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Camera dei deputati, Comm. Giustizia: Esame ddl 2528/2025 recante "Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime" (approvato dal Senato) (2528)

di Fabrizio Filice
giudice del tribunale di Milano

La presente relazione scritta costituisce la versione estesa della relazione tenuta dal dott. Fabrizio Filice (giudice del Tribunale di Milano) alla Commissione Giustizia, il 14 ottobre 2025, la quale segue e aggiorna la relazione già tenuta alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica, il 24 aprile 2025, sulla precedente versione del disegno di legge (1433), successivamente modificato (nel 2528) e approvato dal Senato il 23 luglio 2025.

Introduzione alla relazione 

Puntualmente, al ripresentarsi del fenomeno femicidiario, ormai strutturale nella società contemporanea, riprende anche il dibattito politico-mediatico sulle strategie di policy di contrasto alla violenza di genere. Un dibattito che si è anch’esso ormai di fatto strutturato sulla polarizzazione tra due diversi approcci in conflitto tra loro e sulla ripetizione dei rispettivi argomenti.

I fautori del primo approccio, che può definirsi culturale, sostengono, del tutto condivisibilmente, che quando un fenomeno criminale (in questo caso consistente nella cifra sistemica delle violenze sulle donne in ambito relazionale) si radica su un formante (sub)culturale estremamente consolidato nella società, l’indirizzare la policy di contrasto del fenomeno esclusivamente verso gli strumenti repressivi e sanzionatori si rivela un’arma spuntata, in quanto l’effetto deterrente, che normalmente si affida alla sanzione penale, viene in larga misura neutralizzato dalla radicazione sociale della subcultura che genera il reato.

All’opposto, i sostenitori del secondo approccio, che potremmo definire penalistico, ritengono, anche in questo caso del tutto condivisibilmente, che quando una determinata cultura o subcultura, anche molto diffusa e radicata nella società, entra in conflitto con i diritti umani e genera fenomeni criminali che ledono o mettono in pericolo tali diritti, la risposta dell’ordinamento non può che essere anche repressiva e sanzionatoria, in quanto l’affidare al solo (eventuale e spesso molto complicato) processo di cambiamento culturale la risoluzione del problema, significa abdicare al dovere dell’ordinamento giuridico di garantire i diritti umani e di proteggere le vittime, implicitamente consentendo agli autori di reato di invocare a propria difesa retaggi culturali inscalfibili, e quindi conferendo a questa difesa culturale una inammissibile capacità di neutralizzare il carattere precettivo dei diritti umani e dei diritti fondamentali.

I due orientamenti, muovendo entrambi da premesse vere, dovrebbero in teoria articolarsi su un piano di confronto e di integrazione reciproca; invece, i rispettivi sostenitori scelgono per lo più di collocarsi in opposti schieramenti politico-ideologici che tendono a scontrarsi, più che a confrontarsi, cercando di sostenere ognuno l’autoreferenzialità delle proprie premesse e l’autosufficienza delle proprie conclusioni. 

Così, gli ideologi dell’approccio culturale criticano l’uso dello strumento penale in sé e per sé, come mezzo di contrasto alla violenza di genere. Ritengono che le attuali fattispecie incriminatrici della violenza e dell’omicidio, per quanto inconfutabilmente “neutre” dal punto di vista del sesso, del genere e delle relative dinamiche (il genere attualmente non esiste nel diritto penale italiano, e quindi non esiste neanche la violenza che da esso origina), siano nondimeno sufficienti a perimetrare l’ambito dell’intervento penale, che non deve andare oltre la processazione della violenza comune, lasciando alla cultura il compito di modificare i comportamenti dei cittadini che originano dalla sovrastruttura sociale di genere e dalle sue ataviche e consolidate dinamiche. 

I sostenitori di questo orientamento tacciano di femminismo punitivo e di vittimo-centrismo quanti e quante sostengono, invece, la necessità che lo Stato, tramite il diritto penale, protegga le vittime della violenza di genere e ne reprima le manifestazioni; sino a sostenere, sempre più frequentemente e con maggiore enfasi, che l’approccio vittimologico, nel prendere pienamente in considerazione i bisogni di protezione e di giustizia delle vittime, non sia altro che una forma di populismo penale, e che costituisca quindi un pericolo per il garantismo; salvo poi recuperare con entusiasmo quelle (e solo quelle) applicazioni del paradigma vittimario che possono risolversi in vantaggi per il reo, a cominciare dalla (tuttora poco compresa e, anzi, in larga parte fraintesa) giustizia riparativa. 

Questo filone culturale, a ben vedere, pur muovendo da una premessa condivisibile, che sta nella necessità di integrare l’intervento penale con programmi di educazione, a tutti livelli, alla consapevolezza di genere, giunge tuttavia alla conseguenza paradossale di predicare un’ostilità pregiudiziale al diritto penale in sé e per sé, non riconoscendolo come uno strumento ordinamentale cruciale per la tutela dei diritti e, soprattutto, deformando l’essenza stessa del garantismo, che viene confuso con un reo-centrismo puramente ideologico, sino a essere del tutto sovrapposto al diritto di difesa dell’imputato. Ma il garantismo penale è davvero tale solo se si garantiscono tutte le parti coinvolte nel processo, incluse le vittime, e si bilanciano equamente i rispettivi diritti con il superiore interesse pubblico alla protezione dei beni giuridici. 

All’opposto, sul versante dell’approccio penalistico, si nota una preoccupante tendenza al rifiuto di affrontare in modo integrato il problema degli stereotipi di genere che provocano la discriminazione e la violenza, principalmente ma non solo contro le donne, bensì contro tutti gli uomini e le donne che cercano di rivendicare, coerentemente con il discorso dei diritti umani, la libertà di autodeterminarsi in ordine alla sfera del genere e non accettano più che la caratteristica biologica (e non sociale) del sesso cromosomico si trasformi in una sorta di “incorporazione sociale” che compromette la loro libertà di scelta sulle proprie aspirazioni, sui comportamenti, sulle relazioni affettive e sessuali e sulle scelte riproduttive. 

L’orientamento culturale coglie senza dubbio nel segno quando denuncia che tale refrattarietà a confrontarsi con gli stereotipi di genere deriva dalla irrealizzabile aspirazione, che è prima di tutto politica, a contrastare il fenomeno della violenza di genere senza intaccare gli stereotipi che lo alimentano; perché evidentemente si ritiene che tali stereotipi presidino un ordine sociale di genere che non solo si vuole salvaguardare, ma che si vuole anzi riaffermare come baluardo di una pretesa contro-egemonia culturale, che rinneghi le aperture faticosamente ottenute negli ultimi decenni, e ben lungi dall’essere compiute, sulla parità di genere delle donne in tutti settori sociali, lavorativi, economici e familiari; nonché sui diritti antidiscriminatori delle persone l.g.b.t.q.a.i. plus, sul riconoscimento delle nuove formazioni sociali e sulla disciplina della genitorialità derivante dalle tecniche procreative medicalmente assistite su base intenzionale. 

A questo punto, la vera urgenza è quella di sottrarre a questo sterile dibattito ‒ che non può che esitare nel vuoto, attesa la fallacia conclusiva dei due schieramenti che lo alimentano ‒ il monopolio sul discorso, informativo e strategico, in materia di contrasto alla violenza di genere.

Ci sono, in Europa e nel nostro Paese, le competenze per dare luogo a un policy network che ridisegni le caratteristiche dei processi decisionali in materia di politiche di genere, promuovendo una struttura relazionale istituzionalizzata tra lo Stato e gli esperti ed esperte in studi di genere (non solo in campo giuridico, ma anche in campo sociologico, medico e psicologico), così da legare stabilmente, e in modo stringente, le commissioni parlamentari, e gli apparati burocratici di riferimento, alla migliore scienza accademica in tema di genere e all’associazionismo specializzato, con particolare riferimento ai centri antiviolenza. 

La chiave di volta che può trasformare un ripetitivo e inconcludente dibattito ideologico-politico in un processo decisionale di cui c’è un grande bisogno, sta nella de-ideologizzazione del dibattito stesso, a cominciare da una lucida descrizione della realtà attuale. 

Una realtà in cui la tematica di genere è appena uscita da una ristretta nicchia accademica per affacciarsi all’opinione pubblica, dalla quale è stata immediatamente “fagocitata” in una logica di incompetenza e contrapposizione politica. 

Fuorviati dal discorso politico-mediatico, molti sono disposti a schierarsi sui temi di genere senza possedere nemmeno le minime nozioni di base rispetto a essi, a cominciare da cosa sia e da dove origini la sovrastruttura sociale di genere, quando e da chi tale struttura è stata scoperta e veicolata nel sapere antropologico, storico e filosofico; in che rapporto gli studi di genere stiano con i movimenti civili e politici che, dall’Illuminismo in avanti, hanno sostenuto i diritti delle donne, a cominciare dal suffragio universale; e cosa si intenda esattamente quando si parla di sesso, genere, orientamento sessuale, identità o espressione di genere, non binarismo, genitorialità intenzionale. 

A queste condizioni, chiaramente, l’aspettativa di affidare, nel breve o medio termine, il compito di modificare comportamenti violenti, che originano dalla sfera di genere, a un cambiamento culturale, è destinata a un punto di caduta analogo a quello dell’aspettativa di affidare questo compito al solo diritto penale. 

Come si spiega nella relazione inviata alla Commissione Giustizia, il fenomeno criminale della violenza di genere è di tale diffusione e gravità da richiedere a pieno a titolo un intervento penale modellato sulle dinamiche di genere, in quanto le norme sinora applicate, completamente estranee all’area di genere, hanno svolto solo un ruolo di supplenza che si è prevedibilmente rivelato inefficace.

Il disegno di legge 2528 del 2025, introduttivo (tra l’altro) del delitto di femminicidio e dell’aggravante speciale di misoginia, si muove, secondo l’opinione di scrive, nella direzione giusta, in quanto, rispetto alla prima versione del testo (il disegno di legge 1433), infrange realmente, e per la prima volta, la neutralità di genere del sistema penale e struttura il femminicidio, così come gli altri reati violenti a cui accede l’aggravante, come fatti di reato originanti da stereotipi di genere in danno alle donne. 

L’ordine di genere viene, con questa norma, per la prima volta messo in discussione nell’ordinamento penale, seppure non nella sua interezza ma solo (come si spiega nella relazione) nell’aspetto della subalternità stereotipata del genere femminile a quello maschile; ed è questo un passaggio importantissimo, non solo perché colpisce il pilastro senz’altro maggiore e originario dell’ordine di genere, che è quello in danno alla libertà e all’uguaglianza delle donne, ma anche perché i numeri della violenza restituiscono una percentuale assolutamente maggioritaria di vittime donne, ragazze e bambine. 

Non solo, il processo di modifica del disegno di legge, dal 1433 al 2528, è stato effettivamente contrassegnato da uno spirito di policy network: le audizioni di esperti ed esperte nelle commissioni parlamentari, soprattutto la Commissione Giustizia del Senato, si sono rivelate utili in quanto hanno trovato nel decisore politico un atteggiamento di ascolto e di apertura, nel senso della disponibilità ad accogliere le critiche segnalate al disegno 1433 e le modifiche suggerite, in un’ottica di compromesso con l’esigenza politica di non andare oltre al perimetro decisionale stabilito, limitato al contrasto alla violenza di genere sulle donne (perimetro peraltro in linea, come pure si spiega nella relazione, con il corrente orizzonte europeo, rappresentato dalla Direttiva 1385 del 2024).

Questo percorso, che ha portato al disegno di legge 2528, attualmente all’esame della Camera dei deputati, deve certamente continuare, gettando le basi per un programma di consapevolizzazione dell’opinione pubblica sui temi di genere, dal quale possano prendere le mosse, nel medio e lungo termine, anche cambiamenti spontanei dei comportamenti degli uomini e delle donne nella sfera delle relazioni di genere.

Un programma davvero complesso e incerto nella riuscita, bastando considerare che l’ordine di genere e i relativi stereotipi risultano già presenti nei primissimi regimi definibili come politici che si affacciano alla fine del Neolitico (i popoli mesopotamici), di cui tutti dovrebbero conservare memoria dagli studi fatti alla scuola dell’obbligo.

Basta questa considerazione per capire che non si può, in questa materia, parlare di semplici “campagne di sensibilizzazione”, perché l’ordine culturale che si aspira a trasformare, è insito nella stessa identità della specie umana, almeno da quando abbiamo traccia di un’umanità non più semplicemente tribale ma già strutturata come società politica. 

Questo processo di cambiamento culturale, che è già iniziato nel passato (se ne rinvengono tracce ben prima dell’Illuminismo, già nell’epoca classica), deve ovviamente continuare con una consapevolezza sempre maggiore, ma senza dimenticarne l’ottica prospettica, e senza illudersi di poterne collocare il compimento nel breve o medio termine; probabilmente, se la specie umana continuerà la propria vita sulla Terra, arriveranno generazioni di individui che non si relazioneranno più secondo un ordine di genere precostituito, ma certamente non saranno le generazioni attualmente viventi. 

Nel frattempo, all’interno di questo percorso, si deve fare tesoro dei progressi già acquisiti, a cominciare dalla recente presa di consapevolezza, nella Comunità internazionale, della necessità di far seguire all’affermazione dei diritti umani, e in particolare dei diritti umani delle donne, politiche regolative di contrasto alla violenza di genere, nelle quali il diritto penale gioca senz’altro un ruolo da protagonista, avendo la possibilità, e quindi anche il dovere, di implementare la protezione delle vittime, la repressione dei crimini e la punizione e risocializzazione dei colpevoli.

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1. Le principali modifiche rispetto al Disegno di legge 1433 del 2025

1.1. Il DDL 2528, approvato dal Senato nella seduta del 23 luglio 2025, è il risultato di una modifica del precedente DDL1433 del 2025.

In sede di audizione informale innanzi alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica, in data 24 aprile 2025, alla cui relazione scritta si rimanda[1], si erano evidenziati i profili critici della prima versione del testo e le possibili proposte correttive.

In questa sede, prendendo atto delle significative modifiche apportate nella seconda versione, già approvata dal Senato (2528), si proverà a rispondere all’interrogativo se, in questa seconda formulazione, l’intervento normativo sia in grado di superare le importanti criticità segnalate dall’Accademia in relazione al primo testo, soprattutto in riferimento al riscontrato deficit di legalità e di materialità della fattispecie come introdotta dal DDL 1433, in particolare sotto l’aspetto della insufficiente tipizzazione dell’illecito, il che aveva portato molti giuristi a inquadrare l’intervento normativo nell’area del mero simbolismo e populismo penale.

Si anticipa che, secondo l’opinione di scrive, le criticità in questione, soprattutto quelle relative alla tipizzazione della fattispecie, risultano in gran parte superate dal DDL 2528 e che l’attuale versione del testo, a prescindere dalla condivisibilità o meno sotto il profilo della politica giudiziaria penale, ben può prestarsi a una coerente applicazione nel diritto vivente. 

 

1.2. Come il DDL 1433, anche il 2528 si compone principalmente di una parte sostanziale (art. 1), di una parte processuale (art. 3) e di una ordinamentale-penitenziaria (artt. 5), alle quali si aggiungono alcune disposizioni specifiche, ad esempio in materia di campagne di sensibilizzazione (art. 6) e di formazione degli operatori (art. 8) in materia di violenza sulle donne e di violenza domestica, nonché ulteriori disposizioni di tipo ordinamentale, specificamente relative all’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero (art. 10).

 

1.3. Per quanto riguarda la parte sostanziale, si nota anzitutto una maggiore coerenza logico-sistematica dell’impianto normativo, nel chiarire e coordinare i due primari settori di intervento, che sono, da un lato, l’introduzione del reato di femminicidio (art. 577-bis c.p.) e, dall’altro lato, l’introduzione di un’aggravante speciale a effetto speciale, che si potrebbe a ragione denominare “aggravante di misoginia”, in alcune fattispecie di reato nelle quali si concretizza, in modo particolare, il fenomeno della violenza sessista contro le donne, vale a dire 1) il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), che è quello che riporta anche le maggiori modifiche strutturali[2]; 2) il delitto di lesioni personali aggravate (artt. 582 e 585); 3) il delitto di interruzione di gravidanza non consensuale (art. 593-ter); 4) il delitto di violenza sessuale aggravata (artt. 609-bis, 609-ter); 5) il delitto di atti persecutori (art. 612-bis); 6) il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter).

1.3.1. Il delitto di femminicidio, previsto dal nuovo art. 577-bis c.p., si presenta profondamente diverso, a livello strutturale, rispetto alla precedente versione del DL 1433. Nella prima versione, infatti, si prevedeva che «chiunque cagiona la morte di una donna, quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo». 

In molti, incluso chi scrive, avevano ritenuto che l’opzione sottesa a quel testo consistesse in un criterio meramente essenzializzante, in quanto si sceglieva di ancorare la ragione dell’incriminazione speciale di femminicidio, rispetto a quella generale di omicidio, esclusivamente al sesso e al genere femminile della vittima («persona offesa in quanto donna»), mentre le precisazioni successive («per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità») apparivano poco più che una tautologia, senza minimamente cogliere il portato strutturale, sociologico e culturale del genus fenomenologico della violenza di genere, della quale la violenza, soprattutto (ma non esclusivamente) maschile, sulle donne rappresenta la species maggiore sia in termini qualitativi che in termini quantitativi.

Da tale opzione essenzialista nasceva un’evidente incertezza del bene giuridico tutelato, che non era (e non è) pensabile di ravvisare nella tutela del sesso biologico femminile in sé e per sé, in quanto tutto il portato degli studi sociologici e filosofici di genere è concorde sul fatto che la violenza di genere in generale, e la violenza sulle donne in particolare, non deriva da un’ostilità pregiudiziale e generalizzata verso le caratteristiche biologiche della donna, bensì dalla sovrastruttura di genere: una vera e propria sovrastruttura sociale di oppressione, la quale, nell’aspirazione a mantenere un determinato ordine sociale, impone agli uomini e alle donne canoni rigidi di pensiero e di comportamento (sinteticamente imperniati su un “triangolo di ferro” costituito tra tre formanti: il binarismo di genere, l’eteronormatività e la subalternità del genere femminile a quello maschile) e trova il modo, attraverso il sistema educativo, di farli assumere ai bambini e alle bambine, inculcando loro precomprensioni stereotipate conformi a questi canoni rigidi, che poi ne condizionano il comportamento da adulti, prevalendo (in quanto maturati a livello inconscio sin dall’età infantile) sui messaggi formali di parità, inclusione e anti-subordinazione di genere che vengono invece veicolati nella superficie dell’ordinamento socio-giuridico. 

Da tale incertezza del bene giuridico tutelato nel 1433, dovuta alla deliberata omissione del movente di genere, sostituito da un movente essenzialmente biologico, ne nasceva, “a cascata”, un pericoloso deficit di tipicità della norma, che avrebbe potuto avere anche importanti conseguenze di sviamento del processo penale e di adulterazione del ragionamento probatorio e decisorio, nella misura in cui processo e decisione avessero provato a concentrarsi sulla prova di un movente psicologico, tutto interiore all’autore di reato, di odio della donna in quanto biologicamente tale, e avessero invece tralasciato il vero movente di genere, che non si esprime sul piano della repulsione biologica per la donna, bensì sul piano dell’odio sociale verso una donna che si sottragga alle aspettative stereotipate che l’autore, o l’autrice, di reato abbiano maturato su di lei proprio in quanto donna, e quindi sul comportamento che essa dovrebbe avere nell’ambito familiare, sociale e/o della relazione tra i sessi.

L’attuale formulazione del delitto di femminicidio, recepita nel 2528, fa invece un deciso passo avanti nella direzione giusta.

La norma attuale prevede infatti che «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali è punito con la pena dell’ergastolo». 

Nell’attuale versione, quindi, il riferimento alla persona offesa come donna assume, alla luce delle specificazioni ivi contenute, una valenza nient’affatto biologica o essenzializzante, ma propriamente idonea a cogliere la matrice strutturale, sociale e culturale della violenza di genere, attraverso i chiari riferimenti 1) all’atto di odio o di discriminazione; 2) all’atto di prevaricazione; 3) all’atto di controllo, possesso o dominio; 4) al rifiuto della persona offesa di instaurare o mantenere un rapporto affettivo; 5) alla limitazione delle libertà individuali della persona offesa.

Si tratta, infatti, di riferimenti chiarissimi alla dinamica socioculturale stereotipata che sta alla base della violenza di genere e che si estrinseca proprio in atti di discriminazione, di prevaricazione, di controllo, quando non di vero e proprio possesso e dominio, o comunque di limitazione delle libertà individuali della persona offesa, nella maggior parte dei casi originanti dal suo rifiuto di accettare la propria sub-valenza in ambito relazionale e/o familiare, rifiutando di instaurare o di mantenere il rapporto affettivo, o i rapporti familiari, nel cui ambito tale sub-valenza le viene imposta. 

Il focus del bene giuridico tutelato è a questo punto correttamente ravvisabile, in termini negativi, nel contrasto all’oppressione di genere e, in termini positivi, in un principio di anti-subordinazione di genere, il quale trova la sua esplicazione anche a livello costituzionale, non solo nelle norme antidiscriminatorie e solidaristiche di cui agli articoli 2 e 3, ma anche nel principio dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi nel matrimonio, di cui all’articolo 29, e, secondo alcune autrici, anche nell’articolo 37, che nomina espressamente la differenza femminile, prevedendo non solo l’uguaglianza giuridica e retributiva della donna lavoratrice, ma anche una protezione speciale per la donna lavoratrice in quanto madre. 

A tale chiarezza dell’oggettività giuridica della norma consegue, a parere di scrive, anche una compiuta tipizzazione dell’illecito e dei criteri distintivi tra la fattispecie di femminicidio e quella di omicidio, che resta applicabile, in base al capoverso del primo comma della fattispecie, quando si verta al di fuori del femminicidio. 

A chiarire ulteriormente il rapporto di specialità tra le due fattispecie, contribuiscono gli ultimi tre capoversi dell’art. 577-bis, dedicati alla regolazione del concorso delle circostanze aggravanti (incluse quelle previste, per l’omicidio, agli artt. 576 e 577) con eventuali circostanze attenuanti: una regolazione che non ricorre a “effetti rigidi” né a divieti di bilanciamento tra le varie circostanze, lasciando al giudice ampia discrezionalità in merito, salvo prevedere delle soglie di pena minime per il reato di cui all’art. 577-bis, anche a seguito del bilanciamento di circostanze. 

La ricerca della fonte di prova nelle indagini, e il darsi stesso della prova nel processo, saranno quindi focalizzati non già sulla dimostrazione di oscuri moventi interiori, bensì sulla ricostruzione di dinamiche relazionali ampiamente osservabili e suscettibili di essere provate in dibattimento: la condotta discriminatoria per motivi d’odio (che già costituisce l’ossatura ideal-tipica dei “delitti contro l’eguaglianza”, di cui agli artt. 604-bis e 604-ter c.p.), la prevaricazione, le dinamiche di controllo agite dall’autore di reato sulla vittima, sino a trattarla (nei casi di possesso e dominio) come una cosa di sua proprietà, e a seguire la limitazione delle libertà individuali della vittima, così come il suo rifiuto verso la o le relazioni affettive nelle quali, o a causa delle quali, la persona offesa subisce quelle condotte di discriminazione, prevaricazione, controllo e limitazione.

La “prova provata” che questa descrizione normativa coglie nel segno sta nella sua capacità di dare idealmente una “copertura” retroattiva a tanti casi di femminicidio di cui si è discusso in tempi recenti: quelli nei quali l’autore di reato non accettava la volontà della vittima di separarsi o di lasciarlo, oppure la volontà di portare o non portare a termine una gravidanza, oppure ancora non accettava il suo rifiuto di averlo come partner; ma anche i casi in cui la persona offesa ha tentato di sottrarsi a una famiglia oppressiva che cercava di imporle retaggi subculturali e patriarcali come il matrimonio forzato, casi nei quali gli autori di reato ben possono essere anche donne che, esattamente come gli uomini della famiglia, tentino di imporre una cultura sessista alle figlie, alle sorelle o alle nipoti. 

Ed è proprio da questa capacità connotativa dell’ampia casistica dei femminicidi maturati in un contesto di violenza di genere, che il nuovo reato di femminicidio trova la propria validazione epistemologica nell’ambito della tutela penale antidiscriminatoria. 

1.3.2. Le stesse considerazioni non possono quindi non valere anche per l’aggravante di “misoginia”, che accede ai citati reati di maltrattamenti, lesioni, interruzione forzata di gravidanza, violenza sessuale, atti persecutori e c.d. revenge porn.

Anche in questo caso, la formulazione dell’aggravante, che ricalca quella del femminicidio (i.e., «quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali»), appare obiettivamente funzionale a distinguere le fenomenologie delittuose maturate in un contesto di violenza di genere sulle donne, dalla casistica estranea a tale fenomeno, alla quale l’aggravante non sarà ovviamente applicabile. 

 

1.4. Cosa resta dunque, sul piano critico, da osservare su questa norma? E ciò che resta da osservare è sufficiente per esprimersi negativamente sull’opportunità e utilità della sua introduzione, in particolare per ciò che attiene a una eventuale riserva sulla sua conformità costituzionale? 

Bene, a parere di scrive ciò che emerge dal DDL 2528, ancor meglio che nel precedente 1433 (il cui difetto di chiarezza ne impediva, in una certa qual misura, anche la puntuale analisi da una prospettiva severamente critica) è l’importante impronta politica della selettività dell’incriminazione, all’interno del fenomeno della violenza di genere. 

È del tutto chiaro infatti che, con questo disegno di legge, il legislatore corrente intende selezionare, all’interno del genus violenza di genere, una sola species tra le sue varie manifestazioni, che è la violenza, non solo maschile ma generalmente di tipo sessista, contro le donne, tralasciando invece le fenomenologie discriminatorie e violente che parimenti originano dall’oppressione di genere, come l’omo-lesbo-bi-transfobia e la violenza contro le persone queer e non binarie. E questo perché, tra i tre pilastri che reggono la struttura oppressiva di genere, cioè il binarismo di genere, l’eteronormatività e la subalternità del genere femminile (c.d. “triangolo di ferro”), il legislatore politico intende oggi rivolgere un’azione di contrasto, e di connessa tutela penale delle vittime, solo all’ultima, la subalternità del genere femminile rispetto a quello maschile, lasciando invece al binarismo di genere e all’eteronormatività lo status positivo di agenti regolativi di un ordine sociale non solo accettato, ma anche perseguito. 

È questo un rilievo critico certamente importante e nel quale la norma, apertamente e dichiaratamente selettiva, incorre appieno. 

Va però chiarito, al riguardo, che tale argomento critico può articolarsi esclusivamente su un piano di critica della politica giudiziaria, mentre non attiene, almeno a parere di chi scrive, alla tenuta della norma penale di nuova introduzione e, soprattutto, non ne compromette la conformità costituzionale né l’utilità di applicazione. 

In primo luogo, infatti, onestà intellettuale impone di dare atto che le tematiche di genere, solo in anni recenti uscite da un ristretto ambito accademico per entrare a pieno titolo nel dibattito pubblico e politico, non sono ancora oggetto di un’elaborazione consapevole e matura da parte della società civile e della cultura politica, e sono ancora percepite per lo più a livello simbolico, come fattori di schieramento politico e quindi anche molto divisive[3]

Non essendoci ancora un’elaborazione sociale davvero consapevole, matura e coerente sulle tematiche di genere, in particolare per ciò che riguarda le tutele antidiscriminatorie (non solo nel diritto penale ma anche e, soprattutto, nel diritto civile e nel diritto di famiglia) delle persone l.g.b.t.q.i.a. plus e delle relative formazioni sociali, è dunque fisiologico che il processo politico di agenda setting sia ancora impegnato in un serrato confronto, che a volte somiglia a un vero e proprio scontro culturale, sulla definizione del genere e di quelle, fra le sue espressioni e manifestazioni, che meritano riconoscimento e protezione nell’ordinamento giuridico. 

Un confronto che appare a tratti molto teso, anche per via della delicatezza e dell’importanza delle aree sociali e giuridiche che ne sono interessate, le quali vanno dalle politiche in tema di filiazione e di tecniche procreative al riconoscimento dei loro effetti, per giungere alla possibile delineazione di una nuova nozione di genitorialità e, ancora oltre, al riconoscimento di un “genere non binario” al momento non contemplato dall’ordinamento giuridico. 

In questo contesto molto variegato e a tratti socialmente teso è quindi, si diceva, fisiologico che il legislatore possa esercitare la propria facoltà di indirizzo politico verso la valorizzazione solo di alcune e non di tutte le aree tematiche della violenza e della discriminazione di genere. 

Con l’introduzione del reato di femminicidio e dell’aggravante di “misoginia”, il legislatore intende oltretutto concentrarsi sulla manifestazione della violenza di genere che, almeno in termini quantitativi e statistici, è sicuramente quella di gran lunga più diffusa e trasversale, e nella quale i numeri della violenza, compresi quelli dei femminicidi, sono obiettivamente impressionanti e tanto più intollerabili quanto più si consideri, invece, il generale trend di decrescita, negli ultimi quarant’anni, degli omicidi e dei reati violenti che non presentano un movente di genere. 

Inoltre, va ricordato che la selezione dell’area del penalmente rilevante, quando non sia elusiva di veri e propri obblighi di incriminazione posti a livello costituzionale (e non è questo il caso), non può essere di per sé considerata come violativa del principio costituzionale di eguaglianza, giacché se il principio di eguaglianza è, o almeno dovrebbe essere, tendenzialmente onnicomprensivo sul piano delle tutele antidiscriminatorie civili, l’ordinamento penale è al contrario retto dal principio di legalità, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., del quale è un corollario imprescindibile il divieto di analogia in malam partem (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta), per effetto del quale il principio di eguaglianza non può essere invocato per promuovere, da parte della Corte costituzionale, un’estensione dell’area del penalmente rilevante oltre il perimetro disegnato dal legislativo. 

Si aggiunga da ultimo che un margine, anche piuttosto ampio, di selettività è tuttora presente anche nella legislazione europea, che pure costituisce, come è noto, il principale motore di accelerazione per la processazione politica, da parte degli Stati membri, dei c.d. “diritti di nuova generazione” legati alla tutela antidiscriminatoria di genere, sia nell’ambito del diritto del lavoro e di famiglia (c.d. gender mainstreaming) sia nell’ambito del diritto penale antidiscriminatorio e della tutela delle vittime di reato. 

Basti al riguardo citare la recente Direttiva (UE) 2024/1385, sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, adottata il 14 maggio 2024 dal Parlamento europeo e del Consiglio, la quale dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 14 giugno 2027.

La Direttiva, da un lato, riconosce la violenza di genere come fenomeno complesso e fondato su un sistema strutturale di oppressione generatore di violenza e di discriminazione ad ampio raggio, ma, dall’altro lato, chiarisce che le misure ivi stabilite sono concepite per rispondere alle esigenze specifiche delle donne, delle ragazze e delle bambine, in quanto, come confermano dati e studi, esse sono vittime per antonomasia delle forme di violenza ivi contemplate, segnatamente la violenza contro le donne e la violenza domestica. 

Con riferimento alle manifestazioni della violenza di genere diverse dalla violenza contro le donne, la Direttiva si limita, in modo molto più generale, a chiarire che anche le altre persone che sono oggetto di queste forme di violenza dovrebbero beneficiare delle stesse misure e che il termine «vittima» dovrebbe pertanto riferirsi a chiunque, indipendentemente dal sesso e dal genere (Considerando 12).

Del resto, la prospettiva della Direttiva è quella dell’integrazione della normativa europea con la Convenzione di Istanbul e con la CEDAW, come esplicitato nel Considerando (4), ove si specifica che la Direttiva vuole sostenere gli impegni internazionali assunti dagli Stati membri per combattere e prevenire la violenza contro le donne e la violenza domestica, in particolare la convenzione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW) e, ove pertinente, la convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul).

La maggiore cautela adottata dalla Direttiva nei confronti della Convenzione di Istanbul, che viene richiamata «ove pertinente», dipende proprio dalla maggiore apertura della Convenzione sul tema del genere, dell’identità e dell’espressione di genere, tema che invece incontra tuttora riserve politiche e culturali da parte di molti Stati europei.

In conclusione, l’opzione scelta dal legislatore con l’introduzione del delitto di femminicidio, cioè di selezionare, nell’ambito del complesso e più ampio fenomeno della discriminazione e della violenza di genere, la sola fenomenologia della violenza sulle donne e della violenza domestica, appare invero piuttosto in linea con la tendenza europea, né si può d’altro canto negare l’utilità, se non l’urgenza, di una misura di questo tipo, sinora inedita nell’ordinamento giuridico, nel quale, come più dettagliatamente descritto nella relazione al 1433, che si richiama nuovamente sul punto[4], le fattispecie di omicidio aggravato attualmente presenti sono caratterizzate dalla circostanza oggettiva dell’esistenza di un determinato rapporto tra autore e vittima di reato, ma sono rigorosamente “neutre” con riferimento al sesso e al genere, e non contengono alcun riferimento alla sovrastruttura oppressiva sociale di genere in cui la violenza è maturata.

Sì che le fattispecie di omicidio aggravato attualmente contemplate nell’ordinamento, diversamente dal delitto di femminicidio di nuova introduzione, non possono costituire uno strumento realmente utile, sul piano sociale, a esplicare le principali funzioni, positive e negative, attribuite alla sanzione penale: quelle positive, che attengono alla promozione dei valori sociali che la condotta di reato ha violato, nella collettività e soprattutto nella persona del reo (i.e., la funzione di risocializzazione o, per usare le parole costituenti, la rieducazione del reo); e quelle negative, che attengono, sul paino generale, alla diffusione di un senso di deterrenza dal compiere condotte analoghe e, sul piano speciale, alla tendenziale neutralizzazione del rischio di recidiva. 

È chiaro che nessuna di queste funzioni può essere realisticamente perseguita dai processi e delle sentenze penali emessi nei casi di violenza e omicidio nei confronti delle donne, se le norme penali applicate, per prime, non inquadrano quella violenza come una violenza alimentata da un movente di genere nei confronti delle donne che ne sono vittime. 

 

2. Le disposizioni processuali 

2.1. Anche in riferimento alle disposizioni processuali contenute nel DDL 2528 si richiamano le considerazioni già svolte nella precedente relazione sul 1433[5], in quanto, in materia processuale, le modifiche alla prima versione del testo sono meno incisive, anche perché si tratta di disposizioni ab origine meno problematiche e controverse, e inserite nel solco già abbondantemente e adeguatamente tracciato dalle c.d. leggi sul “Codice rosso” (i.e., la 69 del 2019 e la 168 del 2023). 

 

2.2. In particolare, si guarda con favore a tutte quelle disposizioni che vanno ad ampliare il catalogo dei diritti informativi (e.g., in tema di patteggiamento), partecipativi (e.g., in tema di diritto della persona offesa di essere sentita personalmente dal pubblico ministero) e di protezione delle vittime, inserendosi peraltro nella tendenza legislativa ulteriormente rafforzata dalla citata Direttiva 1385 del 2024, nel senso di assicurare alle vittime di reato un proprio statuto di diritti, di facoltà e di garanzie che coesistano e si bilancino, nel corso delle indagini e del processo penale, con quelle dell’imputato.

 

2.3. Continua a suscitare perplessità, invece, la modifica dell’art. 275, comma 3, c.p.p., volta a inserire tra i reati oggetto della c.d. “doppia presunzione legale, di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare” (essenzialmente, i reati di mafia e terrorismo), anche i reati di maltrattamenti, lesioni personali (in questo caso è menzionato espressamente anche il delitto di deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, di cui all’art. 583-quinquies c.p.), interruzione forzata di gravidanza, violenza sessuale, atti persecutori e c.d. revenge porn.

Per quanto infatti la norma, rispetto alla prima formulazione del 1433, sia stata adeguata alla struttura che la Corte costituzionale ha progressivamente imposto a questo tipo di presunzione (la formulazione attuale prevede infatti che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine a tali reati, sono applicate le misure degli arresti domiciliari o della custodia cautelare in carcere, «salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari ovvero nei casi in cui le stesse, anche in relazione al pericolo per la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa, possano essere soddisfatte da altre misure cautelari»), questa norma continua a rappresentare un cortocircuito logico con le misure non custodiali specifiche (delle quali si presumerebbe contraddittoriamente l’inadeguatezza), che sono state appositamente introdotte e poi via via rafforzate, nel sistema penale, proprio per far fronte a questo tipo di reati (si tratta, come è noto, delle misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla persona offesa, di cui agli articoli 282-bis e ter del codice di procedura), le quali sono state ancora oggetto di un recente potenziamento da parte della legge 168 del 2023, e lo sono anche nello stesso DDL 2528, che implementa ulteriormente le disposizioni in tema di braccialetto elettronico applicato con il divieto di avvicinamento. 

Chi scrive continua a ritenere che al posto di una opzione carceraria massiva di questo tipo, la quale, oltretutto, visti i numeri dei procedimenti, andrebbe a incidere su una situazione di sovraffollamento carcerario che ha già raggiunto i massimi livelli di sostenibilità, il legislatore dovrebbe percorrere la strada dell’ulteriore potenziamento delle citate misure cautelari non custodiali speciali, i c.d. “ordini restrittivi”, ma non solo, come si è fatto sinora, nel senso del potenziamento (pur certamente necessario) degli strumenti di controllo utilizzabili, bensì anche nel senso del potenziamento degli strumenti conoscitivi e decisionali del pubblico ministero e del giudice.

 

2.4. Ci si riferisce, in particolare, al modello scientifico di approccio alla valutazione e alla gestione del rischio del protocollo di risk assessment, già sviluppato da alcuni Stati, anche extraeuropei (particolarmente noto il protocollo canadese S.A.R.A. - Spousal Assault Risk Assessment), mediante l’elaborazione, attraverso gruppi di studi composti da esperti ed esperte in varie discipline (psicologia, storia, sociologia, linguistica, medicina e diritto), di protocolli di intervista che dovrebbero essere sottoposti alla vittima il prima possibile, possibilmente già al primo contatto qualificato con un’agenzia statale, e che rappresentino chiaramente i fattori di rischio e quali e quanti siano presenti nel caso di specie, per orientare il valutatore (da quello di primo accesso, che potrebbe essere il medico di pronto soccorso o l’agente di polizia intervenuto per una lite domestica, sino al pubblico ministero e al giudice) nella determinazione del livello di rischio di reiterazione e di escalation della violenza, onde parametrare su tale rischio le richieste e le decisioni in ordine all’applicazione di misure cautelari di protezione e a tutela della vittima. 

In Italia questo approccio è ancora poco diffuso, e solo a livello sperimentale, ma non è mai stato legalizzato né disciplinato da alcuna delle recenti riforme che pure si sono proposte (soprattutto le citate leggi del 2019 e del 2023) di dare un’impronta sistematica al contrasto penale della violenza di genere.

E il tema continua, anche con questo DDL 2528, a essere ignorato dal legislatore, che sembra preferire più facili opzioni di carcerazione massiva, le quali mostrano però immediatamente tutta la loro debolezza in termini di dubbia tenuta costituzionale e, soprattutto, di fattibilità pratica, anche alla luce della conclamata insostenibilità della situazione generalizzata degli istituti penitenziari. 

S’ che una strada migliore per migliorare la protezione delle vittime di violenza potrebbe, forse, essere proprio quella di introdurre, nella legislazione procedurale in materia cautelare, un riferimento qualificato all’utilizzo di criteri ufficiali per la valutazione del rischio per le vittime di reato, e di rimettere l’individuazione e il periodico aggiornamento di tali criteri a una fonte sub-primaria secondo il modello della c.d. «norma penale in bianco», lasciando così spazio a un’integrazione tecnica della norma che ne consenta il continuo aggiornamento, rimesso all’instaurazione di una commissione ministeriale permanente di studio che mutui i caratteri della continuità e della multidisciplinarietà dall’esperienza di altri Paesi.

 

 


 
[1] https://www.questionegiustizia.it/articolo/profili-critici-e-possibili-proposte-correttive-al-disegno-di-legge-n-1433-del-2025-per-l-introduzione-del-delitto-di-femminicidio

[2] Si prevede infatti, oltre all’aggravante speciale di misoginia, anche l’estensione della condotta tipica di maltrattamento ai casi di condotte abusanti commesse nei confronti di persona offesa non convivente con l’autore di reato, nel caso in cui l’agente e la vittima siano legati da vincoli nascenti dalla filiazione; e ciò all’evidente fine di contribuire, per via legislativa, alla risoluzione della complessa questione se il delitto di maltrattamenti possa essere commesso anche in danno a persone offese non conviventi e quali siano, in questo caso, i criteri discretivi tra la fattispecie in oggetto e quella di atti persecutori, di cui all’art. 612-bis c.p. 
Questione, invero, affrontata con una certa instabilità dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, in particolare dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza 98 del 2021, ha adombrato (trattandosi di una sentenza di inammissibilità) il rischio che l’estensione della fattispecie di cui all’art. 572 c.p. a condotte poste in essere tra persone non conviventi, indipendentemente dalla tipologia e dalle ragioni del legame tra esse intercorrente, potesse integrare un’applicazione analogica della legge penale a sfavore del reo, come tale radicalmente vietata, a livello di fonti primarie, dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen. e, a livello costituzionale, dal principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta).
Sempre in tema di maltrattamenti, viene inoltre introdotta un’ipotesi speciale di confisca obbligatoria (art. 572-bis c.p.) dei beni, ivi compresi gli strumenti informatici o telematici o i telefoni cellulari, che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati per la commissione del reato: disposizione, questa, molto importante anche perché riconosce implicitamente la fenomenologia, sempre più diffusa, dei maltrattamenti commessi mediante le tecnologie dell'informazione e della comunicazione (TIC), tematica sulla quale la Direttiva (UE) 2024/1385, sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, interviene in modo significativo.

[3] Basti ricordare, al riguardo, il dibattito suscitato dal c.d. d.d.l. Zan (AS 2005), che andava nella direzione della estensione della disciplina dei delitti contro l’eguaglianza, di cui agli artt. 604 bis e ter c.p., anche all’omotransfobia, al sessismo e all’abilismo.

[4] V. nota 1.

[5] Ib.

27/10/2025
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La presente relazione scritta costituisce la versione estesa della relazione tenuta dal dott. Fabrizio Filice (giudice del Tribunale di Milano) alla Commissione Giustizia, il 14 ottobre 2025, la quale segue e aggiorna la relazione già tenuta alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica, il 24 aprile 2025, sulla precedente versione del disegno di legge (1433), successivamente modificato (nel 2528) e approvato dal Senato il 23 luglio 2025.

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