1. La criminalizzazione delle ONG che svolgono salvataggi di migranti in mare vede nella conversione del c.d. “Decreto legge sicurezza” (n. 48/2025, convertito nella legge n. 80 senza alcuna modifica testuale), un nuovo capitolo legislativo che rischia di aggravare ulteriormente il quadro sanzionatorio vigente: in particolare, all’articolo 29, primo comma («Disposizioni per la tutela delle funzioni istituzionali del Corpo della Guardia di Finanza e modifiche agli articoli 1099 e 1100 del Codice della navigazione») si stabilisce che le previsioni contenute negli articoli 5 e 6 della legge n. 1409/1956 – attualmente applicabili alle ipotesi di vigilanza marittima finalizzata alla repressione del contrabbando di tabacchi – sono estese anche ai casi in cui le unità navali della Guardia di Finanza vengano impiegate nell’esercizio delle funzioni istituzionali attribuite dalla normativa vigente. In altri termini, la norma estende l’ambito applicativo dei poteri di polizia attribuiti alla Guardia di Finanza, originariamente limitati alla repressione del contrabbando di tabacchi, a tutte le funzioni che il Corpo è chiamato a svolgere in alto mare: in particolare, ai sensi del Decreto legislativo n. 177/2016, la Guardia di Finanza esercita in via esclusiva le funzioni di polizia in mare con riferimento alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica nell’ambito del mare territoriale, anche ai fini delle attività di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare.
In questo modo, quindi, con l’entrata in vigore della novella, qualora la nave di una ONG impegnata in un salvataggio in mare opponga resistenza ad una nave della Guardia di Finanza nell’esercizio delle proprie funzioni, al Capitano potranno essere contestati i reati di cui agli articoli 1099 e 1100 del Codice della navigazione. La novella è stata pensata, a mio avviso, per criminalizzare situazioni come quelle che si sono verificate nel corso del salvataggio posto in essere dalla Capitana della “Sea Watch 3” Carola Rackete, conclusosi rocambolescamente il 2 luglio 2019: in quel caso, infatti, in sede di convalida dell’arresto, con il primo capo d’imputazione il PM contestò alla Capitana della nave proprio l’articolo 1100 del Codice della navigazione. La Corte di Cassazione, tuttavia, stabilì che la Guardia di Finanza non aveva esercitato funzioni di polizia e non poteva dunque essere qualificata come nave da guerra. In particolare, con la sentenza n. 6626/2020, la III sezione penale osservò come le navi della Guardia di finanza siano certamente navi militari, «ma non possono essere automaticamente ritenute anche navi da guerra. Sono altresì navi da guerra solo in presenza degli ulteriori requisiti: qualora "appartengano alle Forze armate", qualora "portino i segni distintivi esteriori delle navi militari", qualora "siano poste sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente", e qualora il loro equipaggio "sia sottoposto alle regole della disciplina militare". Il codice dell’Ordinamento militare approvato nel 2010, con il decreto legislativo n. 66 […] ha abrogato l’art. 133 del r.d. n. 1415 del 1938 che forniva una definizione di nave da guerra parzialmente diversa. E’ quest’ultima norma, oggi abrogata, […] che, dalla mancata iscrizione al naviglio da guerra, fa derivare l'esclusione della qualifica di nave da guerra per la motovedetta della Guardia di finanza. Tale riferimento risulta peraltro incongruo, alia luce della successione di leggi nel tempo sopra richiamata» (così pp. 13-14 della sentenza citata).
Pertanto, è possibile sostenere che proprio per criminalizzare salvataggi in mare come quello posto in essere da Carola Rackete - a cui non fu possibile contestare il reato di cui all’art. 1100 del Codice della navigazione -, il “Decreto legge sicurezza” prevede oggi l’estensione della norma citata alle unità navali della Guardia di Finanza. Da ciò ne consegue, per l’appunto, alla luce di quanto ricostruito dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 6626/2020 e in ragione della novella sopravvenuta che:
a) l’articolo 1099 («Rifiuto di obbedienza a nave da guerra») nel testo attualmente vigente prevede che il Comandante della nave, che nei casi previsti nell’articolo 200 del Codice della navigazione non obbedisce all’ordine di una nave da guerra dello Stato, sia punito con la reclusione fino a due anni. Nel rinviare all’articolo 200 del Codice dell’ordinamento militare, inoltre, l’art. 29 del “Decreto legge sicurezza” consente alle autorità competenti di svolgere funzioni di polizia comprendenti, tra l’altro, la facoltà per il personale della Guardia di finanza di salire a bordo della nave in attesa dell’indicazione del POS, successivamente quindi alla realizzazione del salvataggio in mare, oltre che l’ispezione della documentazione di viaggio in possesso del Capitano. Ma soprattutto, con riferimento a quanto evidenziato in precedenza,
b) l’articolo 1100 del Codice della Navigazione («Resistenza o violenza contro nave da guerra») oggi rinvia all’articolo 239 del Codice dell’ordinamento militare che, a sua volta, equipara le unità navali della Guardia di Finanza operanti in mare alle navi da guerra, punendo così con la reclusione da tre a dieci anni il Comandante o l’ufficiale che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale. Tra l’altro, il terzo comma dell’articolo 239 specifica che la nave da guerra costituisce parte del territorio dello Stato italiano.
Se quindi nel 2020 la Corte di Cassazione stabilì che non era possibile contestare il reato di cui all’articolo 1100 del Codice della navigazione a Carola Rackete, oggi invece, proprio grazie all’entrata in vigore del “Decreto legge sicurezza”, attraverso un’estensione impropria delle competenze delle navi della Guardia di finanza originariamente riferite alla repressione del contrabbando di tabacchi, si giunge ad applicare tali disposizioni anche alle operazioni di salvataggio in mare poste in essere dalle ONG. Siamo passati, insomma, da una norma la cui ratio era quella di reprimere il racket del contrabbando di tabacchi, ad una norma anti-Rackete, un gioco di parole questo che forse potrà suscitare qualche ilarità, ma che dimostra come siamo senz’altro di fronte ad una normativa pensata appositamente per criminalizzare le ONG e che fa emergere l’impostazione autoritaria sottesa al “Decreto legge sicurezza” che tratta le associazioni impegnate nel salvataggio in mare dei migranti alla stregua di organizzazioni criminali.
2. Entrando nel merito delle questioni oggetto dell’incontro di studi odierno, ossia il modo in cui le misure sanzionatorie di natura civile e amministrativa interferiscono con l’effettivo esercizio della libertà di associazione delle ONG impegnate nei salvataggi in mare, quanto meno a partire dal Decreto legge n. 1/2023 (c.d. “Decreto Piantedosi”) e s.m.i., a me pare che l’articolo 18 della Costituzione dimostra di essere quasi un’arma spuntata. Questa norma, infatti, come è noto, si “limita” a stabilire che è vietata la costituzione di associazioni che perseguono fini vietati dalle leggi penali (primo comma), oltre al divieto di associazioni segrete – ma su questo punto sarà necessario tornare in seguito - e di quelle che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare (secondo comma). Si tratta di una scelta improntata alla più ampia libertà possibile e che risente evidentemente di una serie di ragioni storiche, strettamente connesse alla volontà del Costituente di gettarsi alle spalle le norme liberticide che in materia erano state varate dal regime fascista. Questa massima libertà riconosciuta alle associazioni, tuttavia, comporta una sorta di paradosso costituzionale: un impianto normativo così estremamente ampio e “libertario”, infatti, non sembra offrire oggi strumenti di garanzia specifici che consentano di affrontare le questioni giuridiche che si pongono nel presente, anche se ovviamente non è preclusa la possibilità di adire un giudice al fine di far accertare e dichiarare la lesione di tale diritto.
La questione, infatti, con riferimento all’attività delle ONG che fanno salvataggi in mare, non è quella di verificare se di fatto tali associazioni siano state gradualmente criminalizzate in ragione di una serie di obblighi, divieti e sanzioni introdotti nella legislazione ordinaria, quanto l’opposto, ossia di accertare se tali ostacoli alle modalità ordinarie di esercizio della loro libertà di associazione, abbia di fatto esautorato la possibilità per tali organizzazioni di perseguire i propri (leciti) scopi sociali. La questione giuridica che si pone, allora, è di verificare se attraverso una serie di limiti, ostacoli, obblighi, divieti e sanzioni all’attività sociale dell’ONG, di natura civilistica o amministrativa, il legislatore ne abbia di fatto esautorato la libertà associativa. Anche per questo motivo appare utile considerare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti, per brevità, Corte EDU) la quale ha avuto modo di considerare tali possibili violazioni con riferimento a normative statali che di fatto hanno esautorato lo spazio di agibilità legale e democratico delle ONG. Nel nostro caso inoltre, si tratta di verificare se l’articolo 18 della Costituzione possa essere interpretato in combinato disposto con l’articolo 117, primo comma della Carta, alla luce dell’articolo 11, secondo paragrafo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che vieta l’interferenza illegittima dello Stato attraverso la propria normativa che risulti sproporzionata rispetto all’esercizio della libertà associativa, soprattutto quando quest’ultima sia rivolta al perseguimento di un fine sociale lecito. Tale interferenza può essere legittima soltanto se, in una società democratica, essa risulti necessaria alla tutela di beni giuridici di interesse generale, quali l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, fermo restando il rispetto del principio di legalità e di proporzionalità delle misure limitative e/o sanzionatorie volte al perseguimento dell’interesse generale.
Come è noto, l’articolo 11 CEDU fa esplicito riferimento alle sole associazioni sindacali, ma la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha progressivamente ampliato l’ambito applicativo della norma, includendovi anche i partiti politici e, più di recente, proprio le ONG: ed è questa evoluzione ermeneutica dell’art. 11 CEDU che potrebbe essere valorizzata nel nostro caso. Il tema della possibile limitazione della libertà di associazione delle ONG in relazione alle attività di soccorso in mare, infatti, deve essere considerato alla luce dell’efficacia dissuasiva che le cosiddette “condizionalità” presenti nell’ordinamento giuridico - ossia quegli obblighi, divieti, prescrizioni e relative sanzioni di natura civile e amministrativa, più raramente penale – producono in concreto. Tali misure, pur non criminalizzando formalmente l’attività svolta dalle organizzazioni, incidono in modo significativo sulle modalità concrete di perseguimento dello scopo associativo che - si ribadisce - rimane lecito, ma che risulta di più difficile realizzazione: si pensi, soltanto per fare un esempio, alla prassi del Ministero dell’interno che “concede” il POS alle navi ONG, indicando porti distanti molti giorni di navigazione dal luogo in cui si è realizzato il salvataggio, creando così un sovraccarico in termini di lavoro, tragitto e tenuta psico-fisica dell’equipaggio della nave e dei migranti salvati – oltre che un aggravio delle spese di mantenimento in mare dell’imbarcazione.
3. La giurisprudenza della Corte EDU relativa all’applicazione dell’articolo 11 della Convenzione rispetto alle ONG vede come Stati convenuti non solo Paesi di democrazia matura del Consiglio d’Europa, ma anche Stati che appartenevano fino a pochi decenni fa al blocco del cosiddetto “socialismo reale” e che oggi sono identificati come politicamente vicini alla Federazione russa (si pensi soltanto al “gruppo di Visegrad”). Si tratta di Stati in cui vigevano regimi politici non liberali ed in cui la società civile non esisteva, se non in misura embrionale, assai spesso repressa con modalità legali ed in cui non esisteva di fatto un pluralismo politico e sindacale. Il risultato è stato che l’azione dei pubblici poteri – e talvolta, in maniera ancor più esplicita, la normativa interna di questi Stati – si caratterizzava per una interferenza sproporzionata da parte degli apparati di sicurezza sulle modalità di esercizio della libertà associativa, con un effetto dissuasivo rispetto al perseguimento di scopi sociali pur leciti. In questa prospettiva, la Corte EDU ha avuto modo di stabilire che la garanzia di cui all’art. 11 della Convenzione non comprendesse soltanto la facoltà di creare o di sciogliere un’associazione (Gorzelik e altri contro Polonia e Tebieti Mühafize Cemiyeti e Israfilov contro Azerbaijan), ma includeva anche la possibilità, per la medesima associazione, di svolgere effettivamente le proprie attività istituzionali senza interferenze pubbliche, il che implicava che essa potesse proseguire le proprie attività a fronte di un’ingerenza statale non giustificata dal perseguimento o dalla tutela di un interesse generale.
Dalla giurisprudenza della Corte EDU, quindi, emerge come pur potendo essere giustificate legislazioni che rendano significativamente più difficile il funzionamento delle associazioni - rafforzando i requisiti relativi alla loro registrazione, limitando la loro capacità di ricevere risorse finanziarie, assoggettandole ad obblighi dichiarativi e di pubblicità tali da darne un’immagine negativa, o esponendole al rischio dello scioglimento ex lege -, tali misure tuttavia devono essere proporzionate nel senso che non possono esautorare l’effettivo esercizio della libertà di associazione. Anche per queste ragioni, a fronte di uno scrutinio di proporzionalità molto stretto da parte dei giudici di Strasburgo e tenendo altresì conto del margine di apprezzamento statale di cui al secondo paragrafo, negli ultimi anni la Corte EDU ha spesso accertato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione con riferimento al rispetto della vita privata dei singoli associati. Infatti, tali violazioni vengono spesso accertate in relazione a ingerenze nell’ambito domiciliare (rectius, domicilio e/o sede legale) delle ONG, a fronte di ispezioni poste in essere dall’autorità amministrativa o di pubblica sicurezza e che risultano sproporzionate rispetto al mandato ispettivo originariamente conferito all’autorità procedente, di norma quella giudiziaria.
Talvolta insieme alla violazione dell’art. 8 CEDU, la Corte accerta anche violazione dell’articolo 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione che, come è noto, tutela la proprietà privata: l’accertamento della violazione di una di queste due disposizioni di solito finisce per assorbire l’accertamento anche della violazione dell’articolo 11 della Convenzione. Ciò, ad esempio, è quanto si è verificato nel caso Grande Oriente d’Italia contro Italia che rappresenta un precedente giurisprudenziale di grande interesse per quanto ci riguarda; la vicenda è nota: il Grande Oriente d’Italia si era rifiutato di consegnare l’elenco dei propri iscritti ad una Commissione parlamentare d’inchiesta istituita ai sensi dell’articolo 82 della Costituzione. La Commissione allora, esercitando i poteri propri della magistratura inquirente, diede mandato alla polizia giudiziaria di effettuare un accesso presso la sede legale dell’associazione al fine di acquisire la documentazione richiesta e mai ottenuta: tuttavia, nel corso dell’operazione vennero sequestrati anche documenti e materiali che risultavano del tutto inconferenti rispetto a quelli che avrebbero dovuto essere acquisiti, sulla base del mandato originario dalla Commissione parlamentare alla polizia giudiziaria. Il Grande Oriente d’Italia ha così lamentato davanti alla Corte EDU una duplice violazione: da un lato, quella della vita privata dei propri iscritti (articolo 8 CEDU); dall’altro, della libertà associativa del Grande Oriente in quanto tale (articolo 11 CEDU), nella misura in cui era stata compromessa l’autonomia e la riservatezza dell’associazione, non perseguendo essa fini illeciti o “segreti”. La Corte di Strasburgo ha accolto il ricorso, accertando però soltanto la violazione dell’articolo 8 della Convenzione ed osservando che, pur trattandosi di un’ispezione disposta da un organo costituzionale, le modalità con cui la polizia giudiziaria si era introdotta nella sede dell’associazione e la mole significativa di documenti acquisiti agli atti, del tutto sproporzionata rispetto alla portata del mandato ricevuto, avevano conseguentemente violato il diritto alla riservatezza degli iscritti al Grande Oriente, oltre che un’ingerenza non giustificata nella vita privata e associativa dei propri soci. Tuttavia, in ragione dell’ampia portata applicativa dell’articolo 8, la violazione dell'articolo 11 CEDU venne dichiarata assorbita dalla Corte: al riguardo, merita qui ricordare l’opinione dissenziente del giudice Serghides, secondo il quale con questa decisione rischia di consolidarsi un indirizzo giurisprudenziale che potrebbe svuotare di contenuto normativo l’articolo 11 della Convenzione, laddove in presenza di associazioni la cui libertà dovrebbe essere specificamente tutelata, si omette una valutazione autonoma da parte della Corte del succitato parametro convenzionale.
Tale opinione dissenziente deve in qualche modo essere collegata ad una sentenza della Corte pubblicata un paio di anni prima e che riguardava per l’appunto l’accertamento (autonomo, non connesso cioè ad altri parametri CEDU) della violazione dell’art. 11 della Convenzione rispetto ad una ONG: si tratta della sentenza della V sezione della Corte, XXX contro Azerbaijan, pubblicata nel mese di dicembre 2021 e che è molto importante ai fini della nostra analisi, perché per la prima volta la Corte EDU ha equiparato la libertà associativa di cui godono i partiti politici ed i sindacati a quella di una ONG. Nel caso in questione i ricorrenti erano rappresentanti di una ONG impegnata nel monitoraggio dello svolgimento delle elezioni politiche nello Stato convenuto: la controversia verteva su una serie di interferenze da parte delle autorità pubbliche azere, volte ad ostacolare l’attività associativa. In particolare, la normativa statale prevedeva l’obbligo di iscrizione delle ONG in un apposito registro pubblico controllato dal governo, con necessaria approvazione da parte dell’autorità giudiziaria. Il Ministero della Giustizia azero però, al fine di impedire la registrazione ufficiale dell’associazione, trasmise istruzioni alla polizia affinché sottraesse il fascicolo relativo alla domanda di iscrizione dagli uffici competenti nel corso dell’istruttoria dinanzi all’autorità giudiziaria: la Corte ha ritenuto che tale condotta integrasse una violazione dell’articolo 11 della Convenzione, in quanto ostacolava in modo grave e strutturale l’esercizio della libertà associativa dell’ONG. Con questa pronuncia, come detto, la Corte ha affermato – per la prima volta in modo esplicito – che le garanzie previste dall’articolo 11 CEDU debbano essere estese non soltanto ai sindacati e ai partiti politici ma anche alle ONG, soprattutto se esse svolgono un’attività volta a promuovere e a controllare il pluralismo politico ed il corretto funzionamento di una società democratica. Certo, in quel particolare contesto sociale e politico, in un contesto cioè di una democrazia non del tutto matura e improntata a fragili regole democratiche di natura liberale, una ONG che svolge attività di monitoraggio sulla regolarità delle elezioni svolge chiaramente una funzione di rafforzamento della vita politica e democratica e forse è proprio questo elemento particolare di contesto che ha spinto la Corte EDU a dare un’interpretazione estensiva all’art. 11 CEDU. Il punto, allora, è di comprendere se tale apertura giurisprudenziale possa essere estesa anche a ONG che non operano nel settore del controllo politico-elettorale ovvero della trasparenza politico-costituzionale in contesti democratici non particolarmente solidi, ma che invece si dedicano ad attività di salvataggio in mare in Paesi di democrazia consolidata.
Pur con tutte le differenze di contesto, la pronuncia citata costituisce dunque un primo e rilevante precedente da tenere in considerazione. Al riguardo merita di essere segnalata, sempre in questa ottica, anche la recente pronuncia SIA Rix Shipping contro Lettonia: in questo caso, una società armatrice aveva subito un’ispezione da parte della Guardia di finanza lettone, a seguito di presunte violazioni della normativa nazionale in materia di concorrenza. Pur non avendo la Corte di Strasburgo accertato, in questa sentenza, una violazione dell’articolo 11 CEDU, ha comunque ribadito che le violazioni delle modalità di esercizio della libertà di associazione – e, più in generale, la legittimità dell’ingerenza da parte delle autorità di polizia -, devono sempre essere valutate alla luce del contenuto e dei limiti del mandato ottenuto dalla magistratura che autorizza l’accesso al domicilio legale dell’associazione medesima. Tale principio rafforza ulteriormente l’idea secondo cui la libertà associativa, anche quando non direttamente violata, rimane in ogni caso sottoposta a un necessario controllo di stretta proporzionalità e legalità rispetto alle modalità di esercizio del potere ispettivo da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. Nel caso SIA Rix Shipping contro Lettonia, del resto, pur non essendo stata accertata una violazione dell’articolo 11 CEDU, la Corte di Strasburgo ha affermato che eventuali interferenze nelle modalità di esercizio della libertà di associazione – in particolare, nei rapporti tra l’associazione e le autorità governative e di polizia – devono sempre essere valutate alla luce del mandato conferito dall’autorità giudiziaria per l’accesso al domicilio legale dell’associazione.
4. Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (d’ora in avanti, per brevità, CGUE) potrebbe in qualche modo indicarci una strada per valutare l’interferenza negativa che una legislazione nazionale può produrre rispetto alle modalità di perseguimento dei fini sociali da parte di una ONG. Il riferimento è qui alla sentenza della CGUE sulla legge ungherese del 2018 che imponeva a tutte le associazioni operanti in territorio magiaro e che ricevevano donazioni in denaro dall’estero di iscriversi in un registro speciale e di dichiarare pubblicamente, anche a fini fiscali, la provenienza dei finanziamenti ricevuti (C-78/18 del 18 giugno 2020). La Commissione europea, al riguardo, aveva avviato nei confronti del Governo ungherese una procedura di inadempimento, proponendo quindi ricorso dinanzi alla Grande Sezione della Corte la quale, restando fedele al suo approccio giurisprudenziale orientato alla tutela del mercato e delle libertà economiche, ha innanzitutto accertato la violazione della libertà di circolazione dei capitali, rilevando come tale normativa producesse un effetto dissuasivo, un vero e proprio ostacolo alle donazioni transfrontaliere, ad esempio da parte dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione a favore delle ONG operanti in Ungheria. Ma, in aggiunta, la CGUE ha accertato anche una violazione dell’articolo 12 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (la c.d. “Carta di Nizza”), che tutela la libertà di associazione.
Sono due gli aspetti di particolare rilievo che emergono dalla lettura di questa importante decisione: il primo si riferisce alla constatazione – implicita, ma sostanziale – che l’articolo 12 della “Carta di Nizza” sia del tutto privo di un contenuto normativo proprio e sufficientemente definito, tanto è vero che, nel tentativo di attribuire efficacia precettiva e un contenuto sostanziale a tale norma, la CGUE ha fatto pedissequo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, recependone principi, criteri e limiti applicativi. Come si legge ai §§. 110-111 della sentenza, infatti, «Per quanto riguarda, in primo luogo, il diritto alla libertà di associazione, esso è sancito dall’articolo 12, paragrafo 1, della Carta, ai sensi del quale ogni persona ha diritto alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico. Tale diritto corrisponde a quello garantito all’articolo 11, paragrafo 1, della CEDU: devono quindi essergli riconosciuti lo stesso significato e la stessa portata di quest’ultimo, conformemente all’articolo 52, paragrafo 3, della Carta».
Il secondo profilo rilevante, invece, riguarda la valutazione di merito svolta dalla Corte di Lussemburgo con riferimento alla normativa ungherese che, si precisa, non introduceva sanzioni penali, ma soltanto obblighi amministrativi e tributari che interferivano profondamente con il libero esercizio dell’attività associativa. Al riguardo, la CGUE ha rilevato come «gli obblighi di dichiarazione e di pubblicità che le disposizioni in questione hanno istituito sono tali da limitare la capacità delle associazioni e delle fondazioni di cui trattasi di ricevere sostegno finanziario proveniente da altri Stati […] Ciò premesso, gli obblighi sistematici in questione […] possono avere un effetto dissuasivo sulla partecipazione di donanti residenti in altri Stati membri o in paesi terzi al finanziamento delle organizzazioni della società civile rientranti nell’ambito di applicazione della legge sulla trasparenza e, in tal modo, ostacolare le attività di tali organizzazioni e il conseguimento degli obiettivi da esse perseguiti. Inoltre, essi sono tali da creare, in Ungheria, un clima di sfiducia generalizzata nei confronti delle associazioni e delle fondazioni in questione nonché di stigmatizzarle» (così ai §§. 117-118 della sentenza). La Corte ha dunque rilevato un effetto dissuasivo della legge ungherese che si concretizzava in limitazioni, oneri e modalità specifiche di dichiarazione e di pubblicità, sul piano finanziario e tributario, che avevano determinato un’interferenza sproporzionata delle modalità operative dell’associazione, con un effetto finale volto ad ostacolare in concreto il perseguimento degli scopi sociali delle ONG. In conclusione, quindi, è possibile sostenere, se si vuole in maniera anche un po' provocatoria, che tutte le strade portano a Budapest.
Se intendiamo realmente affrontare le modalità attraverso cui le ONG vengono, di fatto, criminalizzate, il modello da tenere sotto controllo è proprio questo e rientra non in una logica, come è stato evidenziato da autorevole dottrina, di “ossessione securitaria” che indubbiamente sussiste, quanto piuttosto in un disegno legislativo e politico – sarei tentato di dire di politica del diritto - consapevole e pianificato, volto a limitare la libertà di associazione in concreto delle ONG, attraverso misure di natura civilistica ed amministrativa che ne ostacolano il raggiungimento dei fini sociali. Per restare in Italia, allora, le ONG che operano salvataggi di migranti in mare potrebbero introdurre davanti alla giurisdizione ordinaria un’azione di accertamento dell’effettivo e concreto esercizio della propria libertà di associazione, come garantita dall’articolo 18 e dall’articolo 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo parametro integrato alla luce degli articoli 8 e 11 della CEDU, nonché dell’articolo 12 della “Carta di Nizza”, così come interpretati rispettivamente dalla Corte di Strasburgo e dalla CGUE. In questo modo, pertanto, sarebbe possibile per le ONG chiedere ai giudici ordinari, in concreto, se la normativa che regola i salvataggi in mare, con tutti i divieti, gli obblighi e le sanzioni, interferisca e/o incida a tal punto sull’esercizio delle modalità concrete di estrinsecazione della loro libertà associativa all’interno, da porsi in contrasto con le norme costituzionali ed euro-unitarie che garantiscono l’effettivo esercizio della libertà di associazione in una prospettiva quindi multilivello.
Intervento al seminario e tavola rotonda Profili problematici della normativa e delle prassi in tema di contrasto al soccorso in mare di navi private, promosso da Magistratura democratica, Questione giustizia e ASGI e svoltosi il 6 giugno 2025 presso il Centro congressi Forma Spazi. Per il programma completo, si veda questo link