Sommario: 1. Liberi di vivere, liberi di morire - 2. Il tema della libertà di morire divide da sempre - 3. L’emergere di una nuova domanda sociale: la libertà del morire come espressione di autodeterminazione e come diritto sociale - 4. I differenti percorsi seguiti nel Regno Unito, in Germania, in Francia - 4.1. La soluzione legislativa verso la quale muove il Regno Unito - 4.2. La via giudiziaria sinora percorsa in Germania - 4.3. L’esperienza francese: una legge preceduta e preparata da un interessante esperimento di democrazia deliberativa - 5. La situazione in Italia: tra ipocrisia e confusione - 6. L’inerzia del parlamento - 7. L’arcigna risposta del codice Rocco. La dialettica tra giudici ordinari e giudice costituzionale - 8. Le pronunce della Corte costituzionale - 9. Il ruolo del Servizio Sanitario Nazionale - 10. Le leggi della Regione Toscana e della Regione Sardegna
1. Liberi di vivere, liberi di morire
Pensare di poter essere liberi di morire, aspirare ad essere liberi di morire è un pensiero inevitabilmente doloroso e drammatico ma non infelice.
La parola libertà è infatti così intensa e forte che – anche se accostata all’idea di morte – riesce a trasformarla da tragica necessità in atto di affermazione di sé, in momento di autodeterminazione, in scelta consapevole.
Non si può essere infelici quando di parla di libertà, quando si discute di come di mettere la persona in condizione di scegliere liberamente di lasciare la vita, sciogliendola dai lacci dell’autoritarismo o del paternalismo.
Non è un ragionamento astratto. Tutt’altro.
Le persone che oggi riescono, attraverso passaggi tortuosi e difficili. ad assicurarsi la prospettiva di essere aiutati, quando lo decideranno, a morire liberamente portano testimonianze di sollievo, di relativa serenità.
Molti di loro dicono: ora so che non sono condannato ad essere schiavo di una malattia invalidante che chiude il mio corpo in una prigione, che non dovrò essere costretto a subire atroci sofferenze, che non sarò obbligato a vedere compromessa la mia dignità.
E’ con questo spirito che occorre discutere di fine vita, di suicidio assistito, di eutanasia attiva e passiva.
Sappiamo che l’esistenza o meno di una libertà di morire è stata per secoli questione controversa, oggetto di discussioni e contrasti tra religiosi e laici e tra pensatori di diverso orientamento.
Oggi – questa è la novità – la libertà del fine vita è divenuta anche una grande questione sociale e giuridica cui si cerca una risposta attraverso le leggi e le sentenze.
Naturalmente anche sul terreno della riflessione giuridica le convinzioni profonde, le pregiudiziali ideologiche giocano un ruolo fondamentale nell’orientare e nel “dividere” i cittadini comuni, l’opinione pubblica, gli esponenti politici.
2. Il tema della libertà di morire divide da sempre
Che su questi temi ci si divida non è una novità. La libertà di morire divide da sempre.
In una famosa lettera a Lucilio, discutendo il tema della morte Seneca scrive: «Troverai anche alcuni che fanno professione di saggezza che affermano che non deve essere fatta violenza contro la propria vita e che giudicano un atto di empietà il farsi uccisore di se stesso: bisogna attendere che sopraggiunga la fine decretata dalla natura»[1].
I sapienti di cui Seneca parla sono gli accademici, i peripatetici, lo stesso Socrate, tutti schierati contro il suicidio.
Non è questa l’opinione di Seneca che nel suicidio vede una “via di libertà” per l’uomo oppresso da mali intollerabili, un possibile “varco” attraverso i tormenti, che consente di spazzare via e di lasciarsi alle spalle ogni avversità.
Dunque nel mondo greco romano, dove affondano le nostre prime e più profonde radici, la libertà di morire era oggetto di contrasti ideali e di fiere polemiche che hanno segnato profondamente tutta la nostra storia intellettuale, giungendo fino ai giorni nostri.
E consegnandoci gli interrogativi con i quali ancora oggi ci confrontiamo.
La vita è un bene disponibile?
E’ un bene disponibile da colui che la vive o è un bene che non gli appartiene esclusivamente e fino in fondo, e perciò è per lui “indisponibile”?
A chi appartiene la vita?
A Dio, come dicono quasi tutte le religioni[2]? Allo Stato come pretendono i regimi totalitari? Alla comunità in cui viviamo, alla rete di affetti che ci circonda e verso la quale siamo responsabili? O solo all’individuo?
Ed infine: c’è o no un diritto di morire? E questo diritto è un’altra faccia del diritto di vivere o c’è un salto di qualità tra la vita e la morte, così che la libertà di vivere non implica la libertà di morire?
La prima risposta. la più spontanea, a quest’ultimo interrogativo è che il diritto alla vita ha - come tutti i diritti - anche un lato, un versante negativo rappresentato dalla libertà o dal diritto di morire.
Ogni diritto, infatti, ha infatti un suo profilo positivo, affermativo, è libertà tutelata di fare qualcosa ma al tempo stesso è libertà di non fare.
Pensiamo al diritto di associazione, al diritto di riunione, al diritto di voto e a tanti altri diritti che racchiudono in sé una dimensione positiva ed una negativa.
E però sono in molti ad affermare che il diritto alla vita, per il suo carattere primigenio, per la sua forza dirompente esclude, cancella ogni aspirazione a vedere riconosciuta e tutelata dall’ordinamento la libertà di morire, relegando la libertà di togliersi la vita al rango di una mera libertà di fatto che non ha cittadinanza nell’ordinamento[3].
3. L’emergere di una nuova domanda sociale: la libertà del morire come espressione di autodeterminazione e come diritto sociale
Rispetto a questo eterno confronto esistenziale, filosofico, sulla libertà di vivere e sulla libertà di morire che c’è oggi di nuovo?
Nelle nostre società secolarizzate, per effetto di un insieme di fenomeni diversi - che vanno dall’invecchiamento della popolazione ai progressi della medicina, alla fine dell’idea che il dolore debba essere fatalisticamente accettato - è progressivamente emersa una domanda sociale di libertà del morire.
Tutti i sondaggi ci dicono che questa aspirazione sociale esiste ed è molto diffusa.
Vi è una spinta che mira ad affiancare alla “sovranità di fatto” su se stessi[4], la possibilità materiale del suicidio – una diversa sovranità, riconosciuta e tutelata dall’ordinamento giuridico, nella forma del diritto di morire.
Diritto configurato non solo come “diritto di libertà”, come libertà “da”, ma anche come “diritto sociale” in base al quale la persona intenzionata a morire deve essere assistito da strutture pubbliche al momento della morte volontaria.
Alla domanda di riconoscimento di libertà e di assistenza per la morte volontaria che viene dai cittadini gli ordinamenti europei stanno dando risposte differenti che seguono diversi percorsi.
In alcuni Paesi sono state approvate leggi sul fine vita che fissano le condizioni e le procedure dell’assistenza[5], mentre in altri vi sono cantieri aperti, ormai ad un passo dalla positiva chiusura dei lavori.
Ed è proprio ai lavori in corso nel Regno Unito, in Germania, in Francia, che occorre guardare con particolare attenzione da parte di chi vive la lunga impasse italiana nell’elaborazione di una legge sul fine vita.
4. I differenti percorsi seguiti nel Regno Unito, in Germania, in Francia
4.1. La soluzione legislativa verso la quale muove il Regno Unito
Nel Regno Unito il divieto di assistenza al suicidio deriva dal Suicide Act del 1961 che punisce con la pena della reclusione fino a 14 anni ogni forma di agevolazione o supporto nell’attuazione del proposito suicidario.
Questa severa sanzione penale riguarda qualsiasi forma di aiuto al suicidio, anche quello richiesto ed ottenuto per motivazioni compassionevoli.
Il rigore di questa disciplina risulta però temperato dal fatto che - in presenza di una assistenza dettata da ragioni affettive o ideali - i prosecutor inglesi, operando in regime di discrezionalità dell’azione penale, possono ravvisare la mancanza di un interesse pubblico all’esercizio dell’azione.
Ed è proprio nel contesto istituzionale del Regno Unito che è maturata una prima e fondamentale pronuncia della CEDU sul tema del suicidio assistito: la sentenza del 29 aprile 2002, resa nel caso Pretty vs United Kingdom.
In tale decisione la Corte, nel tracciare i limiti dell’accesso al suicidio assistito, ha affermato che dagli artt. 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non è possibile far discendere un diritto a morire per mano di altri o con l’assistenza di un servizio pubblico e che dall’art. 8 della stessa Convenzione, che assicura il rispetto della vita privata, non si può trarre un diritto all’autodeterminazione nel porre fine alla propria vita.
La sentenza giunse perciò alla conclusione che è compito dei singoli Stati membri firmatari della Convenzione accertare i presupposti che legittimano il divieto di assistenza al suicidio.
Nel Regno Unito il paradigma restava dunque quello della sanctity of life e della indisponibilità della vita.
Oggi però, dopo numerosi tentativi falliti di approvare una nuova normativa, è in fase avanzata alla Camera dei Comuni l’iter di approvazione di una legge, Terminally Ill Adults (End of life) Bill[6], destinata a permettere agli adulti mentalmente capaci di autodeterminarsi ai sensi del Mental Capacity Act del 2005 e affetti da una malattia terminale in progressione inevitabile e incurabile, con una prospettiva di sopravvivenza di non più di sei mesi, di ricevere, in Inghilterra e Galles, assistenza medica volontaria per porre fine alla propria vita.
La procedura prevista dalla nuova normativa, che non è stata ancora definitivamente approvata, inizia con una richiesta del malato che manifesti in modo chiaro, deciso e libero la decisione volontaria e non frutto di alcuna pressione, di porre fine alla propria esistenza; prosegue con le verifiche da parte di due medici, il c.d. coordinating doctor e il c.d. independent doctor, della sussistenza dei requisiti di ammissibilità alla morte assistita; si conclude con la valutazione di una commissione multidisciplinare che opera su impulso di un giudice il c.d. Voluntary Assisted Dying Commissioner.
La legge garantisce ai sanitari il diritto di non partecipare a tale procedura, sollevando obiezione di coscienza.
4.2. La via giudiziaria sinora percorsa in Germania
Del tutto diverso è il percorso seguito in Germania, nella quale è stata una sentenza e non la legge a fissare il quadro di riferimento della disciplina del fine vita.
Nel 2020, infatti, la Corte costituzionale federale[7] ha dichiarato incostituzionale il divieto del suicidio assistito, permettendo ai medici di aiutare le persone che scelgono volontariamente di porre fine alla propria vita.
A base della decisione sta – secondo la Corte - “il diritto generale della personalità”, che comprende, quale espressione di autonomia personale, un diritto all’autodeterminazione a morire e dunque anche il diritto al suicidio ed a chiedere e ricevere aiuto da parte di terzi per l’attuazione del proposito suicidario
«Qualunque sia il significato che l’individuo vede nella propria vita »– ha affermato la Corte - e quali che siano i motivi per cui «una persona si possa rappresentare di concludere la propria vita, tali considerazioni soggiacciono alle rappresentazioni e alle convinzioni personalissime».
Decidere di porre fine alla propria vita coinvolge profondamente l’idea che l’essere umano ha di sé ed è espressione della sua personalità da rispettare sino alle estreme conseguenze in nome dell’inviolabile dignità della persona e della sua capacità di autodeterminazione.
Da queste considerazioni di principio discende la scelta, cruciale, di non limitare il diritto al suicidio ed alla legittimità dell’aiuto di terzi ai casi di gravi o incurabili patologie, estendendolo all’intera esistenza.
Compito dello Stato resta quello di «contrastare i suicidi che non sono sostenuti da libera autodeterminazione e responsabilità di se stessi» preoccupandosi «che la decisione di suicidarsi con l’aiuto altrui si basi realmente su una libera volontà»[8].
A queste rigorose affermazioni di principio non corrispondono però, per la mancanza di una legge[9], linee guida e protocolli sui farmaci da impiegare e sulle procedure di assistenza da attivare nei confronti degli aspiranti suicidi, mentre rimangono vietate le pratiche eutanasiche.
4.3. L’esperienza francese: una legge preceduta e preparata da un interessante esperimento di democrazia deliberativa.
In Francia, per superare le difficoltà incontrate sul terreno parlamentare per approvare una legge sul fine vita, è stato messo in atto un interessante esperimento di democrazia deliberativa.
Varata il 13 settembre 2022 dal Presidente Emanuelle Macron, la Convention Citoyenne Cese sur la fin de vie, gestita dal CESE (Conseil èconomique social et environmental), è stata chiamata a dare risposta alla seguente domanda: il quadro di sostegno del fine vita è adeguato alla diversità di situazioni che si riscontrano nella realtà o dovranno essere introdotte eventuali modifiche[10]?
Alla guida della Convenzione è stato posto un Comitato di governance, con l’incarico di assicurare il monitoraggio metodologico del sistema e garantire i principi di trasparenza e neutralità ed a comporre la Convenzione sono stati chiamati 184 cittadini, riuniti per informarsi in modo illuminato, dialogare, dibattere e infine delineare prospettive e ipotesi di soluzione condivise sulla problematica del fine vita.
I componenti della Convenzione sono stati scelti – questa una delle principali e più qualificanti novità della Convenzione – per sorteggio[11].
La Convenzione è stata concepita e attuata come un microcosmo rappresentativo della società francese, come un campione, il più possibile fedele, del corpo sociale, da mettere al lavoro sul tema del fine vita[12].
Nel corso di nove sessioni, ciascuna della durata di tre giorni, svoltesi lungo l’arco di 27 giorni tra il dicembre 2022 e l’aprile 2023, i componenti della Convenzione sono stati impegnati nell’ascolto di esperti, francesi e internazionali, operanti in campi differenti – giuridico, medico, religioso, filosofico- e nell’acquisizione, in un contesto di pluralismo ideale e culturale, delle conoscenze necessarie per maturare una opinione informata, formulare meditate risposte al quesito posto e deliberare proposizioni sul fine vita.
Nel rispondere all’interrogativo che le è stato posto, la Convenzione è stata concorde nel ritenere che in Francia il quadro di sostegno del fine vita non è adeguato alla diversità di situazioni che si riscontrano nella realtà per due ragioni: da un lato, la disparità di accesso al supporto di fine vita e, dall'altro, la mancanza di risposte soddisfacenti a determinate situazioni di fine vita, in particolare nel caso di sofferenze fisiche o psicologiche intrattabili[13].
Al termine di un dibattito definito «vivace e rispettoso» la Convenzione dei cittadini ha votato a maggioranza (75,6% dei votanti) a favore dell'assistenza attiva nel morire, ritenuta il modo più appropriato per rispettare la libertà di scelta dei cittadini e per rimediare alle carenze del quadro giuridico, in particolare ai limiti della sedazione profonda e continua.
Inoltre - ha soggiunto la maggioranza della Convenzione - questa soluzione porrebbe fine all'ipocrisia con cui ancora viene affrontato il tema del fine vita.
E’ emersa dunque, in seno alla Convenzione, una posizione maggioritaria sulla «necessità di introdurre sia il suicidio assistito che l'eutanasia, nella misura in cui il suicidio assistito da solo o l'eutanasia da sola non danno risposte soddisfacenti all’insieme di situazioni riscontrate».
Per una parte dei componenti della Convenzione, il 28,2%, «il suicidio assistito dovrebbe prevalere e l'eutanasia dovrebbe rimanere un'eccezione». Per altri, il 39,9%, «il suicidio assistito e l'eutanasia dovrebbero essere l’oggetto di una libera scelta».
Circa un quarto dei cittadini – il 23,2%- si è dichiarato contrario all'introduzione di forme di assistenza attiva nel morire, sottolineando la mancanza di conoscenza e la scarsa applicazione della legge Claeys-Leonetti del 2016 e ritenendo preferibile puntare sulla piena applicazione della normativa già in vigore.
Particolarmente forti, nei sostenitori di questa posizione, sono stati i timori di possibili abusi ai danni di persone vulnerabili (non autosufficienti, disabili o con deficit di discernimento, ecc.) e di destabilizzazione del sistema sanitario in conseguenza delle resistenze degli operatori sanitari.
Nel definire le situazioni che possono dare accesso all’aiuto attivo a morire, si è naturalmente posto l’accento sul prerequisito indispensabile della volontà del paziente e sono stati individuati i principali criteri cui fare riferimento: la capacità di intendere e di volere, la consapevolezza, l’incurabilità, la prognosi vitale, la sofferenza (refrattaria, fisica, psicologica, esistenziale), l’età[14].
Preparato e favorito da questo importante esperimento di democrazia deliberativa, il 27 maggio 2025 in Francia c’è stato un primo voto a favore di una nuova legge sulla morte assistita.
L'Assemblea Nazionale ha approvato con 305 voti a favore e 199 contro la prima proposta di legge sul tema, che verrà successivamente discussa in Senato.
In base alla proposta potrà accedere alla morte assistita chi abbia più di 18 anni, sia cittadino francese o risieda stabilmente in territorio francese, sia in grado di prendere decisioni libere e consapevoli e risulti affetto da una patologia grave, incurabile ed a uno stadio avanzato o terminale.
Patologia che dalla legge viene definita come un «processo irreversibile segnato dal peggioramento dello stato di salute della persona malata che incide sulla qualità della sua vita» e che deve essere tale da determinare una sofferenza intollerabile, per la quale non esistono soluzioni o per la quale la persona abbia esplicitamente rifiutato di sottoporsi a ulteriori cure.
La procedura per l’accesso alla morte assistita - i cui costi dovranno essere interamente coperti dal servizio sanitario nazionale - prevede una richiesta della persona che vuole accedervi, l’esame delle sue condizioni, una decisione da parte di un medico[15].
Il paziente potrà scegliere il luogo (comunque un luogo chiuso) e le modalità della morte. Non è obbligatoria la presenza di un sanitario all’atto di somministrazione del farmaco letale, che deve essere indicato dall’Agenzia nazionale per la sicurezza dei medicinali e dei prodotti sanitari.
La proposta di legge include anche la possibilità che a somministrare il farmaco letale sia un terzo, limitatamente all’ipotesi che la persona sia fisicamente impossibilitata ad agire da sola e prevede che il medico interpellato sollevi obiezione di coscienza, fornendo però al paziente l’indicazione di un altro medico disponibile a fornire la sua prestazione[16].
5. La situazione in Italia: tra ipocrisia e confusione
Tornando, dopo questo rapido excursus, all’esame della situazione italiana constatiamo che esiste nel nostro Paese una notevole dose di ipocrisia e un altrettanto elevato tasso di confusione istituzionale.
Nel nostro ordinamento, infatti, la radicale negazione dell’esistenza di un diritto a morire coesiste con il riconoscimento di diverse possibilità legittime di porre fine volontariamente alla propria vita in determinate situazioni[17].
Un paziente può rifiutare le cure e per questa via porre termine alla sua esistenza in base all’art. 32, comma 2, della Costituzione ed all’ art. 1, comma 5, legge n. 219 del 2017.
Si può essere aiutati a morire con tecniche di sedazione profonda che possono accelerare la morte, come previsto dall’art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017.
Infine si può legittimamente essere aiutati a morire quando si versi nelle condizioni estreme descritte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 e nelle pronunce successive.
Nonostante ciò si continua ad affermare che in Italia non esiste “un diritto di morire” mentre sono risultati fallimentari o infruttuosi i tentativi di dar vita ad un chiaro assetto istituzionale del fine vita nelle forme del suicidio assistito e/o dell’eutanasia.
Da un lato, infatti, vi è stato il referendum promosso dai radicali che proponeva la pura e semplice abrogazione della sanzione penale prevista dall’art. 579 c.p. per l’omicidio del consenziente – la reclusione da sei a quindici anni – mantenendo in vita l’altra parte dell’art. 579 che sanziona il fatto commesso contro un minore, contro un infermo di mente e un soggetto in condizione di deficienza psichica o contro la persona il cui consenso sia stato estorto o carpito con l’inganno.
Referendum giustamente dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 50 del 2 marzo 2022, poiché, rendendo lecito l’omicidio di chiunque avesse prestato a tal fine un valido consenso, avrebbe privato la vita della tutela minima richiesta dalla Costituzione[18].
Dall’altro lato, nella scorsa legislatura non è stato approvato il testo unificato recante «disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita», adottato come base dei lavori parlamentari a seguito della presentazione di una pluralità di proposte legislative, la prima d’iniziativa popolare e le successive presentate da deputati di diverse forze politiche.
Testo per più versi limitato e criticabile ma tale da rappresentare comunque un passo in avanti perché definiva i presupposti e le condizioni della richiesta - da parte della persona affetta da una patologia irreversibile o con prognosi infausta - di assistenza medica al fine di porre volontariamente ed autonomamente fine alla propria vita e individuava in termini sufficientemente chiari la relativa procedura.
6. La risposta dei pubblici poteri. L’inerzia del parlamento
E’ auspicabile che nell’attuale legislatura il Parlamento italiano approvi finalmente una legge sul fine vita.
Una legge che bilanci diritti ed interessi in campo, fissi equilibri, detti condizioni ed indichi procedure da seguire.
E che - attraverso quest’opera sapiente di bilanciamento e di regolazione - dissipi una preoccupazione spesso ricorrente: che i più deboli, i più fragili, i più poveri non siano realmente liberi nella scelta del fine vita ma siano indotti a compiere questo passo per il desiderio di non essere un peso per i parenti e perché sottoposti ad una pressione familiare o sociale in tal senso.
Preoccupazione presentissima ed incombente nei ragionamenti delle Corti sinora intervenute sul tema del fine vita[19].
E però in Italia il legislatore appare inerte, incapace, “riluttante”[20].
Da un lato la vicenda del fine vita rappresenta l’ennesima occasione per constatare la multiforme crisi del Parlamento.
Crisi di rappresentatività giacché il parlamento è ormai il parlamento dei nominati che rispondono alle segreterie dei partiti prima e più che agli elettori.
Crisi di produzione legislativa perché il parlamento funziona come organo di ratifica delle decisioni dell’esecutivo attraverso la conversione dei decreti legge e l’approvazione, prevalentemente, senza modifiche di disegni di legge di iniziativa governativa come (incredibilmente) avvenuto perfino per la riforma costituzionale riguardante la magistratura.
Accanto a queste ragioni “generali” dell’impasse ve ne sono altre specifiche, relative alla questione del fine vita che derivano dalla cultura del nostro Paese e dal conservatorismo delle forze politiche di destra, spesso molto più estremo e radicale di quello dei loro elettori e delle stesse gerarchie ecclesiastiche.
In Italia tutto sembra dunque cospirare alla posizione di veti, all’affermazione di pregiudiziali ideologiche, alla creazione di ostacoli insormontabili alla positiva prosecuzione dell’iter legislativo.
7. L’arcigna risposta del codice Rocco. La dialettica tra giudici ordinari e giudice costituzionale
In questa situazione stagnante la domanda di libertà del morire si è trovata di fronte solo l’arcigna disciplina del fine vita derivante dal codice penale concepito in epoca fascista
Dalla lettura degli articoli 579 e 580 c.p. si desume che, secondo il codice Rocco, il suicidio è una libertà di fatto, insopprimibile e non incriminabile, ma che nessuno può prestare aiuto alla persona che liberamente abbia scelto di porre fine alla sua vita così come nessuno può sostituirsi a lei nel darle la morte, quando ella sia impossibilitata a farlo.
E’ infatti severamente punito l’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) così come è incriminato l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).
Per superare questo muro - destinato a separare da ogni possibile apporto esterno chi abbia liberamente maturato la decisione di morire, eretto e mantenuto a prescindere dalle sofferenze di chi chiede aiuto e dal disinteresse di chi lo presta - sono nate le forme di disobbedienza civile che hanno riempito le cronache di questi anni.
Grazie a coraggiose iniziative individuali sono state sfidate le norme penali scegliendo di aiutare chi, versando in condizioni difficilissime ha scelto di morire. Ed i giudici penali chiamati ad applicare - in situazioni estreme di sofferenza - le norme incriminatrici dell’aiuto al suicidio hanno dubitato della loro conformità alla Costituzione e sollevato questioni di legittimità costituzionale.
8. Le pronunce della Corte costituzionale
Dal canto suo la Corte costituzionale ha risposto dando vita ad una lunga serie di pronunce che a tutt’oggi offrono l’unico quadro concettuale e giuridico del fine vita nel nostro Paese.
Dapprima è stata emessa una ordinanza interlocutoria, la n. 207 del 2018, nella quale la Corte interpellava il parlamento e dava un termine per un intervento legislativo, con rinvio ad una udienza successiva.
Poi, trascorso infruttuosamente il termine di un anno dato al Parlamento, è stata emessa la fondamentale e ormai notissima sentenza n. 242 del 2019.
In tale decisione il giudice costituzionale ha affermato che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è, di per sé, in contrasto con la Costituzione ma è giustificata da esigenze di tutela del diritto alla vita, specie delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento intende proteggere evitando interferenze esterne in una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio.
Tale incriminazione è però da considerare non conforme alla Costituzione nei casi in cui l’aiuto riguardi una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Dopo avere sottolineato che, in base alla legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (legge 22 dicembre 2017, n. 219, sulle DAT), il paziente che versi in tali condizioni può decidere di lasciarsi morire chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua, che lo ponga in stato di incoscienza fino al momento della morte, la Corte ha rilevato che al medico non è comunque consentito di mettere a disposizione del paziente trattamenti atti a determinarne la morte; così che la morte giungerà al termine di un processo più lento, fonte di ulteriori sofferenze per i suoi cari. In questa situazione la Corte ha visto una irragionevole limitazione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta dei trattamenti, compresi quelli finalizzati a liberarlo dalle sofferenze, garantita dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione.
Di qui la necessità di porre rimedio a tale violazione con una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola il proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona che versi nelle condizioni in precedenza descritte, a condizione che l’aiuto sia prestato con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 e sempre che le suddette condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
A questa decisione hanno poi fatto seguito ulteriori pronunce – la n. 50 del del 2022, n. 135 del 2024, n. 66 del 2025, n. 132 del 2025 - che hanno delineato la cornice istituzionale del fine vita nel nostro Paese.
In queste decisioni il giudice costituzionale ha realizzato una cauta apertura al suicidio assistito imperniata sulla non punibilità di chi presta aiuto a patto che l’aiuto sia prestato ad una persona - capace di prendere decisioni libere e consapevoli - che sia affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze ritenute intollerabili e che sia mantenuta in vita grazie a trattamenti di sostegno vitale.
Nella sentenza n. 135 del 2024 la Corte ha ampliato il concetto di trattamenti di sostegno vitale chiarendo che essi includono non solo idratazione, alimentazione e ventilazione artificiali ma anche «quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o caregivers che si si facciano carico dell’assistenza del paziente»[21].
La procedura finalizzata al suicidio medicalmente assistito ricalca la procedura medicalizzata di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017 per quanto attiene all’accertamento della volontà libera e consapevole del paziente e alla garanzia di sicurezza nello svolgimento delle pratiche sanitarie.
La soluzione adottata è palesemente compromissoria.
Non viene riconosciuto un diritto a morire ma esiste una disponibilità condizionata della vita in situazioni estreme.
E’ una soluzione paternalistica? Forse.
Resta che dopo la legge n. 219 del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento e legge n. 38 del 2010 sulle cure palliative, tutto quello che nel nostro Paese c’è sul fine vita è scaturito dalla dialettica tra giudici ordinari e Corte costituzionale in una vicenda che si è tutta svolta sul versante del diritto penale.
L’ultima decisione rilevante della Corte è stata la sentenza n. 132 del 25 luglio 2025 di inammissibilità.
Il Tribunale di Firenze aveva sollecitato un nuovo passo in avanti nel cammino intrapreso dal giudice costituzionale a partire da una situazione emblematica.
Il caso di una persona malata, nome in codice “Libera”, che versava nelle condizioni dettate dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, che aveva maturato liberamente ed autonomamente il proposito di porre fine alla propria esistenza ma si trovava «nella impossibilità materiale, per le proprie condizioni fisiche e per l’assenza di strumentazione idonea, di autosomministrarsi il farmaco letale».
Più precisamente – scriveva il giudice fiorentino - essendo totalmente paralizzata dal collo in giù “Libera” avrebbe potuto somministrarsi il farmaco per via endovenosa «solamente con l’utilizzo di uno strumento meccanico azionato dai muscoli della bocca, con il movimento dei bulbi oculari o con un comando vocale»; ma, come attestato dall’Azienda sanitaria competente, nessuno dei dispositivi necessari per tali azioni era presente e reperibile sul mercato.
In queste condizioni il medico o il fiduciario che su richiesta della persona malata si sostituisse a lei nel somministrarle il farmaco avrebbe rischiato – sottolineava il Tribunale di Firenze - l’incriminazione per il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).
Incriminazione contrastante con più norme della Costituzione – gli artt. 2,3,13 e 32 – e tale da determinare in particolare una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni identiche se non, in molti casi, il paradosso per cui il diritto all’autodeterminazione sarebbe stato negato proprio al paziente più gravemente ammalato che subisce le maggiori sofferenze fisiche e psicologiche.
Di qui la richiesta alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 579 del codice penale «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi attui materialmente la volontà suicidaria», autonomamente e liberamente formatasi, di una persona che si trovi nelle condizioni previste dalla sentenza n. 242 del 2019 e non sia in grado – per impossibilità fisica o per l’assenza di strumentazione idonea – di procurarsi la morte.
La Corte costituzionale ha ritenuto la questione inammissibile con una pronuncia meritevole di grande attenzione.
Il giudice costituzionale ha sostenuto che il giudice fiorentino si era arreso troppo presto e non aveva ricercato tutte le possibilità tecniche che consentissero a Libera di attuare la sua intenzione di togliersi la vita.
Ha però aggiunto che nella sua ricerca di apparecchiature tecniche adeguate la paziente avrebbe dovuto avere il pieno supporto del Servizio sanitario nazionale.
9. Il ruolo del Servizio Sanitario Nazionale
Un punto fondamentale, questo, se si considera che, nel corso dei lavori parlamentari sulla nuova legge, la maggioranza di governo esclude categoricamente che il Servizio sanitario nazionale possa essere in alcun modo coinvolto nelle operazioni di assistenza al suicidio, mentre la minoranza gli assegna un ruolo fondamentale nel controllare la regolarità della procedura e nello scongiurare possibili abusi ai danni dei più fragili.
Al riguardo va ricordato che la centralità e l’insostituibilità del ruolo del Servizio sanitario nazionale è stata costantemente affermata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, nelle sentenze nn. 242 del 2019, n. 135 del 2024 e 66 del 2025, ha sostenuto che deve essere una struttura del Servizio sanitario nazionale a verificare le condizioni in cui versa la persona che richiede assistenza al suicidio.
Ed ancora, come si è già accennato, nella recentissima pronuncia di inammissibilità n. 132 del 2025 sempre al Servizio sanitario nazionale la Corte ha assegnato il compito di ricercare gli apparecchi e le soluzioni tecniche in grado di permettere anche ad un paziente affetto da gravissime disabilità di azionare il congegno di somministrazione del farmaco letale.
10. Le leggi della Regione Toscana e della Regione Sardegna
Infine, di recente un tentativo di superare l’inerzia del parlamento è stato compiuto da due Regioni.
La Regione Toscana e la Regione Sardegna hanno approvato leggi sul fine vita che individuano come requisiti per accedere all’assistenza al suicidio quelli previsti dalla sentenza della Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 e disegnano procedure per ottenere la prestazione assistenziale richiesta.
Procedure che, nella legge della Regione battistrada, la Toscana[22], prevedono la verifica tecnica dell’esistenza dei requisiti da parte di una commissione del servizio sanitario, l’acquisizione del parere del comitato etico locale e la relazione conclusiva della Commissione comunicata al paziente ed alla azienda sanitaria locale.
Come è noto la legge regionale toscana è stata impugnata dal governo dinanzi alla Corte costituzionale in quanto essa – come si legge in una nota di Palazzo Chigi - «nella sua interezza esula in via assoluta dalle competenze regionali e lede le competenze esclusive dello Stato in materia di ordinamento civile e penale e di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, nonché il riparto di competenze in materia di tutela della salute e della ricerca scientifica e tecnologica, violando l’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), e terzo comma della Costituzione».
Rilievi, questi, non privi di qualche fondamento giacché la prospettiva di regimi del fine vita differenziati su base regionale appare criticabile sotto il profilo giuridico e non certo desiderabile nella pratica, che appaiono però singolari quando provengono da uno Stato nazionale che si sta dimostrando incapace di dettare una normativa rispondente alle istanze di riconoscimento di libertà e di diritti sul fine vita che provengono dalla società italiana.
In conclusione: sul tema delicatissimo del fine vita il nostro Paese avrebbe diritto di uscire dalla situazione di ipocrisia e di incertezza in cui oggi versa grazie ad una legge che offra ai cittadini un quadro di riferimento certo e rassicurante.
Purtroppo questa legge non è alle viste e alcune delle notizie che giungono dal Parlamento fanno temere che una nuova normativa farebbe segnare una regressione rispetto alla situazione attuale, optando per l’esclusione del Servizio sanitario nazionale da ogni intervento in materia di ausilio al suicidio e per la privatizzazione della morte assistita,
E’ possibile dunque che, nell’ambito spinoso del fine vita, il potere giudiziario sia chiamato, ancora per un lungo periodo, a supplire all’inerzia della politica.
L’augurio è che svolga questo ruolo con equilibrio e con coraggio riuscendo ad offrire risposte razionali alla domanda di libertà che viene da una società esigente come quella italiana.
[1] Così Seneca, Lettere a Lucilio, Libro VIII, n. 70. Il motivo è ricorrente negli scritti di Seneca «La legge eterna non ha fatto niente di meglio di questo: ci ha dato un solo modo di entrare nella vita, ma molte possibilità di uscirne. Dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un uomo, quando posso andarmene sfuggendo ai tormenti e alle avversità? Questo è l’unico motivo per cui non possiamo lagnarci della vita: essa non trattiene nessuno» e aggiunge «Ti piace la vita? vivi. Non ti piace? Puoi tornare donde sei venuto»; Lettere a Lucilio, Milano, Rizzoli, p. 452. Non mancano però, nel mondo romano, posizioni fortemente contrarie al suicidio, equiparato ad un atto di diserzione. Così Marco Tullio Cicerone che nel suo scritto, La vecchiezza, Milano, Bur, 1998, p. 221 ammoniva: «Non si deve abbandonare il proprio posto di guardia nella vita».
[2] Nella dottrina cattolica il concetto di sacralità della vita, intimamente e indissolubilmente connesso all’idea della sua indisponibilità - «in quanto dono divino che rimane in potere di colui che fa vivere e morire» (Tommaso D’Aquino, La somma teologica, Bologna. ESD, 1984, Vol.. XVII, p. 178) – corre lungo l’intero arco della storia della Chiesa ed è stato costantemente ribadito anche da tutti gli ultimi pontefici fino a Papa Francesco nel Discorso ai partecipanti al convegno commemorativo dell’Associazione Medici cattolici italiani, 15 novembre 2014. Ma nella cultura cattolica v’è anche una robusta corrente di pensiero che fonda il principio di indisponibilità della vita non sulla fede e su una lettura creazionista del genere umano ma sul carattere relazionale proprio dell’esistenza umana. Così che ritenere disponibile la vita significherebbe «incrinare la possibilità stessa della dimensione sociale che assume la vita non come un valore accanto ad altri valori ma come il presupposto della elaborazione sociale di altri valori» (F. D’Agostino, L’indisponibilità della vita principio razionale universale, in Avvenire, 17 dicembre 2008).
[3] Tra i giuristi italiani E. Altavilla qualificava il suicidio come illecito giuridico «non punito ma non tollerato» (Il suicidio nella psicologia, nella indagine giudiziaria e nel diritto (pubblico, penale, civile e commerciale), Napoli, Morano, 1932, p. 221) sostenendo che «il far parte di una società giuridicamente organizzata impone il dovere di permanere in essa, nella piena validità della propria persona, e ciò per le necessità presenti e future dello Stato», ibidem, p. 202. Ferrando Mantovani, invece, includeva il suicidio nella categoria dei fatti giuridicamente tollerati (tra cui la prostituzione o l’uso di sostanze stupefacenti) considerati dal diritto come un disvalore ma il cui autore non è perseguito sulla base di valutazioni di opportunità. L’intrinseco disvalore di tali fatti giustifica invece la sanzione delle attività volte a favorirli o la partecipazione ad essi di terzi (Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, Padova, CEDAM, Vol. I, p. 124). Di contro Paolo Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 59 considerava il suicidio un atto di libertà e scelta da rispettare nel contesto di un ordinamento imperniato sul rispetto della persona affermato nell’art. 2 della Costituzione.
[4] Come ricorda G. Fornero, Indisponibilità e disponibilità della vita. Una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria, Torino, UTET, ed. digitale, p. 115, anche questa sovranità di fatto è stata a lungo negata e criminalizzata. Non solo il suicidio tentato (depenalizzato in Inghilterra solo con il Suicide Act del 1961) ma anche il suicidio realizzato è stato per lungo tempo perseguito «attraverso una serie di pratiche disparate, per esempio con macabre offese al cadavere e con pene finalizzate a colpire il patrimonio e la famiglia del suicida». Contro tale criminalizzazione, considerata un barbaro residuo del passato, insorsero pensatori come Montesquieu, Voltaire, Filangieri e Beccaria, ponendo le premesse per l’affermarsi in Italia di una legislazione che escludeva il suicidio dal novero dei reati. Dapprima la codificazione leopoldina del 1876, poi il codice sardo piemontese 1859, il codice Zanardelli del 1899 e infine il codice Rocco del 1930 affermarono il principio della non punibilità del suicidio e del tentato suicidio.
[5] Per un’ampia rassegna del quadro internazionale dei regimi del fine vita v. il dossier del Servizio Studi, Area di diritto comparato, della Corte costituzionale, Decisioni di fine vita e assistenza al suicidio, aggiornato al maggio 2024, P. Passaglia (a cura di), E. Caterina, G. Delledonne, R. Felicetti, A. Giannaccari, C. Guerrero Picó, S. Pasetto, M.T. Rörig, C. Torrisi, che analizza la regolamentazione delle decisioni sul fine vita e dell’ausilio al suicidio nei seguenti Paesi: 1. Australia 2. Austria 3. Belgio 4. Canada 5. Colombia 6. Ecuador 7. Francia 8. Germania 9. India 10. Lussemburgo 11. Paesi Bassi 12. Portogallo 13. Regno Unito 14. Spagna 15. Stati Uniti 16. Svizzera 17. Uruguay. Nello studio si mette in luce che «a fianco di ordinamenti connotati da una forte accentuazione dell’autodeterminazione, che ha rappresentato la base per il riconoscimento di ampie possibilità di ricorrere alla «morte su richiesta» (immediata o differita, attraverso direttive anticipate), anche nella forma eutanasica attiva (Belgio, Canada, Colombia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo – quando la nuova legge sarà entrata in vigore –, Spagna), si collocano sistemi nei quali la rinunciabilità al bene della vita è fortemente limitata, e comunque inquadrata entro schemi piuttosto rigidi, dai quali si evince la eccezionalità delle condizioni che legittimano l’esercizio di tale facoltà di rinuncia (ammesso che di una vera e propria facoltà possa parlarsi): è il caso delle esperienze di common law, con l’eccezione di alcuni stati membri degli Usa e – di recente – della maggioranza degli stati australiani (oltre che, ovviamente, del Canada), ma anche della Francia. Tra due poli di ordinamenti così delineati si collocano quelli in cui la regolamentazione del fine vita si caratterizza per una moderata apertura. Una tale apertura può tradursi nel senso di un riconoscimento, non solo dell’eutanasia passiva, ma anche – al sussistere di certi presupposti, sovente piuttosto stringenti – del suicidio assistito (il riferimento va alla Svizzera, nonché ad alcuni stati membri degli Usa e, di recente, alla maggioranza degli stati australiani); probabilmente in questa categoria di sistemi di può collocare quello tedesco, sebbene l’assenza di una compiuta disciplina legislativa renda piuttosto problematico un inquadramento preciso. In una diversa prospettiva, l’apertura dei soggetti coinvolti di cui sopra si è manifestata, altrove, nella previsione di una specifica causa di estinzione del reato per l’omicidio pietatis causa (il riferimento va all’ordinamento uruguayano, dove, però, la prassi mostra un utilizzo estremamente circoscritto della previsione legislativa)».
[6] Sul tema vedi la scheda di R. Garbo, Terminally Ill Adults (End of Life) Bill: Inghilterra e Galles verso il riconoscimento di un diritto al suicidio assistito?, in Sistema penale on line 7 maggio 2025.
[7] Corte costituzionale federale tedesca, Sezione II, 26 febbraio 2020. Sulla decisione vedi la scheda di F. Lazzeri, La Corte costituzionale tedesca dichiara illegittimo il divieto penale di aiuto al suicidio prestato in forma “commerciale”, in Sistema penale on line 28 febbraio 2020.
[8] Anche chi sostiene che l’aspetto decisivo ai fini della scelta di morire sia esclusivamente la sua volontarietà (mentre resterebbero irrilevanti la brevità della vita residua e il grado delle sofferenze patite) deve ammettere che di fronte alla scelta più tragica ed irreparabile, quella della morte, l’accertamento di tale volontà richieda standard estremamente elevati e ponga enormi problemi in considerazione delle diverse ipotesi possibili. J. Feinberg, The moral limits of criminal law, Oxford, 1984-1988, Harm to self, p. 351.
[9] Nel 2023, il Bundestag ha discusso due proposte di legge sul suicidio assistito, ma nessuna intesa è stata raggiunta. L’Associazione tedesca di psichiatri e psicoterapeuti ha quindi sollecitato un intervento del legislatore presentando una sua proposta che prevede una preventiva informazione del richiedente sulle cure e sui servizi di supporto disponibili, una successiva valutazione della autonomia della decisione da parte di uno psichiatra o psicoterapeuta e, solo al termine di questi due adempimenti, la messa a disposizione del farmaco letale.
[10] In Francia la legge Claeys-Leonetti n. 87 del 2016 aveva autorizzato la «sedazione prolungata e continua» per i malati che siano in imminente pericolo di vita ma non l’assistenza attiva nel morire, a differenza di quanto è previsto in Belgio o in Svizzera. La disciplina francese presentava perciò significative analogie con quella vigente in Italia a seguito della entrata in vigore della legge 22 dicembre 2017, n. 219 contenente «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento». In entrambi i Paesi, infatti, non è prevista l’eutanasia attiva né è disciplinato dalla legge l’aiuto al suicidio, temi sui quali la Convenzione francese è stata chiamata ad esprimere le sue opinioni.
[11] Un istituto di ricerca e sondaggi, Harris Interactive è stato incaricato di estrarre a sorte numeri di telefono generati casualmente (85% di cellulare e 15% di rete fissa) e di effettuare telefonate per identificare il numero necessario di cittadini rappresentativi della diversità della società francese. Per garantire il fedele rispecchiamento, in seno alla Convenzione, delle diversità della società francese, il Comitato di governance ha deciso di adottare sei criteri di selezione e di provvista del nuovo organismo: il sesso; l’età (con la definizione di sei fasce, a partire dai 18 anni, proporzionali alla distribuzione della popolazione in classi di età); il territorio di residenza (centri urbani, periferie interne, comuni rurali etcc); la regione di origine (tenendo conto del differente peso demografico di ciascuna di esse); il livello di istruzione (articolato in sei categorie); la categoria socio-professionale (lavoratori, impiegati, dirigenti etcc).
[12] La Convenzione non è un organismo consultivo classico, perché non è portatrice di uno specifico sapere giuridico o tecnico da trasfondere ai decisori politici. Per altro verso, non essendo eletta da appartenenti a categorie socio-professionali né espressa dalle loro associazioni, la Convenzione non può neppure essere considerata come un organismo rappresentativo degli interessi e degli orientamenti di gruppi sociali ed economici. Né la Convenzione può essere annoverata tra gli strumenti di democrazia diretta o partecipativa perché la sua azione non è indirizzata a promuovere il voto popolare su di una legge (come nei casi del referendum abrogativo o confermativo) o a stimolare l’intervento del legislatore (come nel caso dell’iniziativa legislativa popolare) e neppure costituisce parte integrante del processo di adozione di una decisione politico - amministrativa. Infine, nonostante la procedura per la sua provvista sia affidata alla sorte, l’organismo non può neppure essere qualificato come espressione della “democrazia del sorteggio”. Al sorteggio infatti non si fa ricorso per realizzare una selezione di governanti o comunque di soggetti chiamati ad esercitare pubblici uffici, con lo scopo di dar vita ad una «rappresentanza non politica che si proponga come specchio della società, che selezioni casualmente le opzioni, gli umori, le stesse inadeguatezze degli attori sorteggiati a partire da una rappresentazione statistica delle varie situazioni sociali». Si è voluto, invece, ricreare una agorà, costruire un luogo di discussione e di confronto per favorire la libera espressione di opinioni al fine di far conoscere ai decisori politici gli orientamenti della popolazione su di un tema potenzialmente divisivo. Le peculiari caratteristiche della Convenzione - che la collocano al di fuori degli schemi tradizionali della funzione consultiva, della rappresentanza di interessi e della democrazia diretta e partecipativa – vanno ricercate altrove. Nelle modalità della sua formazione: un sorteggio attuato con tecniche dirette a dar vita ad un campione stratificato, in grado di rispecchiare fedelmente la popolazione. Nel metodo di lavoro adottato: il dialogo informato, svolto in uno spazio neutrale e garantito dalle istituzioni, nel quale vengono fornite ai partecipanti informazioni e testimonianze di esperti e si assicurano le condizioni di un ampio confronto delle idee e delle opinioni. Nella funzione svolta: potenziamento dell’opinione dei cittadini, garanzia di ascolto della loro voce da parte delle istituzioni, ausilio democratico ai processi decisionali. In luogo del classico sondaggio - che registra l’opinione pubblica “grezza” del cittadino, espressa a partire dalle informazioni di cui egli autonomamente dispone - nell’esperimento della Convenzione si realizza un “sondaggio deliberativo” connotato dall’offerta di informazioni ai componenti di un “campione” rappresentativo della popolazione e dall’invito rivolto ai partecipanti al sondaggio a dibattere, ed eventualmente a modificare, le posizioni di partenza sul tema oggetto di discussione. Si è dunque di fronte ad un esperimento di democrazia deliberativa, imperniato sull’uguaglianza effettiva dei partecipanti (nel contesto della convenzione), sull’accettazione delle diversità delle opinioni e sulla equità e neutralità delle condizioni in cui si svolge il processo deliberativo. La Convenzione si pone così come strumento di integrazione della democrazia rappresentativa che dai modelli partecipativi di ispirazione deliberativa riceve nuova linfa.
[13] Di qui la convinzione dei membri della Convenzione che è necessario migliorare l’accompagnamento alla fine della vita con una serie di misure: lo sviluppo del sostegno a domicilio; una migliore formazione degli operatori sanitari; la garanzia dei finanziamenti necessari per rendere efficace il supporto; una migliore formazione degli operatori sanitari nella materia delle cure palliative e il rafforzamento dell'accesso alle cure palliative per tutti e ovunque; una maggiore informazione di tutti i cittadini e l’intensificazione degli sforzi di ricerca e sviluppo per gestire meglio la sofferenza e sviluppare rimedi futuri, migliorando l'organizzazione del percorso di cura di fine vita.
[14] Da ultimo la Convenzione ha delineato il percorso da seguire per ottenere l’assistenza attiva nel morire individuando una sequenza che prevede: a) l’ascolto della richiesta, che deve garantire che la volontà espressa sia libera e informata; b) un supporto medico e psicologico completo, che includa una valutazione della consapevolezza del richiedente dell’assistenza; c) una convalida attraverso una procedura collegiale e multidisciplinare; d) l’esecuzione della procedura sotto la supervisione della professione medica (anche in caso di suicidio assistito) in un luogo scelto dalla persona (sia esso una struttura medica o il domicilio); e) l’istituzione di una commissione di monitoraggio e controllo che garantisca il rispetto della procedura. La grande maggioranza dei membri della Convenzione – il 78% - ha poi ritenuto che debba essere riconosciuto agli operatori sanitari il diritto all’obiezione di coscienza con il conseguente indirizzo dei pazienti ad un sanitario non obiettore.
[15] Il paziente può fare richiesta per iscritto o «con qualsiasi altro mezzo di espressione adatto alle sue capacità». Il personale medico che riceve la richiesta ha l’obbligo di informare la persona sul fatto che, in alternativa alla morte assistita, può ricorrere a un percorso di cure palliative o a qualsiasi altra alternativa possibile nella sua condizione. Il medico che valuta la richiesta è affiancato da una commissione interdisciplinare che ha 15 giorni di tempo per dare una risposta. Il paziente può comunque rinunciare in ogni momento all’assistenza richiesta.
[16] E’ reato l’ostacolo alla libera affermazione della volontà di chi vuole ricorrere alla morte assistita che si traduce nell’impedimento di informarsi sulla morte assistita o nella fornitura di informazioni fuorvianti sulla procedura.
[17] Su questo tema v. M. Donini, Il caso Fabo/Cappato fra diritto di non curarsi, diritto a trattamenti terminali e diritto di morire. L’opzione "non penalistica” della Corte costituzionale di fronte ad una trilogia inevitabile, in F.S. Marini, C. Cupelli (a cura di), Il caso Cappato, Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, prefazione di F. Viganò, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2019. Vedi anche M. Donini, Libera nos a malo. I diritti di disporre della propria vita per la neutralizzazione del male, in Sistema penale, 10 febbraio 2020. Dello stesso autore La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in Diritto penale contemporaneo, 15 marzo 2017.
[18] D. Pulitanò, Problemi del fine vita, diritto penale, laicità politica. A proposito di un referendum abrogativo, in Sistema penale, 19 ottobre 2021, p. 1, ha sostenuto che «lo iato fra gli effetti immediati d’una vittoria del referendum e la presentazione nel sito dei promotori è uno iato fra effetti giuridici e intenzioni politiche. L’obiettivo politico dichiarato è legalizzare l’eutanasia attiva in presenza dei requisiti indicati dalla sentenza della Consulta sul caso Cappato. Sta in questo obiettivo l’appeal politico ed etico dell’iniziativa referendaria». Sempre D. Pulitanò, a p. 4 afferma che «per inquadrare problemi che hanno a che fare anche con attività di altre persone, la prospettiva dell’autodeterminazione non è sufficiente. Una richiesta di aiuto al suicidio, o di eutanasia, chiede come risposta una determinazione di altri. Ed è la decisione dell’altro, il destinatario della richiesta d’aiuto, l’oggetto delle norme che incriminano l’aiuto al suicidio e/o l’eutanasia a richiesta». Su questi temi cfr. G. Fiandaca, Il diritto di morire tra paternalismo e liberalismo penale, in Foro it., 2009, V, p. 227. Mi sia consentito rinviare anche al mio scritto, L’impasse del fine vita. L’aiuto a morire tra referendum e legge, in Questione giustizia on line, 24.11.2021. Sul referendum cfr. T. Padovani, Riflessioni penalistiche circa l’ammissibilità del referendum sull’art. 579 C.P., Amicus Curiae, Nuovi seminari preventivi ferraresi; M. Donini, Eutanasia, ecco perché la Consulta non può bocciare il referendum, in Il Riformista, 13 novembre 2021.
[19] Come si è detto ha insistito molto su questo aspetto, la CEDU in una delle prime decisioni giudiziali sul tema del fine, Pretty vs United Kingdom, mentre tutte le sentenze della Corte costituzionale italiana ribadiscono tale preoccupazione.
[20] Di un legislatore “riluttante” parla F. Rimoli, in F. Fornero, F. Rimoli, R. D’Andrea, Diritto di vivere e di morire: una rivoluzione copernicana: dialogo tra un filosofo, un costituzionalista e un penalista, p. 188. ed. digitale, UTET, 2025.
[21] Su questi temi v. anche Corte di assise di Massa, sentenza 27 luglio 2020, che ha assolto Marco Cappato e Mina Welby dal reato di cui all’art. 580 c.p., per l’aiuto materiale fornito a Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, per l’attuazione del suo proposito di darsi la morte presso una clinica svizzera, con nota di A. Massaro, La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale nelle procedure di suicidio medicalmente assistito: ridescrizione o interpretatio abrogans? in Giurisprudenza penale; vedi anche Corte di assise di appello di Genova del 28 aprile 2021.
L'immagine di copertina è dedicata a due stelle che se ne sono andate: le gemelle Kessler.
L’articolo è una rielaborazione dell’intervento svolto dall’autore al Festival Parole di giustizia (Urbino- Pesaro) in un dialogo con Luigi Manconi sul tema “Liberi di vivere, liberi di morire” nella giornata del 25 ottobre 2025.