1. Premessa
La sentenza qui allegata ha deciso in primo grado una vicenda che è stata a lungo al centro delle cronache giudiziarie e politiche: il processo per i reati di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio a carico dell’allora Ministro dell’interno Matteo Salvini per la decisione, nell’agosto 2019, di non consentire lo sbarco dei naufraghi soccorsi in acque internazionali dalla nave Open Arms.
Delle diverse vicende che hanno riguardato casi simili, di impedimento da parte del Ministro Salvini dello sbarco in Italia dei naufraghi-migranti a bordo di navi alla fonda in acque italiane, questa è la prima che perviene ad una sentenza dibattimentale[1]. Nella vicenda della nave Diciotti, dell’agosto 2018, la richiesta di autorizzazione a procedere chiesta dal Tribunale dei ministri di Catania era stata respinta dal Senato, mentre in sede civile una recente decisione delle Sezioni unite ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Roma che aveva respinto la richiesta di risarcimento del danno per l’ingiusta detenzione subita, avanzata da uno dei soggetti trattenuti sulla Diciotti[2]. In due casi il Senato ha invece concesso l’autorizzazione a procedere. Il primo, relativo alla vicenda della nave militare Gregoretti, è stato deciso con sentenza di non luogo a procedere da parte del GUP di Catania[3]; il secondo è il procedimento ora in esame.
Si tratta di una sentenza assai corposa (più di 250 pagine), al punto che per agevolarne la lettura gli estensori hanno provveduto a redigerne un sommario. La parte dedicata allo svolgimento del processo, che occupa le prime 140 pagine, contiene una analitica ricostruzione dei numerosi testi sentiti nel corso dell’istruttoria (tra cui numerosi componenti della compagine governativa in carica al momento dei fatti: il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, il Vice Presidente del Consiglio e Ministro del lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, il Ministro degli Affari Esteri Enzo Moavero Milanesi, il Ministro della difesa Elisabetta Trenta e il Ministro delle Infrastrutture e Trasporti Danilo Toninelli).
I “motivi della decisione” sono poi suddivisi in 5 parti: la prima dedicata alla ricostruzione del fatto; la seconda all’analisi della normativa in materia di soccorso in mare; la terza (ove si concentra la ratio decidendi della pronuncia) alle ragioni per cui non si ritiene sussistesse nel caso di specie un obbligo per l’Italia di concedere il place of safety (POS) alla Open Arms; la quarta alle specifiche problematiche relative alla contestazione dei reati nei confronti di minorenni; la quinta alla considerazioni finali.
Di seguito procederemo ad una ricostruzione dei diversi passaggi motivazionali, prima di esporre alcune valutazioni critiche in ordine agli stessi.
2. Il fatto
I fatti descritti nel capo di imputazione riguardano quanto avvenuto nelle acque antistanti l’isola di Lampedusa tra il 14 ed il 20 agosto 2019, ma la sentenza ricostruisce l’evolversi della vicenda a partire dal 1° agosto, posto che le circostanze che hanno preceduto l’arrivo della Open Arms a Lampedusa risultano decisive nella qualificazione giuridica del fatto contestato.
Il 1° agosto 2019 la Open Arms (nave battente bandiera spagnola, di cui è armatrice la ONG spagnola Pro-activa Open Arms) procede, su segnalazione della ONG Alarm Phone, al soccorso di 55 persone che si trovano in situazione di pericolo su una imbarcazione in cattive condizioni di navigazione in acque internazionali rientranti nella zona SAR (Search and Rescue) di competenza della Libia. Il soccorso viene subito comunicato alle autorità libiche, oltre che ai Centri di soccorso marittimo di Italia e Malta (in quanto Paesi titolari delle zone SAR adiacenti al luogo del soccorso) e Spagna (quale Paese della bandiera). Malta non risponde, la Spagna fornisce i recapiti del centro di soccorso tunisino (essendo la Open Arms non lontana dalle coste tunisine), l’Italia reagisce con l’emissione di un decreto inter-ministeriale (a firma dei Ministri dell’Interno, della Difesa e dei Trasporti) che vieta alla nave «l’ingresso, il transito e la sosta» nelle acque territoriali italiane, sulla base dell’«intenzione di porre in essere un’attività volta al preordinato e sistematico trasferimento illegale di migranti in Italia».
Il giorno successivo la Open Arms, sempre su indicazione di Alarm Phone, procede ad un altro intervento di salvataggio di 69 persone, questa volta in zona SAR maltese. Di fronte al rifiuto di Malta di concedere il POS, posto che il soccorso sarebbe avvenuto fuori dalla propria zona di competenza, la Open Arms chiede per la prima volta la concessione del POS all’Italia, sul presupposto che Lampedusa è il porto di sbarco più vicino.
Nei giorni successivi la nave si mantiene in acque internazionali di competenza SAR maltese, reiterando le richieste di POS tanto alle autorità italiane che a quelle maltesi.
Il 9 agosto la Open Arms, sotto il coordinamento delle autorità maltesi, procede ad un nuovo soccorso di 39 persone. Rispetto a tale episodio, Malta acconsente ad accogliere i naufraghi, ma il capitano della nave rifiuta l’opzione dello «sbarco parziale», ritenendo che tale soluzione avrebbe potuto creare frizioni tra i gruppi di naufraghi soccorsi nei diversi episodi, con il rischio di creare pericolo per la sicurezza della navigazione.
Continuando la situazione a non risolversi, e in ragione del peggioramento delle condizioni meteo-marine, il 13 agosto il capitano della Open Arms chiede di potersi avvicinare all’isola di Malta, ma il permesso gli viene negato. Il 14 agosto, giunta notizia che il TAR del Lazio ha sospeso l’efficacia del divieto di ingresso in acque italiane, la nave comunica alle autorità italiane che si sta dirigendo verso Lampedusa per trovare riparo dal maltempo.
Una volta entrata in acque italiane, la Open Arms reitera la richiesta di POS, che viene ripetutamente negata dal Ministro dell’interno, nonostante le difficili condizioni igienico-sanitarie venutesi a creare sulla nave in ragione dell’ingente numero di persone a bordo e del lungo tempo trascorso in mare. In seguito all’intervento del Presidente del Tribunale per i minorenni di Palermo, che dichiarava aperte le tutele dei minori presenti sulla nave, ed a quello successivo del Presidente del Consiglio Conte, che a più riprese aveva sottolineato la necessità di fare sbarcare almeno i minori, il 17 agosto il Ministro Salvini assicurava che «suo malgrado» avrebbe consentito allo sbarco dei minori, che effettivamente avveniva nel pomeriggio dello stesso giorno.
Nei giorni successivi continuavano le interlocuzioni tra la nave e le autorità italiane, con il Ministro Salvini che continuava a rifiutare la concessione del POS, nonostante il continuo peggioramento delle condizioni a bordo della nave (il 18 agosto cinque migranti si erano gettati a mare nel disperato tentativo di raggiungere le coste dell’isola, distanti poche centinaia di metri), ritenendo che della situazione a bordo della nave dovesse farsi carico lo Stato della bandiera, e quindi la Spagna.
Infine, il 20 agosto, il Procuratore della Repubblica di Agrigento effettuava un’ispezione a bordo della nave, insieme a due medici nominati quali consulenti tecnici nell’ambito di un procedimento aperto a carico di ignoti il 16 agosto per il delitto di cui all’art. 328 c.p.; constatata l’emergenza sanitaria creatasi in seguito alla lunga attesa, il Procuratore disponeva il sequestro preventivo in via d’urgenza della nave, con conseguente sbarco sulla terraferma di tutti i migranti.
3. La normativa internazionale in tema di soccorsi in mare e l’asserita insussistenza di un dovere di concedere il POS in capo alle autorità italiane
Il cuore della motivazione sta nella ricostruzione del quadro normativo in materia di soccorsi in mare, da cui il Tribunale deriva la mancanza di un chiaro obbligo giuridico per il Ministro Salvini di attribuire un POS alla Open Arms.
La sentenza ripercorre anzitutto le diverse fonti che regolano la materia. Dopo avere affermato la sussistenza di un «principio di diritto internazionale universalmente riconosciuto», che «impone ad ogni Stato l’obbligo di salvare la vita che si trovi in pericolo in mare, obbligo che prevale su ogni altra norma nazionale e su eventuali accordi tra Stati (anche ove fossero finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare)», il Tribunale passa in rassegna le diverse fonti pattizie (sottoscritte e ratificate dall’Italia) che danno concretezza a tale principio di diritto consuetudinario: la cd. Convenzione SOLAS (Safety of Life at Sea) del 1974, la cd. Convenzione SAR di Amburgo del 1979, la cd. Convenzione UNCLOS (United Nations Convention on the Law of the Sea) di Montego Bay del 1982. Particolare attenzione viene poi dedicata alle Risoluzioni (e relativi Allegati) che, nel quadro delle Convenzioni SAR e SOLAS, sono state adottate nel 2004 dal Comitato per la Sicurezza Marittima (MSC) al fine di precisare meglio gli obblighi cui sono tenuti gli Stati che hanno sottoscritto tali Convenzioni; risoluzioni che a loro volta sono state alla base della direttiva SOP (Procedure Operative Standard) emanata nel 2015 dal Comando Generale delle Capitanerie di Porto e dalla Guardia Costiera, di concerto con il Ministero dell’Interno, che individuava nel Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione del Viminale l’ufficio competente all’indicazione del POS; SOP che erano state infine modificate nel 2019, al fine di attribuire direttamente al Ministro ed al suo Ufficio di Gabinetto la competenza al rilascio del POS.
Al momento di calare tale complessa disciplina all’interno della vicenda concreta oggetto del giudizio, il Tribunale prende le mosse da una analitica ricostruzione della tesi sostenuta dall’accusa (a tale ricostruzione vengono dedicate poco più di 20 pagine), in larga parte coincidente con quanto sostenuto dal Tribunale per i ministri nella formulazione della richiesta di autorizzazione a procedere. In estrema sintesi, secondo la Procura l’obbligo di concedere il POS sarebbe derivato anzitutto dal fatto che, per quanto riguarda i 3 salvataggi operati in acque internazionali, l’Italia avrebbe rivestito la qualifica di «Stato di primo contatto» (insieme a Libia e Malta, nelle prime fasi della vicenda, e poi in via esclusiva, in seguito all’ingresso della Open Arms in acque italiane; mentre non avrebbe rivestito tale qualifica lo Stato della bandiera, e quindi la Spagna, cui spetterebbe solo il compito di verificare che il capitano adempia ai suoi obblighi e al più di facilitare i rapporti tra la nave e le autorità dei Paesi competenti alla gestione del caso); e poi perché il peggioramento delle condizioni del mare nella notte tra il 14 ed il 15 agosto avrebbe provocato un «quarto evento SAR», del quale erano esclusivamente responsabili le autorità italiane. In sostanza, se sino al 14 agosto non era univoco l’obbligo per l’Italia di concedere il POS, tale obbligo gravando anche sulle autorità maltesi (non invece su quelle libiche, considerato come la Libia non possa essere considerata un luogo sicuro di sbarco alla luce delle ben note violazioni dei diritti fondamentali dei migranti che vi vengono perpetrate), a partire dall’ingresso in acque italiane il 14 agosto l’obbligo del POS sarebbe stato in via esclusiva in capo all’Italia, tanto più alla luce della sospensione del divieto di ingresso disposta dal TAR Lazio.
Venendo all’esposizione delle ragioni che lo inducono ad adottare una diversa posizione, il Tribunale inizia con l’affermare l’inconsistenza dei sospetti, adombrati dalla difesa dell’imputato, circa l’illegittimità della condotta della Open Arms, da ritenere sicuramente lecita considerata la situazione di pericolo per i natanti soccorsi in tutti e tre gli episodi oggetto del procedimento.
Il problema, secondo la sentenza, è l’incompletezza e la scarsa chiarezza della complessiva disciplina dei soccorsi in mare rispetto a casi, come quello in esame, di una nave privata che compia una pluralità di salvataggi, in acque internazionali di competenza di diverse autorità SAR, nessuna delle quali accetti di farsi carico del coordinamento dei soccorsi. A conferma di come l’attuale quadro non sia idoneo a regolare tali situazioni, il Tribunale si sofferma a lungo sulla Raccomandazione 2020/1365 della Commissione europea, dalle cui indicazioni di possibili nuove soluzioni ricava «la precarietà e la inaffidabilità del quadro normativo di riferimento – col quale però il Collegio è oggi chiamato a confrontarsi per giudicare dei gravi reati contestati all’imputato – nel regolare la (così definita) ‘nuova forma di operazioni di ricerca e soccorso” di cui si sono fatte carico le ONG»[4].
Alla luce del dato normativo vigente, il Tribunale esclude anzitutto che la responsabilità dell’Italia sia da affermare in virtù del criterio di collegamento principale, cioè quello della competenza SAR per la porzione di mare ove è avvenuto il soccorso, posto che tutti i soccorsi operati dalla Open Arms sono avvenuti al di fuori delle acque SAR italiane. Neppure può essere invocato il criterio sussidiario dello Stato di primo contatto, dal momento che «dei due consecutivi interventi di soccorso erano già state previamente investite le Autorità SAR responsabili delle aree dove erano avvenuti i salvataggi, Libia e Malta, nonché l’Autorità spagnola»[5]; se mai, nota la sentenza, Stato di primo contatto si sarebbe potuto considerare lo Stato spagnolo, posto che «la Spagna esercitava la giurisdizione sul natante ed era così entrata “per prima” in contatto qualificato[6] con i migranti salvati, insieme alle Nazioni SAR competenti in base al luogo di salvataggio»[7].
A conferma della sostanziale estraneità dell’Italia rispetto all’obbligo di POS, la sentenza sottolinea come «né Spagna, né Malta, né Libia abbiano mai invocato la responsabilità dell’Italia in relazione agli interventi di salvataggio»[8]. Il coinvolgimento dell’Italia deriva soltanto, secondo il Tribunale, «dalla “vicinanza geografica[9] dell’isola italiana di Lampedusa rispetto alla posizione della nave, e cioè su una circostanza di fatto inidonea a ribaltare l’ordine di responsabilità tracciato dalle Convenzioni»[10]. Si tratta di uno degli snodi principali della motivazione: «il Tribunale ritiene improprio il riferimento del capitano al “porto sicuro più vicino”[11] come criterio di imputazione di responsabilità per lo sbarco, atteso che il medesimo non è sancito dai testi attuali delle Convenzioni applicabili e dalle Linee guida operative elaborate dall’IMO. Di conseguenza, se quella del “porto vicino” è al più una discutibile deduzione, non fondata su interpretazioni consolidate dei Trattati, appaiono ancor meno condivisibili le decisioni del capitano, il quale, nonostante l’implicito, ma inequivoco, rifiuto dell’Italia di assumersi competenze nella vicenda, espresso nel decreto interdittivo del 1 agosto, si è trattenuto, per giorni, al largo delle coste italiane, confidando in un’improbabile evoluzione favorevole della vicenda, anziché esperire le altre valide soluzioni disponibili»[12].
Quanto poi alla tesi del «quarto evento SAR», e cioè alla tesi della sussistenza di un obbligo di concedere il POS alla Open Arms in quanto essa stessa si sarebbe trovata in una condizione di distress in seguito al peggioramento delle condizioni del mare nella giornata del 14 agosto, il Tribunale ritiene non corretta tale qualificazione, trattandosi «di una comune situazione di maltempo, che non aveva cagionato nessun concreto pericolo di vita per i passeggeri, né determinato una azione di salvataggio dei naufraghi»[13]. Concedendo la possibilità di avvicinarsi alla costa, le autorità italiane avrebbero adempiuto al loro obbligo di mettere al sicuro la nave, e la non configurabilità di un nuovo ed ulteriore evento SAR escluderebbe che dalla situazione potesse derivare un dovere per l’Italia di concedere il POS.
Né a fondare l’obbligo di fare sbarcare i naufraghi basterebbero la scelta di concedere il ridosso alla Open Arms e le diverse operazioni di evacuazione di soggetti in precarie condizioni di salute (cd. MEDEVAC) operate dalle autorità italiane nei giorni antecedenti la conclusione della vicenda. Lungi dal poter costituire una forma di spontanea assunzione del dovere di fare sbarcare i soccorsi, tali condotte configurano «specifiche operazioni di prelevamento, per ragioni esclusivamente mediche, deliberate ed eseguite senza alcuna interferenza del Ministero dell’Interno»; e quanto alla concessione di avvicinarsi a Lampedusa, da essa non si potrebbe in alcun modo desumere l’autorizzazione allo sbarco, che era stata esplicitamente negata in più occasioni delle autorità italiane.
Non convince il Tribunale neppure il tentativo dell’accusa di fondare l’obbligo di concedere il POS dal tenore dell’art. 10-ter TUI, secondo cui lo straniero «giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e assistenza presso appositi punti di crisi». Secondo la sentenza, «l’art. 10-ter ha essenzialmente lo scopo di fornire una “base legale” alla forma di restrizione della libertà personale patita dai migranti appena sbarcati in Italia all’interno dei “punti di crisi”»[14], e non ha nulla a che vedere con la determinazione degli obblighi di soccorso in mare, disciplinati dalle fonti sovranazionali analizzate sopra.
Di grande interesse è poi la parte della sentenza che si confronta con l’argomento per cui dalla normativa internazionale si ricaverebbe un generale obbligo di solidarietà degli Stati, per cui in caso di inerzia degli Stati direttamente responsabili sorgerebbe per gli altri Stati a vario tiolo coinvolti l’obbligo di consentire la conclusione sul proprio territorio delle operazioni di soccorso. Per il Tribunale, «giova evidenziare che il suddetto principio di solidarietà, sicuramente apprezzabile in chiave umanitaria, non risulta adeguatamente traslato nelle disposizioni delle convenzioni internazionali, non ricavandosi dalle stesse precisi obblighi di cooperazione tra gli Stati, quanto piuttosto mere esortazioni[15] a raggiungere un sistema di cooperazione e di coordinazione che possa garantire il salvataggio delle persone in pericolo in mare»[16]. Gli estensori si soffermano sulla circostanza che, nelle diverse disposizioni convenzionali ove è enunciato tale principio, si usino sempre i verbi al modo condizionale (in inglese è utilizzato il modale should): scelta non casuale, dettata dalla volontà di raggiungere il più ampio consenso tra le Parti, attraverso «la rinuncia a dotare la disposizione esplicitata nella "raccomandazione" della cogenza tipica dell’obbligo giuridico, dalla inosservanza del quale poter fare derivare, nei congrui casi, anche conseguenze penali»[17]. Il principio di legalità in materia penale, di cui all’art. 25 Cost., impone una «espressa» formulazione del fatto costitutivo del reato, e «naturalmente ciò vale pure quando, come nel caso di specie, la compiuta descrizione del precetto penale venga effettuata attraverso il richiamo a fonti normative anche di rango diverso. È invero evidente che è solo se dall’integrazione tra la norma penale primaria e quella chiamata ad integrarla emerge con chiarezza la condotta esatta all’agente e le sue conseguenze penali, potrà parlarsi di rispetto del principio di legalità e tassatività»[18]. Il principio di solidarietà, pur emergente dalla normativa in materia, non ha un grado di cogenza e specificità tale da poter costituire il fondamento di un obbligo giuridico penalmente rilevante: e così viene meno, secondo la sentenza, anche l’ultimo, possibile fondamento della responsabilità penale dell’imputato per avere omesso la concessione del POS.
4. Le valutazioni relative allo sbarco dei minorenni e le considerazioni finali
Una motivazione ad hoc viene fornita in sentenza riguardo alla situazione dei minorenni a bordo. Il Tribunale inizia con il sottolineare che «nessuna disposizione, normativa, internazionale o interna, tampoco la richiamata L. n. 47/2017, prevede che, nel caso di minori a bordo, scatti l’obbligo per lo Stato italiano di fornire un place of safety»[19]. Tuttavia, a prescindere dalla questione del POS, i minori, in quanto soggetti vulnerabili, avevano comunque diritto a sbarcare sul territorio italiano, anche se non è chiara quale autorità avesse competenza per disporre il loro sbarco: «ad avviso del Collegio, difetta la prova della competenza funzionale del Ministro dell’Interno ad autorizzare lo sbarco e l’accoglienza dei minori nel porto italiano; il che è, già di per sé, ragione di insuperabile dubbio sul perfezionamento dei reati omissivi contestati all’odierno imputato»[20]. In ogni caso, considerato come lo sbarco dei minori sia avvenuto nel pomeriggio del 17 agosto, e dunque a distanza di poco più di 48 ore dall’arrivo della nave in acque italiane, «ritiene il Tribunale che lo sbarco dei minorenni sia stato effettuato in conformità ai tempi richiesti dalle disposizioni normative all’epoca vigenti»[21], tenuto conto del fatto che «la legge n. 47/2017 statuisce sì un principio generale di non respingimento dei minori non accompagnati, in aderenza ai principi internazionali in materia, ma non un obbligo giuridico di autorizzare lo sbarco entro un tempo determinato»[22].
Esaurita la parte centrale della motivazione, nelle ultime dieci pagine la sentenza affronta cursoriamente alcune questioni emerse nel corso del dibattimento, alle quali conviene ora fare solo qualche rapidissimo cenno.
Rispetto all’argomento difensivo, per cui la Open Arms era idonea a fungere da POS temporaneo, per cui legittimamente i naufraghi vi sarebbero stati trattenuti in attesa del POS definitivo, il Tribunale non esclude che in astratto una nave soccorritrice possa rivestire tale qualifica, ma ritiene che nel caso concreto le condizioni di sovraffollamento e le precarie condizioni igienico-sanitarie della Open Arms impedissero di ritenerla un place of safety, per quanto provvisorio.
La difesa argomentava altresì che l’attesa nella concessione del POS era derivata dalla volontà di raccogliere, prima dello sbarco, l’impegno di alcuni Stati europei a farsi carco dell’accoglienza di almeno una parte dei naufraghi: argomento non ritenuto rilevante dal Tribunale, posto che «pare quanto meno opinabile che le esigenze legate alla redistribuzione avrebbero di per sé potuto giustificare un ritardo nella concessione del POS ove questo fosse stato obbligatorio»[23].
La sentenza ha modo di precisare che il divieto di refoulement, pacificamente riconosciuto dal diritto internazionale, esclude la possibilità di rinviare i naufraghi verso un Paese ove sono esposti alla violazione dei loro diritti fondamentali, ma non comporta un corrispondente obbligo di concedere il POS: «deve escludersi che la sussistenza dell’obbligo di concedere il POS in capo allo Stato italiano (e di conseguenza all’imputato) potesse farsi discendere dall’obbligo di ottemperare al divieto di non respingimento»[24].
Infine, riguardo ai presupposti che avevano condotto il 1 agosto all’emissione del decreto inter-ministeriale di divieto di accesso alle acque nazionali, il Tribunale «osserva come sia, soprattutto, l’automatismo col quale, nel caso di imbarcazioni battenti bandiere non italiane che avessero agito senza il coordinamento italiano e avessero raccolto immigrati in acque non di competenza italiane, il passaggio dovesse considerarsi “non inoffensivo”, a dirla lunga sullo spessore dei presupposti che avevano determinato l’emissione del decreto interdittivo ed ad indurre a dubitare seriamente sulla conformità del provvedimento ai dettami delle norme di diritto nazionale ed internazionale sopra cennate»[25].
5. Considerazioni critiche
5.1. La sentenza appena sintetizzata ruota tutta intorno ad un tema specifico, quello della sussistenza o meno di un obbligo giuridico per l’allora Ministro dell’interno Salvini di concedere il POS alla Open Arms. Lo schema concettuale cui si rifà il Tribunale, pur senza una esplicita precisazione al riguardo, è (almeno per quanto riguarda il reato di sequestro di persona, su cui concentreremo l’attenzione in questa sede) quello del reato omissivo improprio: all’imputato non si contesta di avere privato della libertà i naufraghi con una condotta positiva, ma ai sensi dell’art. 40 co. 2 c.p. (norma peraltro non indicata nel capo di imputazione, né mai citata nel testo della sentenza) di avere causalmente contribuito all’evento costitutivo del reato omettendo di tenere la condotta giuridicamente doverosa della concessione del POS.
L’obbligo giuridico di impedire l’evento costituisce, come ben noto, il primo presupposto per la responsabilità ex art. 40 co. 2; sicché, una volta constatata la sua assenza, il Tribunale non ha necessità di soffermarsi né sugli altri elementi oggettivi della fattispecie (la condizione di privazione di libertà cui sarebbero state sottoposte le persone offese, e la necessaria condizionalità tra tale condizione e la condotta dell’imputato), né tantomeno sull’elemento soggettivo: tutti requisiti oggetto di discussione nel corso del dibattimento, ed ai quali invece, in coerenza con la prospettiva decisoria assunta, la sentenza non dedica neppure un cenno.
La ratio decidendi è dunque molto chiara e semplice, almeno da un punto di vista penalistico: non vi può essere responsabilità penale del Ministro dell’Interno per non avere autorizzato lo sbarco, perché non vi era nessuna norma giuridica che gli imponesse tale condotta.
5.2. Gli aspetti di complessità non riguardano tanto l’analisi degli elementi costitutivi del reato, quanto la ricostruzione del quadro normativo di riferimento in materia di soccorsi in mare, da cui ricavare la sussistenza o meno dell’obbligo penalmente rilevante.
Il caso concreto oggetto del giudizio presenta, in effetti, degli indiscutibili profili di problematicità. Un primo soccorso avvenuto in acque SAR libiche, quando è noto che la Libia non può essere considerato un place of safety ove fare sbarcare i naufraghi, tenuto conto delle drammatiche condizioni in cui versano i migranti nei centri di detenzione presenti nel Paese; un secondo e terzo soccorso operato in acque SAR maltesi, cui però non fa seguito la disponibilità di Malta a farsi carico dei soccorsi, se non limitatamente ai naufraghi dell’ultimo episodio, che il capitano per ragioni di ordine pubblico a bordo della nave ritiene tuttavia di non poter separare dai naufraghi dei primi due eventi; una nave il cui Stato di bandiera, la Spagna, non si sottrae ai propri doveri di coordinamento, ma le cui coste sono ritenute troppo lontane dal capitano; ed uno Stato, l’Italia, che viene da subito allertato dalla nave dei soccorsi operati, in quanto le coste di una sua isola, Lampedusa, sono il luogo sicuro più vicino ove fare sbarcare i soccorsi, e che tuttavia rifiuta categoricamente di farsi carico della concessione del POS, addirittura vietando alla nave l’ingresso nelle proprie acque territoriali. È evidente che non si tratta di una vicenda lineare, cui è ragionevole pensare di trovare una risposta univoca nella disciplina internazionale dei soccorsi in mare, che certo (come più volte sottolinea la sentenza) non è stata redatta avendo come riferimento scenari del genere, con navi private stabilmente impegnate nei soccorsi, e autorità statali che rifiutano di consentire la conclusione delle operazioni di soccorso sul proprio territorio.
A ben vedere, risulta forse addirittura eccessiva l’acribia con cui il Tribunale si impegna nel dimostrare che, rispetto ai tre soccorsi operati dalla Open Arms, non fosse chiaro, alla luce della normativa applicabile, di chi fosse in via primaria la responsabilità di concedere il POS, e che comunque tale responsabilità non incombesse in via esclusiva o prevalente sull’Italia. Basta leggere il capo di imputazione, per constatare che la contestazione ha inizio quando la Open Arms, dopo due settimane dal primo soccorso, fa ingresso in acque italiane, in seguito alla sospensione da parte del Tar Lazio del decreto che tale ingresso aveva sino ad allora impedito: già nella prospettiva accusatoria, dunque, l’obbligo giuridico penalmente rilevante ai sensi dell’art. 40 co. 2 sorge con l’arrivo della nave nelle acque nazionali, proprio perché prima di questo momento la situazione era troppo intricata per potersi ricavare un inequivoco dovere di concedere il POS in capo alle autorità italiane.
5.3. Il fatto contestato all’imputato si colloca nell’ultima fase della vicenda, dal 14 al 20 agosto: certo non è irrilevante quanto accaduto prima di tale data, ma la questione veramente decisiva è la sussistenza dell’obbligo a partire dal momento in cui la nave è entrata in acque italiane e si è avvicinata all’isola di Lampedusa.
Sul punto, la sentenza esclude anzitutto che le condizioni meteo-marine che avevano indotto le autorità italiane a concedere l’avvicinamento della Open Arms alle coste di Lampedusa fossero di gravità tale, da configurare una situazione di distress della nave e quindi un nuovo evento SAR, la cui responsabilità sarebbe ricaduta per intero sull’Italia. Si tratta di una valutazione discutibile, considerato come pochi giorni dopo le condizioni igienico-sanitarie della nave siano state ritenute dalla Procura di Agrigento talmente gravi da imporre l’immediato sbarco dei naufraghi: ma è sicuramente una valutazione in fatto, che non ha senso discutere in questa sede.
Il profilo su cui vogliamo concentrare l’attenzione in queste note, in quanto ci sembra l’aspetto meno convincente della motivazione, riguarda l’ultima questione affrontata dalla sentenza a proposito dell’obbligo di POS, e cioè la questione se tale obbligo potesse ricavarsi in capo all’Italia sulla base di un generale dovere di solidarietà tra gli Stati coinvolti in un evento SAR, che imporrebbe ad uno Stato di intervenire di fronte all’inerzia degli altri obbligati. Al riguardo la sentenza, come visto sopra, offre una risposta negativa, in sostanza per due ordini di ragioni. La prima è che, già a livello di diritto internazionale, e quindi per quanto concerne la responsabilità dello Stato, il dato normativo disponibile configurerebbe tale dovere di solidarietà solo in termini di auspicio o di raccomandazione, evitando formule linguistiche idonee ad attribuirgli la cogenza di un vero e proprio obbligo giuridico; da tale constatazione deriverebbe poi, a livello di diritto penale interno e dunque di responsabilità individuale, l’impossibilità di ritenere tale dovere sufficientemente chiaro e preciso da poter soddisfare le esigenze di tassatività e determinatezza imposte dall’art. 25 Cost.
5.4. A noi pare che, rispetto ad entrambi tali profili, sia possibile pervenire a conclusioni diverse.
Quanto al primo profilo, crediamo sia utile partire da una premessa, del resto condivisa dallo stesso Tribunale. L’obbligo di salvare le vite di chi è in pericolo in mare è disciplinato da una serie di testi pattizi (tra cui il più rilevante, per quanto riguarda la vicenda che ci interessa, è senz’altro la Convenzione SAR di Amburgo), che tuttavia regolano, ma non fondano tale obbligo, che ha rango di principio di «diritto internazionale universalmente riconosciuto», per usare le parole della sentenza[26]. Il dovere di cooperazione tra gli Stati costieri rappresenta una specificazione di tale dovere di diritto consuetudinario: specificazione espressa in modo sintetico dalla Convenzione di Montego Bay (approvata a livello di Nazioni Unite) all’art. 98[27], e regolata in modo più specifico nei testi di applicazione regionale (come la Convenzione SAR e i suoi allegati, cui fa riferimento la sentenza per negarne la natura di obbligo giuridico).
Proprio l’art. 98 della Convenzione di Montego Bay ci pare di grande importanza quando impone l’obbligo di collaborare (la forma utilizzata è l’indicativo, non il condizionale) «quando le circostanze lo richiedono». Torniamo allora alla concreta situazione di fatto che si era venuta a configurare dopo il 14 agosto: la nave era in acque italiane, a poche centinaia di metri da Lampedusa, e l’altro Paese coinvolto negli eventi SAR e le cui coste erano concretamente raggiungibili dalla nave (Malta) aveva escluso di voler concedere lo sbarco. Nella situazione data, era ovvio che prima o poi i naufraghi sarebbero dovuti sbarcare a Lampedusa, visto che le condizioni della nave non consentivano altra soluzione; ed in effetti, è proprio quanto è accaduto, in seguito all’attivazione della Procura della Repubblica, che ha preso l’unica decisione possibile, che ostinatamente il Ministro dell’interno si rifiutava di assumere.
Ora, l’obbligo di diritto consuetudinario che impone di salvare le vite in mare ha come logico corollario quello di consentire ai soggetti soccorsi di sbarcare in tempi ragionevoli in un luogo sicuro, e tale luogo, nella situazione data, non poteva che essere Lampedusa. Ciò non significa, sia chiaro, che sin dall’inizio fosse univocamente l’Italia il Paese che doveva autorizzare lo sbarco; così come non significa che non si possano nutrire delle perplessità circa la gestione della vicenda da parte del capitano della nave, che sin dall’inizio aveva escluso l’eventualità di un viaggio verso la Spagna, anche quando la nave era probabilmente ancora in condizioni per sostenere un tale viaggio. Per una serie di circostanze, che eventualmente avrebbero potuto rilevare in altre sedi, la nave si trovava però nel porto di Lampedusa e non aveva la possibilità di andare altrove: davvero in questa situazione non esisteva per le autorità italiane alcun dovere di concedere il permesso di sbarcare, prima che le condizioni a bordo mettessero a rischio la stessa incolumità fisica dei passeggeri e dell’equipaggio?
La risposta negativa fornita dalla sentenza non ci convince, perché non basta constatare che le fonti pattizie regionali (la Convenzione SAR ed i suoi allegati) non contengano un preciso obbligo di cooperazione, quando il dovere di salvare vite in mare ha natura di principio di diritto consuetudinario, e non può che prevedere il dovere di consentire lo sbarco sul proprio territorio dei naufraghi soccorsi, quando gli altri attori coinvolti nella vicenda non abbiano adempiuto ai propri obblighi, e tale sbarco rappresenti in concreto l’unica opzione per concludere l’operazione di salvataggio.
Vi è, poi, un ulteriore ed importante elemento che ci pare rafforzare la tesi dell’obbligo giuridico di consentire lo sbarco. Una attenta dottrina ha di recente posto in luce come le regole in materia di soccorsi in mare non vadano cercate soltanto nella normativa internazionale (consuetudinaria o pattizia) relativa specificamente a tale ambito, poiché alla loro definizione forniscono un contributo decisivo anche le norme internazionali poste a tutela dei diritti umani fondamentali[28]. L’obbligo di tutela della vita, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, l’obbligo di non refoulement, il divieto di espulsioni collettive: sono tutte norme di diritto internazionale (contenute, per quanto interessa l’Italia, nella CEDU e nei suoi allegati) che non riguardano la gestione dei soccorsi in mare, ma che contribuiscono ad individuare le regole operative che devono essere rispettate anche nel caso dei soccorsi in mare.
La celebre sentenza Hirsi della Corte EDU del 2012 è al riguardo esemplare: l’obbligo per la nave italiana di portare in Italia, e non in Libia, i naufraghi soccorsi in acque internazionali non viene ricavato tanto dalla normativa in materia di soccorso in mare, quanto dall’art. 3 CEDU (che, vietando i trattamenti inumani e degradanti, viene posto a fondamento del diritto al non refoulement verso un Paese ove il soggetto è esposto al rischio di subire tali trattamenti) e dell’art. 4 Prot. 4 CEDU (che vieta le espulsioni collettive, ed impone una valutazione individualizzata della condizione di ciascun soggetto).
Nel caso che ci interessa, allora, non erano soltanto le norme (consuetudinarie e pattizie) in tema di diritto del mare, ad imporre allo Stato italiano lo sbarco dei naufraghi, una volta che si erano esaurite altre possibilità di risolvere il caso; era anche l’art. 3 CEDU che, vietando i trattamenti inumani e degradanti, imponeva agli organi dello Stato competenti di mettere fine ad una situazione che, con il protrarsi del soggiorno a bordo della nave di decine di persone provate fisicamente e psicologicamente dalle traversie cui erano andate incontro, sicuramente integrava gli estremi di una situazione riconducibile al paradigma della norma convenzionale.
5.5. Ritenuto quindi che, a nostro avviso, sia le norme sul diritto del mare, che quelle in tema di tutela dei diritti fondamentali, imponevano alle autorità italiane di concedere lo sbarco dei naufraghi, il successivo problema da risolvere è se tale obbligo gravante sullo Stato italiano avesse le caratteristiche per integrare, in capo alla persona fisica cui spettava istituzionalmente la decisione se autorizzare o meno lo sbarco, quel dovere giuridico di agire, che ex art. 40 co. 2 c.p. rappresenta il primo presupposto per la responsabilità penale a titolo omissivo.
Al riguardo, ci pare opportuna qualche precisazione rispetto all’affermazione della sentenza, secondo cui l’obbligo di agire penalmente rilevante è sottoposto alle esigenze di tassatività e determinatezza previste all’art. 25 Cost. In realtà, come ben noto, tali esigenze si esplicano in tutto il loro rigore quando si tratta di definire i contorni della fattispecie incriminatrice, ma non possono essere traslate sic et simpliciter rispetto alle fonti extra-penali da cui può derivare l’obbligo giuridico di agire cui fa riferimento l’art. 40 co. 2 c.p. Non è certo qui il caso di soffermarci sulle diverse teorie elaborate al proposito in dottrina, che si divide tra i sostenitori della teoria formale e quelli della teoria contenutistico-funzionale, teoria quest’ultima che ha di recente trovato riscontro nella giurisprudenza di legittimità nelle due decisioni della Cassazione che hanno deciso il controverso caso Vannini[29]. Anche per i sostenitori della più rigorosa teoria formale, è pacifico comunque che un obbligo giuridico penalmente rilevante potrà rinvenirsi «in norme giuridiche extra-penali ovunque ubicate, senza distinguere a seconda del loro rango. Potrà trattarsi di norme contenute in leggi in senso formale o in senso materiale, in atti generali e astratti del potere esecutivo, in atti normativi emanati da organi degli enti locali, ovvero in fonti di diritto privato, come un contratto o un atto unilaterale»[30]. Un conto, allora, è il principio di legalità in relazione alla formulazione della norma incriminatrice, cui si riferisce l’art. 25 co. 2 Cost.; un conto è la declinazione di tale principio rispetto all’elemento normativo dell’obbligo giuridico, rispetto al quale la legalità pacificamente si declina in termini meno stringenti.
Poste queste cursorie ma necessarie premesse dogmatiche, nella vicenda concreta ci pare indiscutibile che gli obblighi internazionali gravanti sull’Italia avessero caratteristiche idonee a costituire anche un dovere giuridico di agire per la persona fisica titolare dei poteri in grado di fare fronte agli obblighi dello Stato. Sia le norme di diritto internazionale consuetudinario e pattizio che impongono un dovere di solidarietà agli Stati in materia di soccorso in mare, sia (e a nostro avviso soprattutto) l’art. 3 CEDU, che vieta i trattamenti inumani e degradanti, sono norme giuridiche da cui può senz’altro derivare un dovere di attivazione, il cui inadempimento è sanzionabile penalmente ai sensi dell’art. 40 co. 2 c.p. Non si tratta, lo ribadiamo, di valutare se tali norme siano sufficientemente precise da rispettare i canoni della legalità penale, posto che la norma incriminatrice è quella che punisce il sequestro di persona, ma di verificare che esse abbiano quella natura «giuridica», richiesta dall’art. 40 affinché il non adempimento all’obbligo acquisti rilievo penale: e rispetto a tale verifica, davvero non vediamo come possa essere messo in discussione il carattere giuridico di entrambe le disposizioni prese in considerazione.
[1] Per una vicenda dai contorni non dissimili, in cui il Tribunale dei ministri ha disposto l’archiviazione rispetto all’accusa di omissione di atti d’ufficio (art. 328, comma 1 c.p.), abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e omissione di soccorso in mare (art. 1113 cod. nav.), in un caso in cui il rifiuto di concedere il POS aveva poi portato la nave Alan Kurdi a sbarcare i soccorsi a Malta, cfr. Trib. ministri Roma, 21.11.2019, in Sist. pen., 5.12.2019, con nota di De Vittor e Zirulia.
[2] Cass. civ., Sezioni Unite, 18.2.2025 (dep. 6.3.2025), n. 17687/24, in Sist. pen., 17.3.2025, con nota di Masera.
[3] GUP Catania, 14.5.2021, in DIC, 2021, n. 3.
[26] Sul punto, pacifico nella dottrina internazionalistica, cfr. per tutti Starita, Dovere di soccorso in mare e diritto internazionale nella recente giurisprudenza italiana, in Amoroso, Ancis (a cura di), La gestione del fenomeno migratorio tra mare e terraferma, 2024, p. 13 ss. e Papanicolopulu, The Historical Origins of the Duty to Save Life at Sea in International Law, in Journal of the History of International Law, 2022, 149 ss.
[27] Art. 98 Convenzione UNCLOS di Montego Bay: «Obbligo di prestare soccorso §1. (Omissis) §2. Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali».
[28] È la tesi argomentata in De Vittor, La migrazione via mare nel diritto internazionale, 2023, p. 101 ss.
[29] Cfr. Cass., Sez. I, sent. 7 febbraio 2020 (dep. 6 marzo 2020), n. 9049, e Cass., Sez. V, sent. 3 maggio 2021 (dep. 19 luglio 2021), n. 27905, entrambe disponibili su Sist. pen.
[30] Così ad esempio Marinucci, Dolcini, Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2024, p. 295.