1. Premessa
La violenza degli uomini sulle donne, soprattutto quella consumata nell’ambito familiare e delle relazioni, costituisce innegabilmente un fenomeno criminale specifico, oltre che di elevato allarme sociale.
Non contrastano con questo inquadramento i dati statistici che indicano la costante e consistente superiorità del numero degli uomini vittime di omicidi rispetto a quello delle donne: l’analisi comparativa dei dati sugli omicidi in Italia, dal 2015 al 2024[1], condotta dal Servizio Analisi Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, attesta esattamente questo rapporto e il suo andamento pressoché costante nei nove anni considerati.
L’identificazione del fenomeno emerge, pertanto, dalla sostanziale stabilità del dato numerico nel corso del tempo (per quanto con un calo non irrilevante negli ultimi due anni) e dall’omogeneità del profilo criminologico dei fatti che colpiscono le donne.
L’analisi riportata nel più recente rapporto del 7 luglio 2025 del Servizio Analisi Criminale sugli omicidi volontari e la violenza di genere[2] evidenzia, infatti, che sulla totalità degli omicidi con vittime femminili sono nettamente prevalenti quelli commessi in ambito familiare-affettivo: nel 2024, per esempio, su 115 omicidi di donne, 100 sono avvenuti in tale ambito.
Rapporto che si manifesta in altrettanta dimensione anche nei due anni precedenti: 96 su 120 nel 2023, 106 su 130 nel 2022.
La lettura di questi dati conferisce al fenomeno della violenza contro le donne e, in particolare, a quello degli omicidi femminili, una natura «strutturale e – soprattutto – resistente […] rispetto agli innumerevoli interventi preventivi e repressivi»[3] che si sono adottati dal 2009 in avanti, dall’introduzione del reato di stalking, passando per il c.d. Codice Rosso, fino alla L. 168/2023, c.d. "Legge Roccella".
La natura sistemica, non contingente né emergenziale, del fenomeno necessita, pertanto, di un approccio parimenti sistemico, non emergenziale o contingente, che lo affronti e lo colpisca alla radice.
Le riflessioni che qui si porgono sono inscritte in tale parametro di riferimento e attengono specificamente a esaminare l’efficacia preventiva del disegno di legge in discussione, sia in termini generali, sia con riguardo al trattamento sanzionatorio sia in relazione alle finalità riabilitative connesse all’esecuzione della pena.
Pertanto, si rimandano interamente le questioni relative alla configurazione della fattispecie dell’art. 577-bis c.p. e delle ipotesi aggravate dei “reati sentinella” alle considerazioni di buona parte della dottrina penalistica che ne ha rilevato le criticità anche nei termini di dubbia compatibilità con il dettato costituzionale[4], non superate, ad avviso di chi scrive, dalle modifiche del testo originario introdotte al Senato, del tutto coerenti con l’impianto di mera connotazione motivazionale dell’azione su cui è stato costruito il delitto autonomo.
2. L’efficacia preventiva dell’introduzione del delitto di femminicidio
Il complessivo impianto del disegno di legge in esame si inquadra nella prospettiva del ricorso allo strumento della repressione penale per far fronte a emergenze effettive, percepite o presunte, che segna da decenni la produzione legislativa.
Oltre ad avere, appunto, una connotazione emergenziale e non organica, come richiede il fenomeno della violenza sulle donne, l’atteggiamento panpenalista, per il quale ogni criticità sociale determina una risposta repressiva, produce tanto effetto in termini di consenso popolare quanta inefficacia sul piano della prevenzione.
Quando si tratta in particolare di crimini violenti, l’inefficacia deterrente dell’irrigidimento sanzionatorio è un dato acquisito di cui rende ampia dimostrazione il costante aumento degli omicidi in alcuni Stati degli USA in cui sono puniti con la pena di morte.
La violenza di genere, inoltre, «si caratterizza per una componente emotiva e culturale che rende gli autori scarsamente permeabili al messaggio intimidatorio della norma penale. L’idea che la previsione dell’ergastolo possa fungere da efficace deterrente per gli autori di femminicidio si rivela priva di fondamento empirico. Tali delitti, infatti, raramente sono preceduti da un calcolo razionale delle conseguenze sanzionatorie, essendo piuttosto il prodotto di dinamiche relazionali spesso caratterizzate da una dimensione emotiva incontrollata»[5].
È un dato di esperienza, oltre che di scienza criminologica, comprovato, purtroppo, dagli accadimenti più recenti, come l’omicidio della giovane Pamela Genini, che sono stati segnati da particolare efferatezza e crudeltà: sono 70 le donne vittime di omicidio dall’inizio dell’anno e in molti casi la morte, procurata dal partner o ex partner, viene inflitta con modalità feroci, il corpo senza vita è ulteriormente violentato e oltraggiato.
L’autore di simili delitti agisce nonostante la consapevolezza di andare incontro alla più severa delle pene e, detto in parole semplici, a un uomo che arriva ad uccidere una donna con cui ha o ha avuto una relazione e magari anche i propri figli passano per la mente forse molte cose ma non il calcolo delle aggravanti e delle attenuanti. Non raramente si suicida poco dopo.
E in effetti, il delitto di “femminicidio” esiste già nel nostro ordinamento, ancorché non nominato in un titolo autonomo specifico, ed è punibile con l’ergastolo in ragione degli elementi di fatto normalmente ricorrenti nei casi che interessano la violenza di genere, attinenti ai rapporti tra la vittima e l’autore del reato e alle altre circostanze aggravanti previste dagli articoli 576, 577 c.p..
La rilevata stabilità sostanziale negli anni dei casi di omicidi con vittime femminili, spesso preceduti da atti di violenza, da maltrattamenti in famiglia, da azioni persecutorie, denota, pertanto, l’insuccesso dell’approccio penalistico, nonostante l’arricchimento delle risposte repressive che la nostra legislazione ha prodotto negli ultimi quindici anni.
Il reato autonomo di femminicidio che si vuole introdurre nel codice penale si presenta, in conclusione, come una risposta meramente reattiva che interviene sulla violenza già realizzata e di esclusivo tenore simbolico: nella prospettiva di uno Stato di diritto liberale il diritto penale, tuttavia, non è destinato a costruire un ordine morale o pedagogico ma a perseguire con efficacia fatti lesivi del “patto sociale”.
In mancanza di efficacia deterrente, il valore meramente simbolico dell’aver introdotto nel codice penale i termini “femminicidio” e “donna” si infrange contro la permanenza del fenomeno perseguito, con la conseguente ragionevole perdita di fiducia nell’azione dello Stato da parte della collettività che ha inizialmente applaudito al messaggio di apparente reattività estrema.
La risposta organica e di sistema che deve far fronte al fenomeno della violenza di genere va cercata su altri piani, di diretta incisività culturale, educativa, psicologica, economica: la costruzione di concrete reti di sostegno, anche materiali ed economiche, per le donne che subiscono minacce e violenze in famiglia, la diffusione, in ogni luogo di formazione, della cultura delle relazioni personali ispirata al rispetto e al rifiuto della violenza, l’istruzione degli operatori socio-sanitari e delle forze dell’ordine a individuare gli eventi sentinella e a fornire l’aiuto necessario, la predisposizione di centri d’aiuto psicologico non solo per le donne ma anche per gli uomini, sono alcuni esempi di una possibile azione integrata preventiva.
Si tratta di un complesso di interventi che richiede l’impegno di risorse umane ed economiche: non può realizzarsi a costo zero e, quindi, a clausola di invarianza finanziaria come, invece, previsto dall’art.14 del disegno di legge in discussione.
3. Il trattamento sanzionatorio
Una riflessione specifica, ancorché connessa con quella di ordine generale, meritano le previsioni sanzionatorie previste dall’art. 1 del disegno di legge per il reato di femminicidio: è evidente, infatti, il tenore simbolico che si intende trasmettere statuendo che il fatto è punito con la pena fissa dell’ergastolo.
Come osservato sopra, la punibilità con l’ergastolo di fatti che integrano la fattispecie dell’omicidio aggravato dalle circostanze in essi ordinariamente ricorrenti è già prevista nel nostro ordinamento e gli esiti giudiziari delle vicende all’attenzione delle cronache rendono anche l’evidenza della sua applicazione.
La previsione tassativa dell’ergastolo vuole indirizzare, dunque, un messaggio di reattività estrema dello Stato non tanto ai possibili autori del delitto, sulla cui impermeabilità a tale messaggio si è detto, quanto all’opinione pubblica generale.
La previsione di una pena fissa che sottrae al giudice la possibilità (il dovere) di calibrare la pena in relazione agli elementi oggettivi e soggettivi del fatto e di individualizzarla avendo riguardo alla persona dell’imputato, si pone tuttavia in netta frizione con i principi della giurisprudenza costituzionale che si sono affermati dalla sentenza della Corte n.50/1980.
Determinando un indirizzo del trattamento sanzionatorio costituzionalmente orientato, la Corte ha chiaramente statuito che «L'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento - contribuisce da un lato, a rendere quanto più possibile "personale" la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma; e nello stesso tempo è strumento per una determinazione della pena quanto più possibile "finalizzata", nella prospettiva dell'art. 27, terzo comma, Cost. […] In linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il "volto costituzionale" del sistema penale; ed il dubbio d'illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente "proporzionata" rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato».
Il primo punto problematico ha proprio attinenza con quest’ultima indicazione proveniente dalla Consulta: l’esclusione della possibilità di commisurare una pena in relazione alle connotazioni di gravità oggettiva e soggettiva del fatto, può comportare una disparità di trattamento rispetto a casi analoghi per i quali non è prevista la pena fissa dell’ergastolo e il bilanciamento delle circostanze aggravanti e attenuanti non è soggetto – quasi del tutto – a limiti (si pensi a un omicidio con vittima femminile per il quale non si raggiunge la prova delle motivazioni che integrano l’ipotesi speciale di femminicidio previsto in questo disegno di legge).
Il secondo e, forse, più serio profilo critico consiste nel fatto che l’ergastolo non è l’unica pena fissa prevista nell’apparato sanzionatorio del delineato art.577-bis c.p.: lo è anche la pena di 24 anni di reclusione che, a norma del comma 3, in deroga al disposto dell’art. 65 c.p., è prevista come minimo nel caso ricorra una sola circostanza attenuante o in quello in cui una circostanza attenuante sia ritenuta prevalente su taluna delle circostanze aggravanti previste dagli artt. 576, 577 c.p., giacché l’art.23 c.p. fissa esattamente in 24 anni il massimo della pena della reclusione[6].
Si configura, pertanto, un’altra situazione in netto contrasto con gli indicati principi costituzionali e potenzialmente produttiva di ulteriori disparità di trattamento rispetto a casi analoghi per i quali sia contestata la fattispecie prevista dall’art. 575 c.p. e, per effetto della ricorrenza di una circostanza attenuante o della prevalenza di questa sulle circostanze aggravanti che ordinariamente ricorrono nei fatti omicidiari con vittime femminili, può applicarsi una pena da 20 a 24 anni.
Peraltro, analoga possibilità di disparità di trattamento è ravvisabile anche nel bilanciamento previsto nel comma 4 della norma, relativo al caso della sussistenza di più circostanze attenuanti o della loro prevalenza sulle circostanze aggravanti degli artt. 576, 577 c.p.: la previsione del limite minimo di 15 anni di reclusione, in deroga a quanto statuito nell’art. 67 c.p. che lo determina in 10 anni, può integrare un ingiustificato rigore sanzionatorio a fronte di casi analoghi.
È necessario, a questo proposito, tenere in rigorosa considerazione la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale che, anche in tempi recentissimi, si è espressa inflessibilmente in ogni caso, sottoposto al suo giudizio, in cui il potere-dovere del giudice di commisurare la pena e di equilibrarla nel trattamento sanzionatorio concreto rispetto alla gravità del fatto e alle connotazioni individuali dell’imputato è stato limitato (non addirittura escluso come nelle previsioni del secondo e terzo comma dell’art. 577-bis c.p. configurato nel testo del disegno di legge di cui si discute) da vincoli nel bilanciamento delle circostanze.
La recentissima sentenza n.151/2025[7] con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.69, comma quarto, c.p., nella parte in cui prevede, per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione (art.630 c.p.) il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata (art.99, comma 4, c.p.), è esaustiva sul punto e nel richiamo non solo dei principi ma anche delle pronunce che nei decenni si sono succedute a ribadirli.
Afferma la Corte che «[c]ostituisce affermazione risalente nella giurisprudenza di questa Corte quella che il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di valutare il fatto in tutta la sua ampiezza, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto solo di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono (sentenza n. 38 del 1985; da ultimo, sentenza n. 56 del 2025)» (sentenza n. 117 del 2025)»[8].
Inoltre, pur riconoscendo la legittimità della discrezionalità legislativa nel prevedere trattamenti differenziati (nel caso di specie in ragione della recidiva aggravata), ritiene che «l’esercizio della discrezionalità legislativa non può spingersi fino a determinare «un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale» (ancora, da ultimo, sentenza n. 117 del 2025). Quando ciò è accaduto, questa Corte è intervenuta per dichiarare l’illegittimità costituzionale del meccanismo introdotto dalla disposizione censurata, rilevando la lesione dei medesimi parametri oggi evocati, variamente combinati, in relazione ad attenuanti riconducibili essenzialmente a tre rationes: circostanze espressive di un minor disvalore del fatto dal punto di vista della sua dimensione offensiva (sentenze n. 117 del 2025, n. 188, n. 141 e n. 94 del 2023, n. 143 del 2021, n. 205 del 2017, n. 106 e n. 105 del 2014, n. 251 del 2012), circostanze espressive di un minor grado di rimproverabilità soggettiva (sentenze n. 55 del 2021 e n. 73 del 2020) e circostanze attinenti alla collaborazione del reo post delictum (sentenze n. 56 del 2025, n. 201 del 2023 e n. 74 del 2016)»[9].
Rilevante, in particolare, è richiamo della sentenza n.73/2020 che valorizza il parametro della rimproverabilità soggettiva affermando che «il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige, in via generale, «che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto, “in modo da assicurare altresì che la pena appaia una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile ‘individualizzata’, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di ‘personalità’ della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost. (sentenza n. 222 del 2018)”»[10].
Va infine tenuto in ulteriore rigorosa considerazione che tale pronuncia della Corte interviene in ordine a un’ipotesi di reato di cui si rileva l’eccezionale rigore sanzionatorio e la forbice estremamente stretta della cornice edittale[11] (da 25 a 30 anni di reclusione): per quanto stretta essa sia non si tratta comunque di una pena fissa e individuata in quella più grave prevista dal codice penale, l’ergastolo.
Le disposizioni sul bilanciamento delle circostanze previste dal terzo e quarto comma del configurando art.577-bis c.p. non hanno altra portata se non quella di «blindare la pena dell’ergastolo riducendo le ipotesi in cui il giudice possa considerare prevalenti le attenuanti, escludendo così l’applicazione dell’ergastolo»[12], considerato che tale evidente esclusiva finalità ha la previsione dell’applicabilità delle circostanze aggravanti previste dagli artt.576, 577 c.p., prescritta nel secondo comma della norma, che altrimenti non avrebbe alcuna altra utilità, dal momento che non si può aggravare la pena più grave prevista nel nostro ordinamento penale.
Tali disposizioni, pertanto, sono ragionevolmente esposte alla censura di incostituzionalità per la contraddizione palese con i princìpi che hanno costruito la trama essenziale degli arresti della Corte in materia di trattamento sanzionatorio ove ne sia vincolato l’adattamento al caso concreto da parte del Giudice.
La conseguenza non potrebbe che essere l’indebolimento se non la caduta della portata simbolica della norma, che ne costituisce con evidenza la sua esclusiva ratio, confermando, ancora una volta, che tra i simboli e il diritto, vince sempre il diritto, quantomeno in un assetto politico-istituzionale laico e liberale.
4. L’esecuzione della pena
L’art. 5 lett.a) 1) del disegno di legge in esame inserisce nel già ricco catalogo dei reati ostativi di “seconda fascia” e, in particolare, tra quelli previsti dal comma 1-quater dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, le fattispecie previste dagli artt. 572, secondo e terzo comma, 575 aggravato ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 577-bis, 612-bis, terzo comma, del codice penale.
Per effetto di questa estensione i condannati per tali reati non sono ammessi ad accedere ai benefici penitenziari (permesso premio, lavoro esterno) e alle misure alternative alla detenzione se non all’esito (positivo) dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno. Nella valutazione del magistrato o del tribunale di sorveglianza rientra anche, per questa categoria di condannati, la partecipazione al trattamento psicologico che l’art. 13-bis o.p. destina specificamente ai condannati per reati sessuali, maltrattamenti contro familiari e conviventi e per atti persecutori.
L’intervento è chiaramente ispirato ad una accezione dell’esecuzione penale in esclusiva o almeno preponderante chiave detentiva, per cui tutti i passi della progressione trattamentale, a cominciare dai permessi premio, passando per il lavoro esterno, per finire con le misure alternative, sono considerati non elemento integrante dell’esecuzione orientata al raggiungimento della finalità dettata dall’art. 27 comma 3 Cost., ma meccanismi di abbreviazione della pena detentiva che necessitano, per questo, di essere elargiti in dosi controllate.
La criticità di questa modifica non è tanto o soltanto connessa alle condizioni di progressiva crescita della popolazione detenuta nel nostro Paese che non vede, al momento, alcuna battuta d’arresto o interventi legislativi seriamente e concretamente deflattivi.
Il punto problematico consiste nel fatto che si assoggettano a limiti d’accesso al percorso trattamentale, di cui i c.d. “benefici penitenziari” sono parte essenziale, come affermato costantemente dalla giurisprudenza di legittimità e da quella costituzionale, persone condannate per reati che, anzi, di tale progressione necessitano particolarmente per assicurarne il ritorno alla società libera in condizioni di effettiva riabilitazione.
Il limite che si oppone è quello temporale (1 anno di osservazione scientifica) e anche trattamentale: non è sufficiente, infatti, per questa nuova categoria di condannati partecipare all’osservazione scientifica condotta nel corso del programma trattamentale, come previsto dall’art. 13 o.p., ma è altresì necessario che si sottopongano al trattamento psicologico previsto nell’art. 13-bis o.p., teoricamente facoltativo e volontario come ogni trattamento socio-sanitario e in pratica obbligatorio per affrontare la valutazione dei giudici di sorveglianza.
Il tempo, in ogni caso, è un elemento di estrema rilevanza nell’esame delle norme sull’esecuzione della pena che il disegno di legge in esame vuole introdurre.
Rileva, innanzitutto, il tempo che intercorre tra la commissione del reato e l’esecuzione della pena: la distanza, anche di molti anni, tra l’una e l’altra, incide gravemente sia sul significato di giustizia della pena, sia sulla incidenza negativa che essa può avere su percorsi di vita che hanno già raggiunto la piena riabilitazione del condannato e che vengono interrotti.
Questa riflessione non attiene, naturalmente, ai reati puniti con la pena dell’ergastolo, ma a quelli, tra i nuovi aggiunti al catalogo dell’art. 4-bis o.p., puniti con pene temporanee: il reato di maltrattamenti in famiglia aggravato ai sensi del secondo e terzo comma dell’art. 572 c.p. e quello di atti persecutori aggravato ai sensi del terzo comma dell’art. 612-bis c.p..
Se si considerano le osservazioni svolte dall’ANM[13] in ordine al pressoché certo allungamento dei tempi dei processi conseguente all’attribuzione al Tribunale collegiale della competenza per le ipotesi di reato originariamente assegnate a quella del Giudice monocratico, è altamente probabile che una condanna per maltrattamenti in famiglia o atti persecutori aggravati intervenga a notevole distanza di tempo dai fatti: l’inclusione tra le ipotesi per cui non è ammessa la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 656 co. 9 c.p.p., in parte già prevista (l’eccezione è quella dell’art.572 comma 3 c.p.), destina, infine, le persone condannate a entrare in carcere e a rimanervi, magari, fino al termine della pena inflitta.
In alcuni casi, infatti, la pena può essere così breve da non consentire nemmeno l’avvio dell’osservazione scientifica di un anno e, con tutta probabilità, la decisione in merito a una richiesta di benefici o di misure alternative: si pensi all’ipotesi del reato previsto dall’art.612-bis comma 3 c.p. per il quale la pena, che può essere aumentata fino alla metà, sia contenuta in due anni: è altamente probabile che la detenzione, considerata anche la concessione dei periodi di liberazione anticipata, si conduca in mancanza di ogni forma di “accompagnamento rieducativo” verso l’esterno e la persona torni in libertà senza che l’obiettivo costituzionale della risocializzazione si sia potuto perseguire.
L’estensione dell’ostatività in questi casi risulta, pertanto, dettata da una mera logica punitiva che contrasta con gli obiettivi di prevenzione della violenza sulle donne che si realizzano anche con trattamenti penitenziari completi di tutti gli elementi di sperimentazione della rieducazione maturata.
Ad altrettanta logica risulta esclusivamente riconducibile la riduzione dei tempi del permesso premio per i condannati minori d’età che scontano una pena per il reato di femminicidio: una riduzione a 20 giorni per ogni permesso (contro i 30 ordinari) e a 70 giorni complessivi per anno (contro i 100 ordinari), disposta dalla lett. b) del comma 1 dell’art. 5 del disegno di legge, che interviene in tal senso introducendo il comma 2-bis all’art. 30-ter o.p..
È noto che il processo minorile, anche nella fase dell’esecuzione, è primariamente informato al recupero e alla riabilitazione del minore deviante: la riduzione dei permessi premio per uno specifico reato e in una misura non meglio giustificata, risulta in netto contrasto con l’impianto stesso del processo per i minorenni.
Sul punto, che vale anche per le fattispecie cui si è estesa la disciplina dell’ostatività comprensiva dei limiti all’accesso ai benefici penitenziari, non si può che condividere il richiamo espresso nella Scheda di lettura predisposta dal Servizio Studi del Senato e di questa Camera dei deputati: «Si ricorda che la Corte costituzionale, pronunciandosi sul regime preclusivo alla concessione dei benefici penitenziari prescritto dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, ha affermato che il permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe, rappresenta un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento (sent. 253 del 2019). Esso consente «al detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di libertà» (sent. n. 188 del 1990), mostrando perciò una «funzione “pedagogico-propulsiva”» (sentt. n. 504 del 1995, n. 445 del 1997 e n. 257 del 2006), e permette l’osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in libertà (sent. n. 227 del 1995). Più precisamente, la giurisprudenza costituzionale (sent. n. 149 del 2018) ha indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari, sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sent. n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sent. n.257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sent. n. 255 del 2006)»[14].
Il disposto speciale sui permessi premio per i minorenni condannati per il delitto di femminicidio risulta, inoltre, di portata estremamente limitata se non solo teorica, a una lettura attenta e combinata con gli istituti giuridici di riferimento.
Va considerato, a tale proposito, che in forza della sentenza della Corte costituzionale n.168/1994 il minore d’età non può essere condannato all’ergastolo e che, ai sensi dell’art.30-ter comma 4 lett. c), la concessione dei permessi premio nei confronti dei condannati per taluno dei delitti indicati, tra gli altri, al comma 1-quater dell’art. 4-bis o.p., quale si prevede sia quello dell’art.577-bis c.p., è ammessa dopo l’espiazione di metà della pena e, comunque, non oltre i dieci anni.
Risulta, dunque, immediatamente evidente che tale disposizione restrittiva troverebbe applicazione soltanto nei casi in cui fosse inflitta la pena minima possibile di 15 anni di reclusione (in forza del bilanciamento delle circostanze previsto al 4° comma dell’art. 577-bis c.p. in esame) e il condannato avesse commesso il fatto e iniziato la detenzione in un’età compresa tra i 14 e i 17 e poco più anni, in modo da raggiungere la metà della pena (7 anni e 6 mesi) essendo ancora detenuto in un Istituto minorile e quindi soggetto alla disciplina dell’esecuzione penale prevista per i minori.
Al compimento dei 25 anni d’età, infatti, come è noto, il giovane adulto viene trasferito in un Istituto penitenziario per adulti e soggetto all’ordinamento penitenziario destinato agli adulti, compreso il disposto sui permessi premio di cui all’art.30-ter comma 1 o.p..
All’ipotesi tratteggiata, estremamente residuale, alla luce dei dati statistici attualmente riscontrabili, e, auspicabilmente, solo di scuola, si aggiunge infine la doverosa considerazione del fatto che, a norma dell’art. 10-bis del D.Lgs. 121/2018, in materia di esecuzione penale dei minorenni, il trasferimento a un Istituto per adulti può avvenire a 21 o a 18 anni, in concorrenza delle circostanze che recano disturbo all’equilibrio dell’Istituto, indicate nella norma: un’ipotesi, questa sì, tutt’altro che teorica e residuale, come riscontrabile negli IPM di maggiore affluenza, e, anzi, correntemente percorsa da qualche tempo in ragione del sovraffollamento che grava sugli Istituti minorili.
La disposizione speciale si apprezzerebbe, pertanto, soltanto per la torsione simbolicamente punitiva ma resterebbe sostanzialmente priva di applicazione: una norma inutile che al tempo stesso contrasta con l’impianto del processo minorile non appare, in conclusione, nemmeno pregevole sul piano simbolico.
5. Conclusioni d’ordine generale
Quando, nel 1991, Alessandra Bocchetti, protagonista di punta del movimento femminile in Italia e dell’evoluzione del femminismo nel pensiero della differenza sessuale, invitava a passare dalla politica per le donne alla politica delle donne e, di conseguenza, dal fare giustizia per le donne a «fare delle ingiustizie» per le donne[15], pensava a rendere le donne soggetti di giustizia, abbandonando la dimensione tradizionale dell’essere oggetti della giustizia sociale.
Perché, diceva, «la politica per le donne è pericolosa […] in essa la donna è sempre nominata, vista, definita e mostrata come mancante, come bisognosa, come sventurata. La politica per le donne si occupa di donne in quanto povere, disoccupate, discriminate, picchiate, stuprate […] in questa politica certamente si possono fare delle cose buone […] ma non si può fare l’essenziale perché questa politica non produce delle reali modificazioni. […] La politica per le donne allude sempre a un soggetto femminile umiliato, bisognoso di aiuto, non bisognoso di forza»[16].
L’orientamento strutturato esclusivamente a vedere la donna oggetto di tutela è, in realtà, del tutto consono al modello patriarcale della società e alla primazia dell’ordine simbolico maschile, rispetto ai quali le donne hanno connotazioni di fragilità che vanno protette. E la protezione è idealmente connessa alla subordinazione e al controllo.
Si inserisce in questa prospettiva la costruzione di un apparato repressivo privo di ogni strumento di prevenzione, quale è quello delineato nel disegno di legge che si discute: un apparente atto di giustizia per le donne che non produce alcuna modificazione del fenomeno perché non va alla radice del male ma si occupa, teoricamente, solo delle conseguenze e in una sorta di eterogenesi dei fini perpetua la debolezza delle donne, nominandole significantemente come vittime per elezione in una specifica ipotesi di reato.
[1] Omicidi volontari consumati in Italia, Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Servizio Analisi Criminale, Roma, 7.02. 2025, p. 7, https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2025-02/elaborato_omicidi_volontari_2015-2024.pdf
[2] Omicidi volontari, Ministeri dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Servizio Analisi Criminale, Roma, 07.2025, p. 3, https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2025-07/report-ii-trimestre.pdf
[3] P. Allegri, Il femminicidio come reato autonomo: i rischi della risposta meramente punitiva alla violenza di genere, Antigone, Ventunesimo Rapporto sulle condizioni di detenzione, maggio 2025, https://www.rapportoantigone.it/ventunesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/il-femminicidio-come-reato-autonomo/
[4] Fra i molti: Il reato di femminicidio presentato dal Governo: le ragioni della nostra contrarietà, documento firmato da 93 professoresse di diritto penale, in Sistema Penale, 28 maggio 2025; M. Donini, Perché introdurre un reato di femminicidio che c’è già, in Sistema Penale, 18 marzo 2025; G. Fiandaca, "Cari prof. di diritto penale, è ora di protestare contro il delitto di femminicidio", in Sistema Penale, 14 marzo 2025; G.L. Gatta, Il reato di femminicidio: una proposta da riformulare. Tra real politik e principi costituzionali, in Sistema Penale, fascicolo 6/2025; V. Manes, Sul disegno di legge avente ad oggetto l’introduzione del delitto di “femminicidio”, in Giurisprudenza Penale Web, 2025, 7-8 F.; A. Massaro, Riflessioni sul disegno di legge in materia di femminicidio, in Sistema Penale, 25 giugno 2025; F. Menditto, Riflessioni sul delitto di femminicidio, in Sistema Penale, 4 aprile 2025; M. Passione, Diritto penale (de)privato, in Giurisprudenza penale web, 2025, 7-8; M. Pellissero, Nuovo reato di femminicidio, le criticità del disegno di legge, Otto discorsi diretti, 12 marzo 2025; D. Pulitanò, Messaggi normativi e messaggi culturali. La discussione sul femminicidio, in Sistema penale, 21 giugno 2025.
[6] Ampiamente sul punto cfr. G.L. Gatta, cit.
[7] Corte Cost., sentenza n. 151/2025, 22.09-16.10.2025.
[8] Corte cost., cit., par. 5.
[9] Corte cost., cit., ibidem.
[10] Corte cost., cit., par. 5.1.
[11] Corte cost., cit., par. 10.
[12] G.L. Gatta, cit., pag. 161.
[13] Parere sul disegno di legge C. 2528 in materia di Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime – 14 ottobre 2025, depositato con l’audizione del Presidente Cesare Parodi.
[14] Scheda di lettura, pag. 103.
[15] A. Bocchetti, Bisogno d’ingiustizia, relazione tenuta al convegno internazionale Feminist Theory: An International Debate, Glasgow 12-15 luglio 1991, in Cosa vuole una donna, La Tartaruga edizioni, 1995, p. 213.
Il testo riprende l'audizione informale sul disegno di legge A.C. 2528 approvato dal Senato della Repubblica in data 23 luglio 2025, recante Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime, avanti la II Commissione (Giustizia) della Camera dei deputati, svoltasi il 21 ottobre 2025.