretta relazione sentimentale con l’autore di reato e che siano commessi in un contesto di violenza di genere o per un movente di genere, da mariti, fidanzati, conviventi, stalker; ma anche da padri e fratelli verso figlie e sorelle che rifiutano di adeguarsi a tradizioni patriarcali (si veda, ad esempio, il noto caso dell’omicidio di Saman Abbas) e anzi, in questi casi, se partecipano all’omicidio contro la congiunta “ribelle” anche delle donne, anche loro dovrebbero rispondere di femminicidio, perché hanno agito per la medesima causa sessista condivisa con gli uomini della famiglia. Non solo gli uomini, infatti, ma anche molte donne agiscono violenza sessista, in particolare sulle e sui minori, e perpetrano, attraverso l’educazione familiare e domestica, stereotipi di genere ai figli maschi e alle figlie femmine.
Parimenti, rientra nel concetto di femminicidio l’evenienza (più rara ma esistente) in cui il soggetto agente uccide una donna per il fatto di essere una donna, indipendentemente dall’esistenza di un pregresso rapporto relazionale tra autore e vittima di reato, ma proprio per motivi di odio e disprezzo delle donne (misoginia), i quali discendono, egualmente, dalla cultura patriarcale assorbita dagli stereotipi di genere.
Si pensi all’omicidio di prostitute e di donne transessuali o, ancora, all’omicidio di donne incontrate casualmente per strada da uomini che maturavano la “fantasia di uccidere” e che hanno, anche inconsapevolmente, nutrito quella fantasia negli stereotipi di genere, in modo tale da arrivare a scegliere, non casualmente, una vittima donna per realizzare la morbosa fantasia omicidiaria covata nel segreto del foro interiore (si pensi all’omicidio di Emilou Aversu, avvenuto a Milano nel 2010, e al più recente caso di Sharon Verzeni, avvenuto in provincia di Bergamo nel 2024).
3. Il contesto normativo di riferimento
3.1. Poste queste premesse sulla ratio che un’eventuale fattispecie autonoma di femminicidio sarebbe chiamata a perseguire, è utile ora analizzare l’attuale contesto normativo, per notare come esso rifletta appieno l’ambiguità politica di cui si è detto, tra contrasto formale e accettazione sostanziale dei retaggi patriarcali.
Nel Codice penale sono attualmente presenti alcune fattispecie di omicidio aggravato caratterizzate dalla circostanza oggettiva dell’esistenza di un determinato rapporto tra autore e vittima di reato.
Si applica, in particolare, la pena dell'ergastolo quando l’omicidio è commesso contro l'ascendente o il discendente anche per effetto di adozione di minorenne o contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l'altra parte dell'unione civile o contro la persona stabilmente convivente con il colpevole o ad esso legata da relazione affettiva (577, primo comma primo, 1, c.p.).
Si applica, invece, la pena della reclusione da ventiquattro a trent’anni se il fatto è commesso contro il coniuge divorziato, l'altra parte dell'unione civile, ove cessata, la persona legata al colpevole da stabile convivenza o relazione affettiva, ove cessate, il fratello o la sorella, l'adottante o l'adottato, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta (577, secondo comma, c.p.).
A queste ipotesi di omicidio aggravato correlate al rapporto di parentela, coniugio o affettività tra autore e vittima, sono poi state aggiunte (dal d.l.vo n. 11/2009, convertito nella l. n. 38/2009, e poi dalla l. n. 172/2012) altre ipotesi (576, primo comma, 5, c.p.), volte a sanzionare con l’ergastolo l’omicidio commesso in occasione della commissione di altri delitti, quali i Maltrattamenti contro familiari e conviventi (572 c.p.), la Deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (583-quinquies), la prostituzione e la pornografia minorile (600-bis e 600-ter) e la violenza sessuale (609-bis e seguenti).
E, parimenti, l’omicidio commesso dall'autore del delitto di Atti persecutori, meglio conosciuto come stalking (612-bis c.p.), nei confronti della stessa persona offesa (576, primo comma, 5.1, c.p.).
3.2. Ebbene, l’ambiguità politico-criminale di cui si è detto è chiaramente visibile nell’attuale contesto normativo in quanto, da un lato, le ipotesi di omicidio aggravato, progressivamente introdotte negli ultimi vent’anni, si sforzano all’evidenza di colpire, punendole con le pene detentive più severe dell’ordinamento (l’ergastolo e la reclusione sino a trent’anni), tutte le situazioni in cui l’omicidio di una donna da parte di un uomo è tipicamente collocato in un quadro di violenza di genere e assume, quindi, la connotazione di omicidio di una donna, da parte di un uomo, per un movente di genere (i.e., il femicidio in senso proprio).
Dall’altro lato, però, la tecnica legislativa che è sempre stata utilizzata allo scopo è quella di descrivere tali fattispecie senza fare alcun riferimento al movente di genere né al contesto di violenza di genere nel quale l’omicidio è maturato, bensì di ancorare l’oggettività giuridica della fattispecie alla descrizione di dati oggettivi (come il rapporto di parentela o l’accertamento della commissione di un reato concorrente) che restano rigorosamente “neutri” con riferimento al sesso e al genere, e che non contengono alcun riferimento alla sovrastruttura oppressiva sociale di genere in cui la violenza è maturata.
Questa tecnica legislativa risponde chiaramente alla finalità teorico-politica di contrastare con lo strumento penale, nel modo più incisivo possibile sotto il profilo sanzionatorio, le manifestazioni esponenziali della violenza di genere senza però stabilire, nero su bianco, l’obiettivo politico legislativo di mettere chiaramente al bando il retaggio patriarcale nel quale la violenza di genere continua ad allignare e del quale continua a nutrirsi, anche nelle nuove e giovanissime generazioni.
3.3. Nessun legislatore politico ha inteso, sino ad ora, assumersi la responsabilità di mettere chiaramente e inequivocabilmente al bando dell’ordinamento giuridico i retaggi della struttura oppressiva patriarcale e i rigidi strumenti culturali dei quali essa si serve, che sono essenzialmente il binarismo di genere (per il quale il dimorfismo sessuale della specie diventa criterio sociale di distinzione di ruoli e diritti in base al sesso biologico), la subalternità di genere (che sorregge tuttora un evidente gap di potere e salariale tra uomini e donne) e l’eteronormatività (cioè l’imposizione dell’identità cis-genere e dell’orientamento eterosessuale come “normali” e la conseguente stigmatizzazione delle altre identità di genere e degli altri orientamenti sessuali come anomalie. L’eteronormatività, in particolare, sta trovando in questo frangente storico una stagione di fortissima riaffermazione ideologica, abbracciata da molti governi, anche occidentali, come sedicente reazione agli eccessi di un’opposta cultura dell’inclusione delle diversità, che avrebbe, si dice, “egemonizzato” la cultura sociale e giuridica negli ultimi anni).
Binarismo di genere, subalternità di genere ed eteronormatività sono i tre pilastri della struttura patriarcale.
Il paradosso normativo che caratterizza il sistema penale attuale sta nel fatto che la maggior parte degli omicidi che sarebbero definibili, in termini socio-criminologici, come femminicidi, sono già punibili con le pene più severe previste dell’ordinamento, ma ciò avviene in forza di ipotesi di omicidio aggravato che riescono, sotto il profilo descrittivo della fattispecie, a dare copertura agli omicidi frutto della violenza di genere senza mai nominare espressamente la violenza di genere e le sue cause, che affondano nei pilastri della struttura patriarcale siglata da quel “negozio sessuale” originario che fa parte, insieme al negozio sociale, delle fondamenta stesse delle società.
E del resto, questa è la principale motivazione posta alla base delle critiche, provenienti dalla maggioranza della dottrina penalistica, al progetto di legge in questione, e cioè la non necessità di introdurre una nuova fattispecie in presenza di reati già esistenti che, sia pure tangenzialmente e non nominalmente, offrono comunque copertura, e con la sanzione massima, ai casi che dovrebbero rientrare nella nuova incriminazione di femminicidio.
In questo modo, si dice in dottrina, si sconfinerebbe nel diritto penale meramente simbolico, che non può avere diritto di cittadinanza nell’ordinamento costituzionale, retto, in materia penale, dai princìpi di legalità, materialità e offensività della fattispecie e dai princìpi e diritti di garanzia dell’imputato che ineriscono al sistema del Giusto processo.
Un’obiezione che, per vero, non coglie del tutto nel segno, perché la scelta di non nominare la violenza di genere in quanto tale (per evitare di stigmatizzare espressamente la sovrastruttura sociale di genere in quanto tale) finisce inevitabilmente per “fallire”, non riuscendo a dare copertura a tutti i casi di omicidi di donne per motivazioni di genere, in quanto ne restano fuori, ad esempio, i casi di omicidi per ragioni di misoginia e transfobia, ai quali si è fatto riferimento poco sopra (tipici i casi di omicidio di vittime donne scelte casualmente, nonché gli omicidi di prostitute e di donne trans), in quanto tra le varie aggravanti esaminate (di tipo parentale, relazionale o con riferimento ad altri reati concorrenti) non si è riusciti a inserire un’aggravante di misoginia pura, in quanto ciò sarebbe stato impossibile senza nominare la violenza di genere e la sovrastruttura sociale che la sorregge.
3.4. È a partire da questo contesto che occorre interrogarsi sull’opportunità di introdurre nell’ordinamento italiano, sull’esempio delle legislazioni latinoamericane, una fattispecie ad hoc di femminicidio, ossia di uccisione di una donna per mano di un uomo in un contesto di genere e/o con un movente di genere.
Acclarato, infatti, che la maggior parte dei casi omicidiari che, sotto il profilo criminologico, sarebbero sussumibili nella fattispecie di femminicidio, sono già allo stato previsti dall’ordinamento e puniti con le sanzioni massime, è invero da escludersi una reale utilità dell’intervento normativo sotto il profilo della “colmatura” di un vuoto di tutela, così come sotto il profilo di un maggiore effetto “general-preventivo”, cioè come fattore di mera deterrenza.
E non si può quindi non concordare, sotto questo aspetto, con le preoccupazioni di quanti, nell’accademia e nell’avvocatura, temono un graduale sconfinamento dell’uso del diritto penale in un simbolismo che fa da pendant al panpenalismo politico, nella cui ottica si nota, effettivamente, una preoccupante tendenza a delegare al diritto penale (e quindi, in sostanza, alla mera repressione) problematiche legate a fenomeni sociali molto complessi, per risolvere i quali occorrono invece interventi strutturali e trasversali a diversi settori del diritto, della pubblica amministrazione e dell’educazione.
Il panpenalismo e il diritto penale simbolico sono storicamente indici di una abdicazione della politica al proprio ruolo di risolvere le problematiche più profonde della convivenza civile e di promuovere cambiamenti sociali e culturali sapendo intercettare, senza approcci rigidi e ideologici, i cambiamenti in atto nella società, le preoccupazioni e le esigenze delle nuove generazioni.
L’introduzione di una incriminazione ad hoc del reato di femminicidio può quindi avere senso solo se sorretta da un approccio radicalmente inverso a quello simbolico-nominale.
Si tratterebbe, cioè, di colmare quell’omissione che nessun legislatore politico si è sinora assunto la responsabilità di colmare, e di indicare, con una normativa penale espressa, precisa e determinata, come “obiettivo criminale” la violenza di genere in quanto tale, descrivendo (e non solo nominando) la sovrastruttura sociale di genere nella quale la violenza affonda, con l’effetto di apportare una effettiva (e non solo simbolica) estensione di tutela ai tanti casi di violenza di genere che attualmente non hanno alcuna tutela penale.
3.5. L’attuale frangente storico-giuridico offre in effetti una opportunità in tal senso, in quanto la nuova incriminazione potrebbe (e dovrebbe) muoversi nel solco della Direttiva (UE) 2024/1385, sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, adottata il 14 maggio 2024 dal Parlamento europeo e del Consiglio, la quale dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 14 giugno 2027.
La Direttiva riconosce la violenza di genere come fenomeno complesso, fondato su un sistema strutturale di oppressione generatore di violenza e di discriminazione ad ampio raggio, e infatti sostiene, da un lato, che le misure ivi stabilite sono concepite per rispondere alle esigenze specifiche delle donne, delle ragazze e delle bambine, in quanto, come confermano dati e studi, esse sono vittime per antonomasia delle forme di violenza ivi contemplate, segnatamente la violenza contro le donne e la violenza domestica; ma specifica, dall’altro lato, che anche le altre persone che sono oggetto di queste forme di violenza dovrebbero beneficiare delle stesse misure che la Direttiva prevede per le vittime. Il termine «vittima», pertanto, dovrebbe riferirsi a chiunque, indipendentemente dal sesso e dal genere, e tutte le vittime dovrebbero beneficiare degli stessi diritti connessi alla protezione, all'accesso alla giustizia e all’assistenza (Considerando 12).
Proprio in ragione di tale approccio complesso alla dimensione strutturale della violenza di genere, la Direttiva impegna gli Stati a riconoscere e trattare in modo adeguato anche il fenomeno della discriminazione intersezionale, che ricorre quando la violenza contro le donne e la discriminazione fondata sul sesso si intersecano con altri motivi di discriminazione, in particolare la razza, il colore della pelle, l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza a una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età, l'orientamento sessuale, l’identità e l’espressione di genere.
In questo approccio organico, strutturale e intersezionale alla violenza di genere, la Direttiva contiene anche obblighi specifichi di incriminazione, ad esempio chiamando gli Stati ancora deficitari (tra i quali l’Italia) a introdurre norme apposite per l’incriminazione dell’istigazione all’odio e della discriminazione per motivi di genere, anche commessi via social con abuso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (TIC).
In questo quadro di armonizzazione europea, il legislatore italiano potrebbe quindi trovare, nei prossimi due anni, l’occasione per costruire una incriminazione esplicita della violenza di genere, nel cui ambito introdurre anche un’incriminazione ad hoc del crimine di femicidio.
3.6. La condizione alla quale, però, questa operazione legislativa può riuscire è quella di discostarsi effettivamente e non solo formalmente (cioè nel nome) dal paradigma che sino ad ora è stato invece seguito dalla politica italiana, cioè quello di criminalizzare la violenza di genere in modo indiretto, tangenziale, senza assumersi la responsabilità di scrivere in chiaro che, nel nostro ordinamento, non possono essere più tollerati stereotipi di genere che si riallaccino al retaggio patriarcale, in quanto gli stereotipi di genere sono continui generatori di violenza e discriminazione per motivi di genere, e stanno conseguendo l’esiziale risultato di perpetrare la violenza maschile contro le donne e la violenza omotransfobica anche nelle nuove generazioni, nelle quali il sessismo, la discriminazione, la violenza contro le donne e il femminicidio continuano a trovare spazio in modo non troppo dissimile dalle generazioni precedenti, nonostante il cambio d’era (in termini di affermazione dei diritti umani e di evoluzione digitale) che le separa.
Per rispondere a questo passaggio storico, che non può essere solo simbolico, occorre un intervento integrato che riformi prima di tutto, in modo armonico e consequenziale, l’educazione scolastica e il diritto (civile) antidiscriminatorio (a sua volta comprensivo di diversi ambiti, in primis la famiglia, il lavoro e la previdenza), e che promuova una progressiva espunzione dal sistema educativo di tutti i retaggi discriminatori ancora legati alla sovrastruttura patriarcale (due esempi di immediato impatto, primo: i programmi scolastici e universitari sono tuttora sbilanciati sul pensiero maschile, relegando le opere e il pensiero delle donne allo studio di pochissime autrici e scienziate, alle quali viene peraltro dedicata una trattazione incomparabilmente inferiore rispetto agli autori uomini; secondo: la normativa in tema di congedi genitoriali differenzia ancora in modo del tutto sproporzionato il trattamento della maternità da quello della paternità, facendo ancora ricadere sulle donne tutti gli oneri di cura della prole e le relative conseguenze in termini di interruzione lavorativa e di mancata progressione in carriera).
A questo intervento riformatore, volto a eradicare dall’ordinamento tutte le residue sacche di cultura patriarcale potrebbe, quindi, fare da contraltare una normativa penalistica ad hoc che incrimini la violenza di genere, andando a descrivere espressamente, in ossequio ai richiamati principi di legalità, determinatezza e materialità, il fenomeno della violenza di genere come fenomeno legato a quegli stereotipi culturali e educativi che, in un clima di coerenza interna all’ordinamento, dovrebbero essere contestualmente contrastati da una normativa civilistica e scolastica.
La normativa penale, se lasciata sola a sé stessa e disancorata da una promozione sociale e politica di un reale superamento della sovrastruttura di genere e dei connessi retaggi patriarcali, non avrebbe alcuna chance di maggiore efficacia rispetto alla normativa attuale, la quale dimostra chiaramente che non è (solo) sul piano della deterrenza sanzionatoria (già massima nell’attuale contesto) che si contrasta efficacemente la violenza di genere.
4. Il disegno di legge 1433, sull’introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime. Profili critici
4.1. Fatte queste premesse sulle condizioni alle quali un’incriminazione del femminicidio potrebbe avere un senso e un’utilità sul piano della politica criminale, in termini di colmatura effettiva di vuoti di tutela e di aumento della protezione delle vittime, proveremo ora ad analizzare il disegno di legge 1433 per valutare se esso, nell’attuale formulazione, possa rispondere a queste aspettative.
Dopodiché proveremo ad avanzare, in un’ottica propositiva, alcuni primissimi spunti per una possibile incriminazione della violenza di genere (e del femminicidio), che possa cogliere l’importante obiettivo storico-politico della rimozione dall’ordinamento di ogni residuo margine di tolleranza della violenza e della discriminazione legate al genere.
4.2. Il disegno di legge si compone di tre parti: una sostanziale, una processuale e una ordinamentale. La prima, costituita dagli articoli 1 e 7, è quella di maggiore pregnanza semantica in quanto introduce, all’articolo 577-bis del Codice penale, il delitto di femminicidio. La seconda, costituita dall’articolo 2, introduce invece alcune modifiche al codice di procedura penale, nel segno di un ampliamento dei diritti informativi, di partecipazione e di protezione delle vittime di reato. La terza, infine, costituita dagli articoli 3, 4, 5 e 6, introduce alcune modifiche all’ordinamento penitenziario e all’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero.
Ci si concentra, in questa sede, esclusivamente sulla parte sostanziale del provvedimento, l’incriminazione del femminicidio, con un breve accenno alla parte processuale.
4.3. L’introduzione del delitto di femminicidio, all’articolo 577-bis del Codice penale, è senza dubbio la disposizione che, in ragione di tutte le considerazioni sino ad ora espresse, crea maggiori perplessità e ha già incontrato, solo con l’effetto annuncio, una netta levata di scudi da parte dell’accademia.
Prima di esaminare, però, quelle che sono le effettive (almeno a parere di chi scrive) criticità della proposta normativa, va debitamente precisato che la forte resistenza espressa se non da tutta, quantomeno da gran parte della dottrina penalistica, non dipende esclusivamente dalla tipologia di formulazione prescelta, ma rivela un carattere pregiudizialmente contrario a ogni intervento normativo volto a regolare in modo specifico i casi di violenza di genere e, più in generale, ad ampliare i diritti e le garanzie delle vittime di reato.
Questa tendenza accademica vorrebbe giustificare tale resistenza culturale con una motivazione di tipo garantista, nel senso che si vede nel rifiuto della prospettiva di genere (intesa, per l’appunto, come un approccio di carattere scientifico e multidisciplinare alla lettura giudiziaria dei casi di violenza di genere) una sorta di “controlimite culturale” a difesa dei diritti e delle garanzie dell’imputato.
In questo modo, però, si finisce per confondere il garantismo penale ̶ che è tale solo se garantisce tutte le parti coinvolte nel processo penale e bilancia equamente i rispettivi diritti con l’interesse pubblico alla protezione dei beni giuridici con un “reo-centrismo” di carattere quasi ideologico; per questo, chi scrive sente di prendere nettamente le distanze da tale levata di scudi pregiudizialmente contraria alla criminalizzazione del femminicidio, e intende invece esporre rilievi critici che non investono l’opportunità, l’an di un intervento in materia (discendendo agevolmente dalle considerazioni finora espresse che interventi normativi ad hoc, che attuino la prospettiva di genere nel diritto penale, sono invece ritenuti necessari), bensì investono il come, il quomodo della costruzione dell’illecito, che è materia estremamente più complessa, proprio perché la costruzione di un illecito di questo tipo non conosce precedenti nel nostro ordinamento e andrebbe a costituire il primo atto politico inteso ad abbattere ufficialmente la gender neutrality del nostro sistema giuridico.
4.4. L’opzione scelta dal corrente legislatore per abbattere il glass ceiling del sistema penale italiano appare però – è bene dirlo subito in modo chiaro, per argomentare meglio, subito oltre, la preposizione – ancora fuori fuoco, non completamente adeguata allo scopo e quindi, inevitabilmente, destinata a deludere le importanti aspettative di un cambiamento storico in materia di diritti delle donne, paragonabile, come alcuni vorrebbero, alla riforma del diritto di famiglia del 1975.
Il nuovo articolo 577-bis, introdotto dall’articolo 1 del ddl 1433, prevede che chiunque cagiona la morte di una donna, quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo; mentre, fuori da questi casi, si applica il delitto di omicidio di cui all’articolo 575 del Codice penale.
Al delitto di femminicidio si applicano le già citate aggravanti speciali previste, per l’omicidio, agli articoli 576 e 577. Seguono poi alcune indicazioni specifiche sul bilanciamento tra circostanze, volte a stabilire una pena minima anche in caso di ricorrenza di attenuanti o di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti speciali (la pena non potrà in ogni caso essere inferiore a ventiquattro anni nel caso in cui ricorra una sola circostanza attenuante e non potrà essere inferiore a quindici anni quando ricorrano più circostanze attenuanti).
Fa infine da pendant all’articolo 1 la norma di coordinamento contenuta all’articolo 7, ove si precisa che in tutti i casi i cui la legge fa riferimento al delitto di omicidio, il riferimento si intende operato anche al femminicidio.
4.5. Il criterio scelto dal legislatore per strutturare il reato di femminicidio è un criterio “essenzializzante”, in quanto sceglie di ancorare la ragione dell’incriminazione specifica di femminicidio al sesso e al genere femminile della vittima. Un possibile dubbio letterale che si pone prima facie – in quanto il termine “donna” indica il genere, non il sesso biologico, con conseguente problematica interpretativa sull’inclusione delle donne trans che abbiano ottenuto la rettificazione del genere, da maschile a femminile, a seguito di un percorso di transizione (una problematica particolarmente importante in questa materia in quanto, come si è detto, l’omicidio di persone transessuali e transgender è una delle ipotesi tipiche di omicidio con movente di genere) – viene dissipato dal legislatore nella relazione accompagnatoria del ddl, ove si specifica che, ai fini dell’interpretazione della fattispecie, deve farsi riferimento alla “donna individuata quale bersaglio in quanto appartenente a quello specifico sesso” (p. 4), così chiarendo che l’uso del termine “donna” deve intendersi riferito, non disgiuntamente, al sesso biologico e al genere della vittima, che deve essere, in altre parole, una donna nata biologicamente femmina.
4.6. Non può non cogliersi, anche per la coincidenza cronologica tra i due provvedimenti, l’analogia del criterio essenzializzante adottato dal ddl con quello adottato dalla sentenza resa dalla Suprema corte del Regno Unito il 16 aprile 2025, nella causa For Women Scotland Ltd v The Scottish Ministers, che aveva appunto a oggetto l’interpretazione del termine Woman ai fini della corretta attuazione dell’Equality Act 2010, una normativa antidiscriminatoria varata dal legislatore scozzese e contenente alcune disposizioni di tutela antidiscriminatoria riservate alle donne e altre specificamente riservate alle persone trans.
L’interpretazione sostenuta dal governo scozzese che aveva varato la riforma, era quella di un criterio inclusivo, per il quale le donne trans che avevano ottenuto la rettificazione del sesso negli atti dello stato civile (gender reassignment), dovevano essere incluse, in quanto “donne” a tutti gli effetti in base alla procedura di rettificazione, nelle tutele antidiscriminatorie riservate alle donne.
La questione non era solo di principio ma involgeva effetti concreti, a cominciare dall’applicazione di una legge del 2018 che riserva “quote di rappresentanza” alle donne nei consigli di amministrazione, nonché in relazione a un’altra problematica, molto sentita anche a livello internazionale, relativa alla partecipazione delle donne trans alle competizioni sportive femminili.
In realtà, l’Equality Act 2010 non ignora la questione e prevede una disciplina specifica (Section 195) in base alla quale, pur in assenza di un generale divieto, per le donne trans, di partecipare alle competizioni femminili, è fatta salva la possibilità, per le organizzazioni sportive, di prendere provvedimenti mirati in relazione alla particolarità del caso concreto e in ragione del tipo di competizione, quando ciò sia necessario per assicurare l’equità della competizione o la sicurezza (ad esempio, nel pugilato) delle atlete.
Ciò nonostante, la Corte ha preferito adottare un criterio essenzializzante “secco” sancendo di fatto l’esclusione delle donne trans da ogni competizione femminile, adombrando in un passaggio molto sintetico e senza approfondimenti (§ 235 e 236 della decisione) che la deroga già normativamente prevista (Section 195) avrebbe potuto effettivamente consentire l’esclusione, con provvedimento adottato dalle organizzazioni sportive, di donne trans da alcune competizioni sportive femminili (e.g., il pugilato) a tutela delle altre concorrenti biologicamente donne, ma non era altrettanto certo che tale deroga fornisse una copertura legale a provvedimenti di esclusione adottati nei confronti degli uomini trans, cioè persone nate biologicamente femmine ma transitate al genere maschile, anche mediante terapia farmacologica a base di testosterone. In tali casi, infatti, gli organizzatori di competizioni sportive, proprio per restare in tema di pugilato, avrebbero potuto ritenere non sicuro per gli uomini trans gareggiare con uomini biologici, e avrebbero potuto ritenere necessario adottare nei loro confronti, e nell’interesse della loro stessa sicurezza, un provvedimento di esclusione dalla competizione maschile; ma, in questo caso, l’applicabilità della disciplina derogatoria di cui alla Section 195 era meno scontata ed era forte, per le organizzazione sportive, il timore di adottare provvedimenti bollati come discriminatori nei confronti degli atleti trans.
Il ragionamento (che, come si diceva, non viene sviluppato nella sentenza al di là di questo breve e generico passaggio) si dimostra per molti aspetti paradossale. In primo luogo, ad evitare il rischio che nei confronti di atleti trans possano essere adottati singoli provvedimenti discriminatori, si introduce, con il criterio del sesso biologico, una discriminazione generale e assoluta nei confronti di tutte e di tutti gli atleti trans; e, in secondo luogo, non si risolve la problematica di risulta: in che modo gli atleti e le atlete trans potranno gareggiare nelle competizioni sportive? Come verrà garantito il loro diritto a non essere discriminati nello sport se ne viene di fatto ammessa l’esclusione da tutte le competizioni?
Infatti, la Section 195 continua a essere uno strumento legale che consente l’esclusione delle donne trans dalle competizioni maschili, in quanto i trattamenti farmacologici volti ad abbattere la produzione di testosterone e di ormoni maschili potrebbero metterle in una condizione di eccessivo svantaggio, e quindi di pericolo, nell’affrontare, ad esempio in una gara di pugilato, un atleta uomo che non si sia mai sottoposto ad abbattimento ormonale. Oltre al fatto che resterebbe la problematica giuridica della possibile ammissione di persone che, in base al processo legale di rettificazione del sesso, sono considerate “donne” dall’ordinamento, a competizioni maschili.
Dall’altro lato, la sentenza ne ha sancito l’esclusione pregiudiziale, senza possibili eccezioni legate al caso concreto, dalle competizioni femminili.
Inoltre, la questione è apparsa innegabilmente strumentalizzata a livello politico da pregiudizi e stereotipi di genere che non si fermano alla distinzione del sesso biologico e colpiscono anche individui e individue che non hanno alcuna incertezza sessuale biologica e che non sono in transizione, ma che vengono ugualmente presi di mira per non essere abbastanza maschili o abbastanza femminili in base agli stereotipi di genere (così iterando, anche a livello istituzionale, gli stessi fenomeni di bullismo e cyberbullismo che si trovano negli ambienti scolastici).
Il caso simbolo di questo deliberato fraintendimento è quello della pugile algerina Imane Khelif, donna in senso biologico, non in transizione, che alle Olimpiadi di Parigi del 2024 ha correttamente gareggiato nelle competizioni femminili, ma è stata ugualmente presa di mira da politici e intellettuali a livello internazionale, in quanto la sua capacità atletica è apparsa immediatamente superiore alla media delle atlete concorrenti, traghettandola senza difficoltà all’oro olimpico, e questo l’ha resa bersaglio di un flusso d’odio, insinuazioni sulla sua presunta (e subito documentalmente smentita) transessualità o intersessualità, sorprendentemente anche da parte di molte sedicenti paladine dei diritti delle donne e della differenza sessuale, che invece avrebbero dovuto prenderne le difese, essendo chiaro che l’atleta, donna, è stata bersagliata da un flusso d’odio misogino.
4.7. La digressione sulla sentenza della Suprema corte inglese e sulle problematiche che ha aperto (assai maggiori di quelle che ha risolto) era necessaria per chiarire come un criterio essenzializzante, che ancori la tutela di genere esclusivamente al sesso biologico della vittima, non solo non raggiunge l’obiettivo di descrivere né di denunciare la sovrastruttura patriarcale di genere, ma anzi si presta, come il caso della pugile algerina ha dimostrato, a strumentalizzazioni che possono ritorcersi in danno alle donne stesse, biologicamente tali, che non aderiscono ai canoni della femminilità e alle correlate aspettative sociali stereotipate.
Basti sottolineare, per chiarire definitivamente il punto, che gli stessi fautori dell’essenzializzazione della differenza sessuale nel sesso biologico sono, a livello politico, spesso anche fautori di un ritorno a normative antiabortiste, in quanto l’essenzializzazione del sesso femminile finisce per assumere i caratteri di una “sacralizzazione” normativa della funzione procreativa della donna, con la conseguenza di rendere sub-valente alla “funzione materna” il diritto dell’individua ad autodeterminarsi in relazione alla sessualità e alla riproduzione.
4.8. Ma vi è di più. Se il criterio essenzializzante è sconsigliabile, per le esposte ragioni, quale criterio interpretativo del diritto civile antidiscriminatorio, esso è invece radicalmente incompatibile con un diritto penale antidiscriminatorio, quale l’incriminazione del femminicidio vorrebbe essere.
Quando si parla di diritto penale usato in funzione antidiscriminatoria, si intendono le fattispecie incriminatrici volte a tutelare il bene giuridico, di rango costituzionale, dell’uguaglianza, e che per questo criminalizzano la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio e gli atti di discriminazione, di violenza e di istigazione alla violenza, commessi contro determinate categorie di persone.
Il nostro Codice penale prevede una sezione (la I-bis del libro II) appositamente dedicata ai delitti contro l'eguaglianza, nella quale sono attualmente inseriti due soli articoli, il 604-bis e il 604-ter, in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa.
Parlare, in questo senso, di “diritto penale antidiscriminatorio” non deve però fuorviare l’attenzione dal fatto che siamo sempre nell’ambito del diritto penale puro, il quale deve essere retto dal principio costituzionale di legalità, con particolare riguardo agli aspetti della necessaria materialità della fattispecie (la quale deve tutelare un bene giuridico previsto nell’ordinamento e chiaramente riconoscibile come tale dai consociati) e della determinatezza del precetto penale (ciò è a dire che tanto il bene giuridico quanto la condotta che lo lede, o lo mette in pericolo, devono essere descritte in modo chiaro, sì da poter essere capite da ogni consociato e da poter essere oggetto di prova nel processo penale).
Fondare l’incriminazione del femminicidio esclusivamente sul criterio essenzializzante del sesso biologico della vittima, però, comporta un significativo scostamento dai precetti costituzionali di legalità, materialità e determinatezza.
In primo luogo, infatti, non è chiaro il bene giuridico che si intende tutelare perché l’accento sul sesso biologico nasconde, dietro l’apparente novità di rompere la gender neutrality del sistema, l’intenzione di restare di fatto nell’ambiguità politico-criminologica tipica dell’attuale assetto.
La causa della violenza di genere non risiede infatti in una ragione di ostilità pregiudiziale verso le caratteristiche biologiche della donna. La violenza di genere non è, in altre parole, una forma di “razzismo” nei confronti delle caratteristiche fisiche e biologiche delle donne. Anzi, questa impostazione è talmente sbagliata che è sufficiente notare, per destituirla di ogni possibile fondamento, che le donne non sono una etnia, una razza, una categoria di persone, bensì rappresentano la metà (forse leggermente di più) della specie umana attualmente presente sulla Terra.
La ragione della violenza di genere sta, invece, nella sovrastruttura di genere che è, come abbiamo visto, una sovrastruttura sociale di oppressione che, nell’aspirazione a mantenere un determinato tipo di ordine, impone agli uomini e alle donne canoni rigidi di pensiero e di comportamento (binarismo di genere, eteronormatività e subalternità di genere) e trova il modo, attraverso il sistema educativo, di fare assumere ai bambini e alle bambine delle convinzioni stereotipate, conformi a questi canoni rigidi, che ne condizionino il comportamento, prevalendo (in quanto maturati a livello inconscio sin dall’età infantile) sui messaggi formali di parità, inclusione e anti-subordinazione di genere che vengono veicolati nella superficie dell’ordinamento.
Abbiamo visto che la sovrastruttura sociale di genere, in molti Paesi, soprattutto occidentali, è stata superata nella sua versione più radicale, di ordine patriarcale puro (in Italia, ad esempio, il processo di “de-patriarcalizzazione” è iniziato a partire dal secondo dopoguerra ed è tuttora in corso) ma non è mai stata abbandonata del tutto, rivenendosi, sino a questo momento, una continuità della volontà politica di non smantellare i cardini dell’ordine patriarcale, facendoli piuttosto coesistere, nella versione attenuata di “retaggi”, con la progressiva affermazione di diritti umani che invece tendono, idealmente, verso il polo opposto, quello dello smantellamento integrale di tutti i sistemi di oppressione fondati sul genere, sulla razza e sul capitale.
4.9. I retaggi patriarcali, perpetrati dagli stereotipi educativi di genere, presenti in tutti i settori della cultura, dell’educazione e della pubblica amministrazione, si sono però rivelati generatori esponenziali di violenza, in quanto hanno creato nella convivenza civile una sorta di “incertezza anomica”: gli individui maschi crescono assorbendo dagli stereotipi di genere convinzioni e aspettative relativamente alle relazioni, intime e sessuali, con le donne, che poi vedono smentiti da assetti normativi formali che veicolano invece messaggi opposti, di parità di genere, pari opportunità, autodeterminazione sessuale e riproduttiva delle donne.
Molte storie di femminicidi, comprese quelle che nel periodo recente hanno colpito più di altre l’opinione pubblica (mi riferisco, in particolare, ai casi Tramontano e Cecchettin), sembrano mostrare la convivenza, nell’autore di reato (immune da qualsiasi infermità psichica, in pieno compos sui e lucidità mentale), di un inserimento sociale apparentemente adeguato al moderno contesto relazionale egualitario, con moti interiori che invece affondano in quei retaggi patriarcali inconsciamente assorbiti, in base ai quali l’autore di reato ha evidentemente sentito vacillare la propria identità maschile di fronte alla percepita impossibilità di accettare un rifiuto, un abbandono o un “sorpasso” sociale da parte della partner. Di fronte all’impossibilità, per essere chiari, di accettare la libertà della donna.
4.10. Nominare la violenza di genere significa, necessariamente, nominare e denunciare quei retaggi patriarcali. Significa, per il legislatore, assumersi la responsabilità politica di mettere in chiaro che l’ordine patriarcale non è più tollerabile in una società democratica, nemmeno nella versione ibrida e depotenziata del “retaggio”, perché anche in questa versione apparentemente depotenziata, esso si è rivelato un generatore formidabile di discriminazione e di violenza maschile contro le donne, anche nelle nuove generazioni.
Sotto il profilo della materialità della fattispecie, quindi, il legislatore deve avere innanzitutto chiaro che, per rompere effettivamente il sistema della gender neutrality del nostro sistema, non è sufficiente nominare il sesso biologico della vittima di violenza di genere e, anzi, ciò solo può essere fuorviante.
Deve essere nominata e descritta la violenza di genere in quanto tale: le condotte di controllo, di violenza fisica e psicologica, le discriminazioni economiche e sociali che ancora allignano nel nostro sistema sociale e che devono essere messe, con chiarezza e senza ambiguità, al bando come tali.
Limitandosi a focalizzare il sesso biologico della vittima, invece, il legislatore del ddl 1433 si sottrae ancora una volta alla responsabilità di fissare chiaramente, come obiettivo politico, il superamento radicale e definitivo dei retaggi patriarcali e, così come i legislatori del passato, si nasconde dietro tòpoi, situazioni tipo, in cui si alimenta la violenza di genere, senza nominarla per quello che è.
Il fatto che nella stragrande maggioranza (ma non nella totalità, questo è sempre bene ricordarlo) la vittima della violenza di genere sia una donna è, infatti, un’altra ovvia conseguenza del funzionamento della violenza di genere, così come lo è il fatto che nella stragrande maggioranza dei casi questa donna sia o sia stata legata all’autore di reato da una relazione affettiva, da convivenza o matrimonio; e altrettanto il fatto che questa donna, prima di essere uccisa, sia stata, nella stragrande maggioranza dei casi, vittima di abusi fisici, sessuali, psicologici o economici da parte dello stesso uomo che poi l’ha uccisa.
Siamo sempre “a valle” del fenomeno, a osservarne le conseguenze e a cristallizzarle come indici di presunzione della violenza (cum hoc ergo propter hoc), ma siamo ancora fuori dalla messa a fuoco delle cause della violenza di genere, degli stereotipi che la alimentano e delle condotte tipiche di controllo, abuso e discriminazione che la connotano; siamo ancora ben lontani dalla messa a fuoco del sistema di oppressione di genere tuttora attivo e tollerato nella nostra società.
E di ciò deve essersi reso conto anche il legislatore della proposta che, infatti, dopo avere illustrato il criterio essenzializzante su cui si basa il proprium della fattispecie (l’uccidere una “donna in quanto donna”) aggiunge alcune specificazioni che cercano evidentemente di avvicinare l’interprete all’obiettivo, là dove si specifica “o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”.
Questa specificazione, intanto, è un’evidente tautologia nell’ambito del delitto di omicidio (perché non bisogna dimenticarsi che la fattispecie si limita a questo solo aspetto, quello dell’omicidio della vittima): qual è infatti quell’omicida che uccide dolosamente una persona senza voler reprimere l’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà e l’espressione della sua personalità, dal momento che le sta togliendo la vita?
Il punto che ancora manca è perché? Da dove nasce quel movente a reprimere l’esercizio dei diritti e delle libertà delle donne e l’espressione della loro personalità, e perché questo rende il fenomeno della violenza maschile contro le donne tutt’affatto diverso dalla violenza maschile tra uomini, nel cui ambito, pure, chi uccide intende reprimere l’esercizio dei diritti, delle libertà e l’espressione della personalità della vittima?
4.11. Siamo di nuovo nel vuoto di chiarezza, perché la dimensione strutturale dell’oppressione di genere e il suo legame con il contesto di violenza di genere e con il movente di genere, che connotano il singolo femminicidio, non ci sono; non sono ricavabili in alcun modo dalla norma e sono rimesse, ancora una volta, alla supplenza della giurisprudenza, che sarà chiamata a vestire “ab exstrinseco” la fattispecie, facendovi entrare la dimensione strutturale dell’oppressione di genere, che nella norma è assente, mutuandola dagli studi sociologici e criminologici di genere con cui la fattispecie, invece, non dialoga.
Questo, ovviamente, se e quando la giurisprudenza avrà gli strumenti e la volontà di farlo.
Perché una norma non chiara comporta sempre un aumento della discrezionalità interpretativa del giudice, sì che è assolutamente prevedibile che, come già accade per altri reati c.d. di Codice rosso (deputati a contrastare la violenza di genere prima dell’omicidio, ma sempre restando al di fuori di una esplicita prospettiva di genere), si confronteranno anche sulla nuova fattispecie un orientamento giurisprudenziale “progressista”, che cercherà di introdurre per via interpretativa la violenza di genere come fenomeno sociale, strutturale e oppressivo; e un orientamento “conservatore” che invece, non volendo andare oltre il contenuto della norma (il c.d. original intent), si troverà di fronte a un evidente difetto di determinatezza della fattispecie, che ne comporterà la disapplicazione, con conseguente ritorno alla fattispecie omicidiaria generica: ipotesi del resto espressamente disciplinata dalla stessa nuova fattispecie («Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575») quale facile viatico per una sorta di interpretatio abrogans.
Sarebbe infatti molto difficile provare, nel processo penale, un movente psicologico tutto interiore all’autore di reato, di odio della donna in quanto biologicamente tale, quando è chiaro che l’odio o il movente di genere, che stanno alla base del femminicidio, non si esprimono sul piano della repulsione biologica per la donna, bensì sul piano dell’odio sociale verso una donna che si sottrae alle aspettative che l’autore di reato ha maturato su di lei e sul comportamento che essa dovrebbe avere nei suoi confronti, nell’ambito di una relazione tra i sessi.
In questo caso, quindi, oltre alla generale impossibilità di provare oggettivamente moti interiori e psicologici complessi, già affermata dalla Corte costituzionale quando ha dichiarato, con la sentenza 96 del 1981, l’incostituzionalità del reato di plagio, per difetto di determinatezza, si aggiunge il fatto che questo moto interiore su cui è basata la fattispecie non coglie assolutamente la dimensione strutturale della violenza di genere, e per questo rischierebbe anche di sviare l’accertamento processuale dalle vere ragioni che determinano la violenza di genere e che hanno, come è il caso di ripetere ancora una volta, una base interamente sociale e non esclusivamente individuale né tantomeno biologica.
4.12. In conclusione, assumersi la responsabilità politica di infrangere la gender neutrality del sistema sociale e normativo significa, per il legislatore, assumersi la responsabilità, senza più scorciatoie, presunzioni e fictio iuris, di descrivere la sovrastruttura sociale dell’oppressione di genere e di fissare come obiettivo politico (e conseguente “bene giuridico” guida di una eventuale normativa penale ad hoc) il suo radicale e definitivo smantellamento.
5. Proposte per una efficace incriminazione della violenza di genere e del femminicidio nel sistema penale italiano
5.1. Acclarato, quindi, che prima di intervenire con una normativa ad hoc sulla violenza di genere, il legislatore politico deve essere sicuro del proprio obiettivo, e cioè che lo smantellamento dei retaggi patriarcali, legati alla sovrastruttura sociale oppressiva di genere, sia realmente ciò che vuole fare, possiamo ora provare a tracciare qualche possibile e primissima indicazione di massima, su come tale normativa possa essere costruita.
Quello che è chiaro è che la normativa in questione, per rompere la voluta ambiguità politica che ha contrassegnato, sino ad ora, tutti gli interventi in materia, dovrebbe descrivere espressamente il contesto della violenza di genere e il movente di genere.
Questa premessa già ci dice che probabilmente una fattispecie autonoma di femminicidio non è, di per sé sola, lo strumento adatto, perché essa si limita all’atto dell’uccisione della vittima, che sta “a valle” e non “a monte” della violenza di genere, di cui costituisce l’atto finale e ultimo.
Una strada più efficace potrebbe essere quella di inserire nella citata sezione I-bis del libro II del Codice penale, dedicata ai delitti contro l'eguaglianza, alcune disposizioni specifiche che, seguendo quelle dei citati articoli 604-bis e 604-ter (in materia di discriminazione razziale etnica e religiosa), dettino una normativa specifica in materia di discriminazione e di violenza di genere.
Una prima norma potrebbe essere rubricata proprio violenza di genere e potrebbe contenere una fattispecie incriminatrice che, in forza di una clausola di sussidiarietà espressa (del tipo «salvo che il fatto costituisca più grave reato»), criminalizzi, descrivendoli con chiarezza e determinatezza, i seguenti aspetti.
Prima di tutto, le condotte tipiche della violenza di genere nell’ambito di una relazione, che non deve essere necessariamente una relazione affettiva stabile, ma può anche essere una semplice frequentazione, un’amicizia o una conoscenza (contesto della violenza di genere).
In secondo luogo, l’odio di genere e i motivi di genere (movente di genere), rimandando conseguentemente alla (o incorporando, in una apposita norma definitoria, la) definizione di genere, la quale ‒ va chiarito a scanso di equivoci ‒ è una definizione giuridica già presente e vincolante nel nostro ordinamento, in quanto contenuta all’articolo 3 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota semplicemente come Convenzione di Istanbul, ove si definisce espressamente la categoria del genere come «i ruoli, i comportamenti, le attività e le attribuzioni socialmente costruiti che una data società considera appropriati per le donne e gli uomini».
La Convenzione di Istanbul è stata ratificata dall’Italia con la Legge 27 giugno 2013, n. 77, entrata in vigore il 2/07/2013. Inoltre, l’Unione europea ha aderito anche in proprio alla Convenzione, che è stata firmata dal Consiglio nel 2017, e il 1° giugno 2023 ha concluso, con due decisioni del Consiglio, il processo di adesione alla Convenzione di Istanbul. Pertanto, in forza della doppia adesione, dell’Italia e dell’Unione europea nel suo complesso, la Convenzione deve ritenersi a tutti gli effetti insita e vincolante nell’ordinamento giuridico italiano.
Infine, la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio di genere, nonché la commissione o l’istigazione a commettere atti di discriminazione o di violenza per motivi di genere, con una regolamentazione specifica dei social e di tutte le tecnologie dell'informazione e della comunicazione (TIC).
Sotto il primo profilo, quello delle condotte, potrebbero essere descritte in modo chiaro (e quindi ampiamente suscettibile di essere provato nel processo) le condotte ricorrenti nel contesto della violenza di genere, quali il controllo dei movimenti, delle frequentazioni e delle comunicazioni della vittima, i pedinamenti, il controllo economico nell’ambito familiare o di coppia, gli abusi psicologici (ad esempio le accuse di avere relazioni con altri uomini, il continuo apostrofare la vittima con epiteti sessisti e sminuenti in relazione al genere, come “puttana”, “troia” e simili, o le minacce di atti etero o autolesivi come forma di non accettazione di un rifiuto o di un abbandono da parte della vittima), commessi in persona e via social, e poi gli abusi fisici e ovviamente quelli a sfondo sessuale.
E queste stesse condotte, una volta accertate, possono chiaramente fungere anche da chiari indici esteriori della sussistenza di un movente di genere, perché sono in re ipsa espressive di convinzioni stereotipate del soggetto agente sui ruoli, i comportamenti, le attività e le attribuzioni socialmente costruiti (stereotipi di genere) che esso soggetto agente ritiene adeguati per donne e uomini e che, quindi, ritiene di potere applicare e pretendere in una relazione tra sé stesso, in quanto uomo, e una donna, così imprimendo alla relazione di coppia, e/o all’interno della famiglia, l’asimmetria di potere tipica dei ruoli e degli stereotipi di genere.
Il vantaggio di tale diposizione potrebbe consistere nel reale (e non meramente simbolico) aumento della tutela penale, in quanto, in forza della clausola di sussidiarietà espressa, si andrebbe ad assicurare copertura ai tanti casi di violenza di genere che restano oggi impuniti in quanto vengono ritenuti non sufficienti (in sede di archiviazione del procedimento, di sentenze di non luogo a procedere e di assoluzioni processuali) per integrare, ad esempio, i reati di Maltrattamenti, Atti persecutori e Violenza sessuale (i.e., i più ricorrenti tra i c.d. reati di Codice rosso), per ritenuta carenza di alcuni dei requisiti tipici di tali fattispecie (e.g., l’abitualità nel reato di Maltrattamenti, l’evento del reato in quello di Atti persecutori e il raggiungimento della soglia di offensività minima, che rende in alcuni casi problematica la distinzione tra violenza e molestia sessuale, ad esempio nei casi di approccio sessuale invasivo e volgare non esitato in un vero e proprio contatto fisico).
5.2. Un’altra disposizione potrebbe invece introdurre un’aggravante speciale per tutti i reati (a cominciare da quelli di Maltrattamenti, Atti persecutori e Violenza sessuale) commessi in contesto di violenza di genere, per odio di genere e/o con movente di genere, e cioè in base a quegli stessi criteri costruiti su parametri sociali (stereotipi di genere) circa il comportamento, le azioni e i ruoli attribuiti alle donne nella società.
Potrebbe essere, questa, un’aggravante destinata ai reati puniti con pena diversa dall'ergastolo mentre, per arrivare al femminicidio, potrebbe essere introdotta, all’articolo 576 o 577 del Codice penale, un’aggravante specifica per i casi in cui l’omicidio risulti commesso in un contesto di violenza di genere, per odio o con movente di genere, rinviando alle relative disposizioni e rimettendo quindi al giudice la ricognizione e il bilanciamento delle diverse circostanze speciali concorrenti (quelle già previste e quella di nuova introduzione).
5.3. Non si va oltre rispetto a questa minima ed embrionale traccia di come potrebbe essere costruito il trattamento penale della violenza di genere, in quanto sarebbe evidentemente fuori luogo in questa sede.
Ma si è voluto comunque dare una prima e minimale forma a questa possibilità teorica, per dimostrare che, se c’è una volontà politica reale, determinata e consapevole del legislatore, l’introduzione di una normativa penalistica ad hoc sulla violenza di genere e sul femminicidio non solo è possibile, ma avrebbe anche un portato di utilità reale e non meramente simbolica, in termini di chiarificazione e implementazione di obiettivi politici di contrasto dell’oppressione di genere, di smantellamento dei retaggi patriarcali e di protezione delle vittime di discriminazione e di violenza di genere.
6. La parte processuale del ddl 1433
6.1. Solo un accenno, infine, alle modifiche processuali introdotte dal ddl 1433 che, come si è accennato, vanno ad ampliare il catalogo dei diritti informativi (e.g., in tema di patteggiamento), partecipativi (e.g., in tema di diritto della persona offesa di essere sentita personalmente dal pubblico ministero) e di protezione delle vittime.
Le disposizioni volte ad aumentare i diritti di informazione e di partecipazione non sollevano particolari problemi (salvo il problema, per quanto riguarda l’audizione personale della vittima da parte del pubblico ministero, dell’esigibilità in concreto di tale adempimento, considerato il numero di iscrizioni), inserendosi in una tendenza legislativa, implementata anche nella citata ultima Direttiva 1385 del 2024, ad assicurare alle vittime di reato un proprio statuto di diritti, di facoltà e di garanzie che coesistano e si bilancino, nel corso delle indagini e del processo penale, con quelle dell’imputato.
6.2. Sotto il profilo della protezione della persona offesa, invece, suscita forti perplessità la modifica dell’articolo 275 del codice di procedura ̶ che, contiene, al comma 3, in riferimento a reati particolarmente gravi (in particolare, quelli in materia di terrorismo e di criminalità organizzata), la previsione che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, è automaticamente applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari (c.d. «doppia presunzione legale, di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia in carcere»), inserendo in questa “doppia presunzione” anche alcuni dei delitti di codice rosso (e.g., i reati di maltrattamenti e di atti persecutori).
In questo modo, si assimilano alcuni reati di Codice rosso ai reati di mafia e terrorismo, contenuti nella prima parte del comma 3 dell’articolo 275, piuttosto che agli altri reati, fra i quali i delitti di violenza sessuale, contenuti, invece, nella seconda parte dell’enunciato e per i quali vale una presunzione legale “attenuata”, nel senso che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, è applicata la custodia cautelare salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Questa previsione, però, proprio con riferimento ai reati di genere appare particolarmente irragionevole alla luce del fatto che esistono misure cautelari non custodiali (delle quali si presumerebbe contraddittoriamente l’inadeguatezza) che sono state introdotte proprio per questo tipo di reati (si tratta, come è noto, delle misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla persona offesa, di cui agli articoli 282-bis e ter del codice di procedura) e che, proprio in quest’ottica, sono state oggetto di un recente potenziamento da parte della legge n. 168 del 2023, il che si pone in totale contrasto con la volontà, che sembra recepita dal ddl 1433, di una sostanziale dismissione di questi strumenti a favore di una “opzione carceraria” massiva, la quale, oltretutto, non sembra minimamente confrontarsi con il problema del sovraffollamento carcerario e delle condizioni di reclusione, che costituisce notoriamente una delle maggiori urgenze del nostro sistema penale.
6.3. Oltretutto, come illustra il contributo che segue, a cura della Dott.ssa Rotolo, l’associazione tra tutela delle vittime di violenza di genere e approccio punitivo e tipicamente carcerario, appare distonica rispetto al percorso culturale degli studi sociologici e criminologici di genere, nei quali si è sviluppata anche la vittimologia di genere, che ha avuto un ruolo essenziale nella graduale presa di consapevolezza pubblica della dimensione strutturale della violenza di genere, e che ha sempre posto l’accento sui diritti e sui bisogni delle vittime, che non coincidono con l’interesse meramente punitivo dello Stato.
6.4. Piuttosto, un’efficace previsione per l’aumento della protezione delle vittime potrebbe consistere in una soluzione normativa sui protocolli di risk assessment, nel senso della possibile introduzione, nella legislazione procedurale in materia cautelare, di un riferimento qualificato all’utilizzo di criteri ufficiali per la valutazione del rischio per le vittime di reato, eventualmente rimettendo l’individuazione e il periodico aggiornamento di tali criteri a una fonte sub-primaria secondo il modello della c.d. «norma penale in bianco», lasciando così spazio a un’integrazione tecnica della norma che ne consenta il continuo aggiornamento, rimesso all’instaurazione di una commissione ministeriale permanente di studio che mutui i caratteri della continuità e della multidisciplinarietà dall’esperienza di altri paesi. Una delle più note e studiate è l’esperienza canadese, nella quale è stato elaborato il protocollo S.A.R.A. (Spousal Assault Risk Assessment), elaborato per la prima volta nel 1995, nel quale sono stati individuati alcuni indicatori tipici della violenza di genere per stimare i livelli di rischio della recidiva e dell’escalation della violenza.
7. Incoerenza assiologica tra la prospettiva carcero-centrica dell’ergastolo e la prospettiva vittimologica di genere *
7.1. Un’ultima riflessione merita di essere condotta a proposito della scelta sanzionatoria della pena dell’ergastolo prevista per la nuova ipotesi di femminicidio. Innanzitutto, è opportuno sottolineare come tale pena fosse in realtà già prevista per la quasi totalità di casi che oggi sarebbero ricompresi nel nuovo articolo 577 bis c.p.: infatti, già nell’attuale normativa, tramite il combinato disposto degli articoli 575 e delle aggravanti previste agli artt. 576 e/o 577 c.p., è possibile giungere alla pena dell’ergastolo, come ben evidenziato nel §3.
Queste ipotesi di omicidio sono aggravate proprio perché si prevede l’uccisione al culmine di una situazione di violenze già in corso oppure come risultato di un atto di discriminazione nei confronti di una persona con cui si è o si è stati affettivamente legati: non si può negare, come confermano anche le relative statistiche, che nella quasi totalità di questi casi si tratta dell’uccisione di una donna da parte di un uomo, spesso nel contesto di una relazione affettiva.
Non deve sorprendere, dunque, la scelta della pena dell’ergastolo per il nuovo articolo 577 bis c.p., in quanto scelta coerente con l’impianto sanzionatorio vigente, essendo gli stessi fatti già puniti con la pena perpetua[8]. Quello che spinge a riflettere è l’effettiva necessità e utilità di una sanzione così grave, la massima ad oggi prevista nel nostro ordinamento, e il suo utilizzo come “slogan” di una politica criminale che sempre di più presta il fianco ad un dilagante populismo[9].
7.2. Innanzitutto, per quanto la scelta dell’ergastolo sia sistematicamente coerente, non si può tacere il fatto che si tratti, in ogni caso, di una risposta sanzionatoria che è da sempre oggetto di ampi e mai sopiti dibattiti. La pena dell’ergastolo è stata, infatti, definita «la più importante questione penalistica nell’odierna agenda europea[10]».
È opportuno, in questa sede, ribadire, seppur brevemente, le principali criticità che da sempre vengono sollevate a proposito della pena perpetua[11] e che coinvolgono implicazioni giuridiche, sociali, politiche ed etiche; infatti, si è fin da subito posto il dubbio sulla compatibilità dell’ergastolo con i principi costituzionali e, in particolare, con la funzione rieducativa della pena e con il divieto di trattamenti inumani e degradanti, sanciti dall’art. 27, comma terzo, della Costituzione. Ci si è chiesti, dunque, come una pena senza un termine possa avere quale scopo ultimo quello di consentire al condannato un progressivo reingresso nella società civile e se sia un trattamento rispettoso della dignità umana recludere una persona fino al termine della sua vita. Senza ripercorrere il complesso iter svolto dalla Corte costituzionale in merito alla compatibilità della pena perpetua con i principi costituzionali, è opportuno sottolineare quale sia stato il punto di approdo di tale giurisprudenza: a partire dalla sentenza 264 del 1974, la Corte costituzionale si è sempre espressa nel senso della compatibilità della pena dell’ergastolo con l’art. 27 comma terzo, Cost.[12], facendo leva sul rimedio della liberazione condizionale in un primo momento, e poi sull’estensione agli ergastolani dei benefici penitenziari (permessi premio, semilibertà e liberazione anticipata). In questo modo, si è sostanzialmente affermata la legittimità di tale pena, solo nella misura in cui non fosse effettivamente perpetua: il fatto che l’ergastolano possa intraprendere un percorso di progressiva risocializzazione per sperare di ottenere, quale ultimo beneficio, la liberazione condizionale, rende la pena dell’ergastolo rispettosa del principio rieducativo.
È quanto affermato anche dalla giurisprudenza della Corte Edu, che a partire dalla sentenza Vinter e altri c. Regno Unito del 2013[13], ha in più occasioni ribadito che la pena dell’ergastolo è compatibile con l’art. 3 della CEDU e, quindi, con il divieto di trattamenti inumani e degradanti, solo se gli ordinamenti nazionali prevedono degli strumenti per renderla in concreto riducibile. Questi strumenti devono essere fin da subito conoscibili dal condannato, il quale deve sapere quali sono le condizioni per accedervi; inoltre, deve essere garantito anche un esame giurisdizionale della richiesta di revisione della pena in caso di diniego all’accesso ad uno dei benefici. È stato riconosciuto, in questa circostanza, un vero e proprio «diritto alla speranza»: l’ergastolano deve poter sapere fin dall’inizio dell’esecuzione della pena come orientare il proprio comportamento per poter sperare, da ultimo, nella scarcerazione[14].
7.3. Nonostante, dunque, la giurisprudenza costituzionale e sovranazionale abbiano permesso di compiere dei passi avanti per garantire anche agli ergastolani un trattamento rispettoso del principio rieducativo e della dignità umana, i dubbi in merito a una piena compatibilità dell’ergastolo con il vigente assetto costituzionale rimangono. Innanzitutto, la dottrina si è fin da subito mostrata critica rispetto alla giustificazione fornita dalla Corte costituzionale, in quanto ci si troverebbe di fronte ad una contraddizione giuridica, una sorta di ossimoro, poiché la Corte non è mai entrata nel cuore della questione, ma si è limitata a ritenere legittimo l’ergastolo solo perché non è mai, almeno formalmente, una pena irriducibile. L’obiettivo ultimo della riflessione giuridica non dovrebbe essere quello di trovare degli “stratagemmi” per rendere la pena perpetua il più “umana” possibile[15]; affrontare la questione della pena perpetua, significa tornare alle origini dello Stato di diritto e chiedersi, appunto, se lo Stato ha il diritto di prevedere nel suo assetto legislativo una pena eterna, se ha il diritto di privare una persona della propria libertà personale fino alla fine dei suoi giorni. Questa prerogativa sembra scontrarsi con uno dei principi cardine su cui si fonda lo Stato di diritto, per come lo concepiamo noi, ossia la limitazione del potere, in particolare del potere punitivo. È opportuno ricordare, infatti, che lo Stato costituzionale moderno nasce proprio sulla spinta dell’esigenza di disciplinare e limitare il potere degli organi statali: le costituzioni liberali, laiche e democratiche riconoscono e garantiscono non solo la separazione dei poteri, ma anche la loro limitazione reciproca. E la pena perpetua, che è per sua natura infinita, si colloca al di fuori del diritto in quanto incarna un potere a sua volta illimitato: è da questo assunto che cambia la prospettiva attraverso cui si guarda all’ergastolo come pena ingiusta «non perché contrasta con il senso di umanità, ma perché non può esistere proprio, è un non diritto, un diritto senza limiti»[16]. La pena perpetua induce ad affrontare il delicato tema della violenza del potere punitivo, un potere che di certo appartiene di diritto allo Stato, ma che è inteso ancora in un’ottica prevalentemente, se non esclusivamente, punitiva e repressiva che porta avanti quella visione fondata su rapporti di forza e sull’oppressione del più debole (in questo caso il condannato ergastolano) di fronte al più forte (in questo caso lo Stato, detentore dello ius puniendi)[17].
7.4. La logica retributiva tradizionale - ancora fortemente in auge se si analizza la tendenza delle novità normative in campo penale degli ultimi anni, novità tutte fondate su un allargamento dell’area di competenza del penale e un inasprimento generale delle pene[18] – si scontra però con la realtà fattuale del suo fallimento: alla politica della “tolleranza zero” non seguono, empiricamente, riscontri che ne dimostrino l’efficacia. Viene così accantonata l’ottica risocializzatrice per lasciare spazio a politiche criminali che si servono della paura della criminalità e della ricerca della sicurezza quale arma di persuasione e di legittimazione politica. Ed è evidente che lo strumento dell’intervento penale sia il migliore per incanalare questa “emotività” in quanto affida alla pena la pretesa (illusoria) di costituire un punto fermo il cui compito sarebbe quello di «stabilizzare e incarnare la giustizia in una sorta di mitica, e in ogni caso terribile, ricerca dell’ordine e della pulizia»[19].
7.5. Tuttavia, la logica securitaria è incapace di portare a termine questo compito in quanto pretende di risolvere un problema complesso fornendo una risposta facile e immediata. Questo è evidente nell’ipotesi del femminicidio: l’introduzione di un reato ad hoc, con la previsione di un inasprimento sanzionatorio (che poi abbiamo visto non essere un vero e proprio inasprimento) non è accompagnato da politiche e interventi extra-penali che possano permettere effettivamente di fornire delle risposte durature e lungimiranti all’allarmante fenomeno della violenza maschile contro le donne. Questo perché non vi è l’impegno, prima politico e poi sociale, di comprendere la realtà del fenomeno e, quindi, comprendere i fattori crimino-genetici che permetterebbero di spiegare il comportamento degli autori di questi gravi crimini. Per quel che riguarda la violenza contro le donne (e il femminicidio è solo la massima espressione di tale violenza che in realtà si rinviene in molteplici altre condotte solo all’apparenza meno gravi) sembra ancora mancare la volontà politica di comprendere effettivamente quale sia il sostrato culturale da cui nasce questo fenomeno, come ben illustrato nei paragrafi precedenti. Finché non si raggiungerà la consapevolezza che il fenomeno della violenza contro le donne nasce e si alimenta proprio in ragione della sovrastruttura di genere, in una società fortemente maschilista e patriarcale, una società in cui le discriminazioni fondate sul genere appartengono a tutti, in quasi ogni comportamento della nostra quotidianità, ogni intervento meramente repressivo e retributivo si rivelerà in partenza destinato a fallire. Sarebbe necessario un impegno complessivo - e non solo del sistema giustizia strettamente inteso, ma anche delle istituzioni sociali a partire dai luoghi di formazione e istruzione – per comprendere, innanzitutto, di essere immersi costantemente in quella che abbiamo definito sovrastruttura di genere per poi, in secondo luogo, fornirsi di strumenti per riconoscerla e, da ultimo, superarla. È chiaro che sia un percorso estremamente complesso, una sorta di “rivoluzione copernicana”, in quanto coinvolgerebbe non solo il sistema giustizia, ma l’intera costruzione sociale, per così come si è strutturata fin dalle primissime formazioni sociali. Cionondimeno, è un percorso che deve essere intrapreso il prima possibile, per evitare che questa forma così brutale di violenza prosegua e si espanda. Questo disegno di legge, per come è stato presentato, sembra incentrato sul “pugno duro” della repressione, mettendo in primo piano, ancora una volta, il mero intervento sanzionatorio. Un’occasione sicuramente mancata, ma che potrà essere approfondita in sede di discussione parlamentare, per dare spazio ad una riflessione nel tentativo, appunto, di comprendere la realtà fattuale del fenomeno e valutare, nel caso, ulteriori e concorrenti strumenti per reagire in modo coerente, effettivo e utile a tale fenomeno.
7.6. Si ritiene, a parere di chi scrive, che un aiuto in questo senso può essere offerto dall’analisi delle istanze provenienti dalla vittimologia. Spesso, infatti, si cerca di giustificare questo ricorso alla repressione in quanto darebbe seguito alle richieste avanzate non solo dalla comunità, spaventata da tale brutale criminalità, ma anche dalle stesse vittime di reato (e dai loro familiari); si sostiene, infatti, che tale politica criminale accolga la richiesta di ascolto e aiuto proveniente dalle vittime, essendo diventato uno degli scopi dell’intervento penale proprio la tutela di esse.
È infatti innegabile che il cosiddetto paradigma vittimario, sulla spinta della normativa sovranazionale, sia entrato a pieno diritto nel nostro ordinamento sia di diritto sostanziale (si pensi alle novità in tema di giustizia riparativa, introdotte a partire dalla Riforma Cartabia) che processuale; la vittima ha progressivamente acquisito un ruolo di co-protagonismo all’interno della vicenda processuale perché si sta lentamente acquisendo l’idea che il reato ancora prima di essere violazione di una norma giuridica, rappresenta una violazione della convivenza sociale e, quindi, «violazione delle persone e delle relazioni interpersonali, in una parola è violazione dei diritti delle vittime[20]» e, in quanto tale, questi diritti devono trovare uno spazio di riconoscimento nell’ambito dell’intervento penale che non può più ciecamente ignorarne la portata.
Tuttavia, spesso ci si imbatte in un pericoloso equivoco, ossia far coincidere le richieste legittime di tutela e di riconoscimento provenienti dalle vittime con il fenomeno del populismo penale ormai dilagante. Se da un lato può essere vero che nella collettività, e magari anche in alcune vittime di reato, può essere presente una componente di emotività e irrazionalità, dall’altro lato occorre ribadire con fermezza che l’intervento penale non deve raccogliere queste istanze; o meglio, farlo tramite il ricorso ad una pena esclusivamente afflittiva si dimostra inevitabilmente fallace. Tuttalpiù, la vittimologia ci insegna che nella maggior parte dei casi, ad un’iniziale richiesta di vendetta - alimentata appunto da una emotività spesso dirompente - si accompagnano, successivamente, istanze diverse. In particolare, la vittima chiede riconoscimento: riconoscimento di quello che è successo e, quindi, del torto che ha subito; riconoscimento della sua verità che include gli stati d’animo che ha attraversato durante l’intera vicenda; in poche parole, la vittima chiede il riconoscimento del suo status vittimario. Inoltre, si chiede la predisposizione di strumenti di tutela, di protezione e di supporto specifici che permettano, non solo di prevenire i crimini, ma di consentire alla vittima, all’esito di un percorso strutturato, di uscire dallo status vittimario e di acquisire gli strumenti affinché quello che è successo non accada più, e di riacquisire la piena dignità sociale. Quello che fondamentalmente si chiede è un cambiamento radicale del sistema giustizia così come strutturato oggi: si chiede un sistema che non sia più basato su dinamiche oppressive-repressive, dinamiche di forza, potere e violenza, che vedono il carcere come la soluzione ottimale, dinamiche che rispecchiano, anche in questo caso, proprio la sovrastruttura di genere in cui siamo immersi; si aspira ad un sistema che ponga in primo piano, non l’afflizione, bensì la risoluzione, reale e duratura, del conflitto. E questo, è evidente, deve avvenire anche tramite il ricorso a strumenti nuovi e diversi, rispetto a quelli tradizionali; strumenti che in parte possono essere offerti dalle esperienze di restorative justice oggi in atto in diversi paesi.
7.7. Nell’ambito della violenza maschile contro le donne si deve riconoscere che importanti passi in questa direzione sono stati già compiuti: si pensi, ad esempio, all’apertura di diversi centri antiviolenza a cui le donne possono rivolgersi per chiedere protezione e per essere sostenute, eventualmente, nel percorso legale che si sceglierà di intraprendere; ancora, alla formazione specifica da conseguire in materia dagli operatori che a vario titolo (forze dell’ordine, operatori sanitari, avvocati, magistrati) entrano in contatto con donne vittime di violenza; alle norme processuali che permettono l’audizione in forma protetta delle vittime “vulnerabili” e la predisposizione di misure cautelari specifiche per i reati del Codice rosso. La direzione segnata da questi molteplici interventi è sicuramente corretta, in quanto mostra una reazione lungimirante e razionale dell’ordinamento, poiché coinvolge non solo il circoscritto settore del penale, ma chiama in causa la società civile a più livelli.
Il disegno di legge sul femminicidio sembra segnare una battuta d’arresto rispetto al percorso intrapreso; la ragione della pena dell’ergastolo - non accompagnata da ulteriori e diversi interventi, anche extra-penali - sembra proprio rivenirsi nell’utilizzo strumentale e simbolico del diritto penale (non a caso, infatti, è stato presentato l’8 marzo in occasione della Giornata internazionale della donna), un diritto penale che solo all’apparenza si fa portatore delle esigenze delle vittime, esigenze che in realtà rimangono, ancora una volta, inascoltate. Questi paradigmi repressivi finiscono per annullare i reali bisogni di giustizia delle vittime e della società tutta. Il rischio incombente è che queste istanze inascoltate finiscano per “accontentarsi” del mero strumento repressivo, che viene mostrato non solo come extrema ratio, ma come unica soluzione ammessa; ci si deve subito, dunque, porre al riparo da questa eventualità ribadendo che, fintanto che non ci sarà una sincera riflessione sulle ragioni del fenomeno della violenza di genere – riflessione che deve per forza passare anche attraverso strumenti extra-penali -, qualsiasi intervento meramente repressivo si rivelerà inefficace: anche in questo caso «il diritto penale ha di nuovo scelto la scorciatoia inefficiente della facile, momentanea, simbolica rassicurazione collettiva[21]».
* Questo paragrafo è a cura della Dott.ssa Alessia Rotolo, dottoranda di diritto penale presso l’Università di Milano Bicocca.
[1] V., sull’uso della violenza di genere come arma di guerra, L. GOISIS, Giustizia penale internazionale e violenza di genere, Jovene, Napoli, 2025.
[2] S. WEIL, Q I, 105-106; 147.
[3] C. MACKINNON, Feminism Unmodified, Harvard University Press, Cambridge 1987.
[4] Si veda, per approfondire questo aspetto, C. PATEMAN, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, Moretti & Vitali, Bergamo, 2015.
[5] V. sulla nozione di “biopotere”, G. AGAMBEN, Homo sacer, ed. integrale 1995-2015, Quodlibet, Macerata 2018.
[6] S. WEIL, Ne recommençons pas la guerre de Troie, in L’Iliade ou le poème de la force, Rivages poche, Paris 2014, pp. 180-181; Non ricominciamo la guerra di Troia, in Sulla Guerra, Il Saggiatore, Milano 2017, pp. 80-81.
[7] Su questo tema, dalla storia di Andrea Spezzacatena, vittima di bullismo e cyberbullismo omofobo, che si tolse la vita il 20 novembre 2012, all'età di 15 anni, è stato tratto un libro (Andrea, oltre il pantalone rosa, Graus edizioni, 2023) scritto dalla madre della giovane vittima, e al quale è ispirato un film (Il ragazzo dai pantaloni rosa, 2024) che ha ottenuto un ottimo successo di pubblico e critica.
[8] F. MENDITTO, Riflessioni sul delitto di femminicidio, in Sistema penale, 2 aprile 2025.
[9] Si veda A. PUGIOTTO, La mimosa all’occhiello del populismo penale, in Sistema penale, 2 aprile 2025.
[10] P. PINTO DE ALBUQUERQUE, Life imprisonment and the European right to hope, in Rivista Associazione italiana dei costituzionalisti, 2/2015, p. 1.
[11] Si rimanda, tra i più recenti, a E. DOLCINI, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in Diritto penale contemporaneo 3/2018, pp. 1 ss; L. RISICATO, La pena perpetua tra crisi della finalità rieducativa e tradimento del senso di umanità, in Riv.it.dir.proc.pen., 3/2015, pp. 1238 ss; C. DANUSSO, E. DOLCINI, D. GALLIANI, F. PALAZZO, A. PUGIOTTO, M. RUOTOLO, Ergastolo e diritto alla speranza. Forme e criticità del "fine pena mai", Giappichelli, Torino, 2024.
[12] Si segnala, in parziale superamento rispetto alla giurisprudenza consolidata, la sentenza 149/2018 con la quale la Corte cost. ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della particolare forma di ergastolo prevista dall’art. 58 quater, co 4, o.p. nei casi di condanna per i reati di cui agli artt. 289 bis, co 3, c.p. e 630 co. 3, c.p. Sul punto si veda E. DOLCINI, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), in Diritto penale contemporaneo, 18 luglio 2018.
[13] Cfr. Corte Edu, Vinter e altri c. Regno Unito, 9 luglio 2013, nn. 66069/09, 130/10 and 3896/10, https://hudoc.echr.coe.int/fre?i=001-122664
[14] Cfr. opinione concorrente della giudice Power-Forde, in Corte EDU, Grande Camera, sent. Vinter e altri c. Regno Unito del 2013 «la sentenza riconosce, implicitamente, che la speranza è un aspetto importante e costitutivo della persona umana […]. Per quanto lunghe e meritate siano le pene detentive loro inflitte, essi conservano la speranza che, un giorno, potranno riscattarsi per gli errori commessi e impedire loro di nutrire tale speranza significherebbe negare un aspetto fondamentale della loro umanità e, pertanto, sarebbe degradante».
[15] D. GALLIANI, Una introduzione alle forme e alle criticità della pena perpetua, in Ergastolo e diritto alla speranza. Forme e criticità del "fine pena mai", Giappichelli, Torino, 2024.
[16] D. GALLIANI, ibidem, p. XXIII.
[17] Si veda MARINUCCI che affermava che dietro l’idea dell’ergastolo si celava «l’idea veterotestamentaria che chi ha soppresso la vita altrui (o un bene di pari valore) deve rinunciare, scartata la pena di morte, quanto meno alla propria vita civile», in G. MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus 4/1974 p. 463.
[18] Si menziona, solo a titolo esemplificativo, il decreto-legge 48/2025 (c.d. decreto sicurezza) che prevede l’introduzione di 14 nuove fattispecie di reato nonché l’inasprimento delle pene previste per altri 9 reati.
[19] C. MAZZUCATO in I. MARCHETTI, C. MAZZUCATO, La pena “in castigo” un’analisi critica su regole e sanzioni, Vita e Pensiero, Milano, 2006. Si veda anche R. CORNELLI, Contro il panpopulismo. Una proposta di definizione del populismo penale, in Dir. pen. cont. 4/2019, p. 135 che afferma «la risposta penale con il suo volto terribile si presta a essere un tramite particolarmente potente per dare corpo a quel rapporto diretto tra massa e capo che costituisce un elemento essenziale del populismo».
[20] G. MANNOZZI, G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, p. 8, Giappichelli, Torino, 2017.
[21] C. MAZZUCATO in I. MARCHETTI, C. MAZZUCATO, La pena “in castigo” un’analisi critica su regole e sanzioni, op.cit., p. 51.
La presente relazione scritta costituisce la versione estesa, e integrata da un contributo (§ 7) della dott.ssa Alessia Rotolo (dottoranda di diritto penale presso l’Università di Milano Bicocca), della relazione orale tenuta dal dott. Fabrizio Filice (giudice del Tribunale di Milano) alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica, il 24 aprile 2025.
Fabrizio Filice, giudice del tribunale di Milano
Alessia Rotolo, dottoranda di diritto penale presso l’Università di Milano Bicocca