Magistratura democratica
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La situazione della donna nel diritto del lavoro *

di Rita Sanlorenzo
avvocata generale, Procura generale Corte di cassazione, vicedirettrice di Questione Giustizia

1. L’evidenza del numero 

Non esiste, non può esistere, analisi complessiva sulla condizione della donna in una data società, se non si dedica una specifica attenzione alla sua presenza, su un piano quali-quantitativo, ed al trattamento riservatole nel mondo del lavoro. Anzi, a ben vedere, è proprio la realtà lavorativa di un Paese, vista secondo una lente di genere, che può dire tanto su quale sia lo stato di evoluzione del percorso (accidentato) che deve necessariamente portare, vogliamo sperarlo, e lo sosteniamo convintamente, al traguardo della parità tra i sessi. Parità che, sia consentito specificarlo in esordio, significa essenzialmente parità di opportunità, parità nelle opzioni di scelta, parità comunque sempre nel rispetto della differenza, senza il quale non vi è libertà dell’individuo.

La condizione della donna nel mercato del lavoro italiano, lo sappiamo bene, è segnata da un profondo scarto rispetto a quella maschile: si registrano differenziali significativi, particolarmente negativi se rapportati a quelli del resto d’Europa, per quel che concerne la presenza nel mercato del lavoro, il trattamento retributivo, le prospettive di evoluzione di carriera[1].

Decisamente deteriore, rispetto alle statistiche degli altri Paesi europei, è la situazione in Italia per ciò che concerne la partecipazione al mercato del lavoro. Il rapporto CNEL – ISTAT 2025[2] chiarisce che il tasso di occupazione femminile risulta inferiore di 12,6 punti alla media Ue ed è il valore più basso tra i 27 paesi dell’Unione. Altresì illuminanti, e senza possibilità di equivoco, sono i dati percentuali sulla segregazione verticale femminile (il cd. “tetto di cristallo”), così come quelli sul differenziale di genere tra retribuzioni medie che, seppure alcuni segnali di miglioramento, resta alquanto marcato, superiore ai 6 mila euro su base annua a vantaggio dei dipendenti maschi. Evidentemente tutto questo comporta anche un divario pensionistico, il cd. gender pension gap[3], anche questo estremamente significativo, laddove se il 52% dei pensionati è di genere femminile, alle donne viene corrisposto solo il 44% dell’ammontare complessivo di quanto erogato, con un importo medio mensile del 36% inferiore a quello spettante ai componenti del genere maschile.

Naturalmente questi dati andrebbero affinati, secondo parametri che risulterebbero determinanti ai fini di mettere al fuoco più nel dettaglio una immagine d’insieme già di per sé sconfortante. Potrebbero risultare ancora più significativi qualora si tenesse conto delle diversità geografiche (il divario nord – sud, per esempio, è ancora oggi molto marcato), dell’incidenza del fattore maternità, con il conseguente calo dell’occupazione delle donne con figli piccoli, e della sicura influenza del dato concernente il livello di istruzione, dal momento che il tasso di occupazione delle donne laureate è di oltre il 90%, ed è invece al 49% per le donne con licenzia media. Molto significativa è poi la diversa distribuzione delle donne lavoratrici nei vari settori di impiego: in alcuni di essi, soprattutto relativi ai servizi, la presenza delle donne è preponderante, basti dire che nella scuola esse rappresentano ormai l’80%. Il dato comporta poi un’altra conseguenza, su cui sarebbe necessaria una riflessione a parte (che potrebbe riguardare, in un futuro non tanto lontano, anche il mondo della magistratura): la femminilizzazione di un comparto da sempre comporta anche la sua svalutazione sul piano economico.

 

2. Una lunga rincorsa… che ancora continua

L’obbiettivo dell’emancipazione femminile si focalizza a partire dagli inizi del “secolo breve”: è nel ‘900 infatti che si creano le condizioni per un’attenzione generale al raggiungimento della parità uomo – donna, sulla scia di movimenti e prese di posizioni nate soprattutto in Francia ed in Inghilterra. Per quel che riguarda l’Italia, colpisce che solo nel 1919, con la legge n. 1176, alle donne è stata attribuita una capacità negoziale piena con l’abolizione dell’istituto dell’autorizzazione maritale, giustificato in base ad una logica protettiva (per cui le donne dovevano essere protette innanzitutto da loro stesse…). Con la stessa legge, le donne venivano ammesse ad esercitare tutte le professioni, escluse quelle che «implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche o che attengono alla difesa militare dello Stato».

Alla stessa logica di protezione si ispira il legislatore del ‘900 per varare i primi interventi normativi a tutela delle donne lavoratrici: nel 1902 con la legge n. 242[4] si regolano alcuni aspetti del lavoro delle donne e dei minori; nel 1907, con la l. n. 816, si vieta per le donne ogni forma di lavoro notturno; nel 1934, con la l. n. 653 vengono posti limiti per l’ammissione dei fanciulli e delle donne a lavori insalubri, sotterranei, notturni. Sono altresì proibiti alle donne alcuni lavori giudicati “moralmente” pericolosi. Si fissa il limite di 11 ore giornaliere per le donne lavoratrici che hanno compiuto 15 anni.

Il salto decisivo nell’approccio giuridico al tema della parità, anche nel lavoro, coincide con il varo della Costituzione repubblicana, che nell’art. 37 traduce il principio di eguaglianza di cui all’art. 3, seppure optando per una formulazione di compromesso secondo cui le condizioni di lavoro dovranno comunque consentire «l’adempimento della sua essenziale funzione familiare». Nonostante la chiara affermazione di una parità nei diritti e nella retribuzione, la condizione femminile resta ancorata ad un ruolo intrafamiliare, la cui essenzialità entra in conflitto con l’enunciazione del principio generale. 

Molto vivace in sede costituente fu anche il dibattito relativo all’art. 51 Cost., e alla possibilità di inserirvi la garanzia di una piena parità di accesso alle cariche pubbliche, pur con la precisazione «secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Leggendo il dibattito interno alla Costituente, spicca la centralità dell’apporto della componente femminile, che riuscì ad evitare che la formulazione della disposizione contenesse piuttosto un richiamo alle «attitudini» quale criterio cui agganciarsi per giustificare eventuali deroghe al principio stesso di eguaglianza. In quella sede già si discusse della possibilità di escludere le donne dal diritto di accedere a un particolare ufficio pubblico, quello di magistrato. E resta indelebile il ricordo dei termini di quel dibattito, durante il quale alcuni non ebbero ritegno nell’affermare che in questo specifico settore l’eguaglianza non meritava di essere garantita, essendo noto «già nel diritto romano [...] che la donna, in determinati periodi della sua vita, non ha la piena capacità di lavoro».

Spettò qualche anno dopo alla Corte costituzionale, con la sentenza n. 33 del 1960 (che dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 7 della l. n. 1176 del 1919), affermare la portata precettiva del principio di eguaglianza in materia di accesso ai pubblici uffici, rimuovendo la norma che escludeva le donne dal concorso per l’ingresso in magistratura.

La riflessione sul precetto dell’art. 37 Cost., con quella peculiare formulazione[5] che giunge a comporre tra loro il principio di parità e l’esigenza di tutela attraverso il richiamo all’«essenziale funzione familiare» della donna, aiuta a cogliere la diversa prospettiva in cui l’intervento legislativo di qui in avanti si colloca: e se è dall’ottica di protezione che il legislatore pre-repubblicano in effetti aveva preso le mosse (essenzialmente con le leggi del 1934, non solo la n. 653, ma anche la n. 1347, che procedette ad un notevole innalzamento dei livelli di tutela della maternità[6]), va detto che su questa stessa linea muovono i primi passi delle disposizioni adottate dal Legislatore repubblicano: la legge n. 7 del 1963, che introduce il divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio[7], e la l. n. 1204/1971, intitolata alla tutela delle lavoratrici madri. Di certo, con l’intervento del 1971, che introduce come è noto una serie complessiva di strumenti a difesa della condizione delle donne lavoratrici, durante lo stato di gravidanza e poi nella fase successiva alla nascita dei figli (attraverso l’introduzione del divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età della prole, del congedo obbligatorio della durata di cinque mesi, del diritto all’indennità di maternità) viene compiuto un notevole progresso non solo più nell’ottica di tutela, ma secondo il perseguimento dell’obbiettivo di parità che parta dunque dalla constatazione della peculiarità della condizione della madre lavoratrice, e dalla necessità di introdurre strumenti specifici che ne agevolino la permanenza nel mondo del lavoro.

Una più netta affermazione del principio costituzionale di parità (con particolare attenzione alla normativa antidiscriminatoria di matrice europea) si realizza qualche anno dopo (anche sulla spinta dei movimenti femministi ed in generale del fermento sociale per l’ampliamento dei diritti civili e sociali) con l’approvazione della legge n. 903/1977, non a caso varata da una Ministra del lavoro donna, l’on. Tina Anselmi. Il provvedimento interviene direttamente sulla scia del dettato dell’art. 37 Cost., ribadendo il principio di parità di trattamento retributivo, e afferma il divieto di ogni discriminazione «fondata sul sesso» per quel che riguarda l’accesso al lavoro, nonché l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera. Si tratta di un impianto normativo – non indenne da critiche al suo varo – che punta all’affermazione di un principio di parità muovendo da una concezione formale dell’eguaglianza, secondo il 1° comma dell’art. 3 Cost.: la regola deve essere uguale per tutti, e lo stesso modello in nome della parità deve valere per tutti, uomini e donne. 

Si osservò in proposito che il Legislatore era rimasto “cieco” alla specificità femminile[8], articolando una serie di divieti – naturalmente tutti condivisibili in via di principio – che così formulati, mostravano di trascurare del tutto la dimensione dell’eguaglianza sostanziale, di cui al 2° comma dello stesso art. 3 Cost., obbiettivo ben più impegnativo anche sul piano politico.

Va detto però che con la l. n. 903[9], oltre a trovare enunciazione alcuni principi irrinunciabili, fa ingresso nel diritto positivo nazionale il concetto di discriminazione, di diretta derivazione europea[10], che poi ha segnato tutta l’evoluzione della legislazione successiva e che, ancora oggi, è sotto la lente dei giudici nazionali per definirne i limiti e gli ambiti di applicazione.

Sicuramente, è stata proprio la contestualizzazione del tema nel diritto dell’Unione europea a costituire un passaggio essenziale, sia perché è grazie al diritto comunitario che si è prodotta quella spinta nella legislazione ordinaria che ha consentito ai principi sanciti nella Costituzione democratica di non restare sulla carta, sia perché è dal diritto europeo che quello italiano ha mutuato nozioni e tecnica di tutela del diritto antidiscriminatorio[11]

Il cammino intrapreso è destinato a raggiungere altri traguardi: un’altra significativa tappa, nei presupposti e nei contenuti, viene raggiunta con l’approvazione della legge n. 195/1991, che punta espressamente al raggiungimento di un’uguaglianza non meramente formale, ma sostanziale, tra uomini e donne nel lavoro, «anche mediante l'adozione di misure, denominate azioni positive per le donne, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità». Vengono istituiti il Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, e i Consiglieri di parità. Importante, soprattutto per la successiva esperienza applicativa giurisprudenziale, è l’introduzione della definizione normativa delle nozioni di discriminazione diretta ed indiretta[12]; sempre per quel che riguarda le azioni in giudizio, si inaugura un peculiare regime dell’onere della prova[13], a cui si affianca la previsione della legittimazione attiva dei consiglieri di parità in caso di discriminazioni collettive, e l’attribuzione al giudice, dopo aver accertato la discriminazione, del potere di definire un piano di sua rimozione, la cui inosservanza è sanzionabile penalmente ai sensi dell’art. 650 c.p.

 

3. La legislazione antidiscriminatoria e la sua applicazione da parte dei giudici

Nel frattempo, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, si registra un processo di rafforzamento della legislazione europea[14] avente di mira l’affermazione del principio di parità uomo/donna, attraverso l’emanazione di un gruppo significativo di direttive[15] che, oltre a contrassegnare l’ampliamento degli obblighi degli Stati membri, è frutto della acquisizione di un ben maggior grado di importanza nelle politiche europee del principio di parità, che assume il ruolo di obbiettivo trasversale attraverso il cd. gender mainstreaming. In questa direzione si colloca, con il varo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel 2000, l’inserimento del principio di uguaglianza davanti alla legge e di non discriminazione (artt. 20 e 21) nel ventaglio dei principi fondamentali dell’Unione.

Le direttive del nuovo millennio[16] elaborano con maggior specificazione il concetto di discriminazione, diretta e indiretta, oltre ad individuare una più compiuta serie di fattori di discriminazione, che ormai annoverano, oltre alla razza e all’origine etnica, l’età, l’orientamento sessuale, l’handicap, la religione e le convinzioni personali. 

Questo ampliamento conduce in Italia al varo di una specifica normativa antidiscriminatoria, rivolta alle categorie protette individuate a livello europeo, formalizzata nei decreti legislativi 215 e 216 del 2003. Per quel che riguarda le discriminazioni di genere, nel 2006 con il d.lgs 198 vede la luce il «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna»[17], che sancisce il divieto di discriminazione e la parità di trattamento in tutti i campi, mirando a rimuovere ogni forma di discriminazione di genere attraverso l'adozione di politiche e misure concrete. L’ambizione è quella di dare veste organica e complessiva all’intera materia, peraltro nel frattempo investita da interventi legislativi settoriali e parcellizzati. Il corpus normativo riorganizza gli organismi di parità, per quel che riguarda il lavoro riprende le definizioni di discriminazione diretta ed indiretta (art. 25, come modificato nel 2021 dalla l. n. 162), a cui affianca le molestie e le molestie sessuali quale forma specifica di discriminazione, ribadisce i divieti di discriminazione, fra cui quello in materia retributiva, riprende il tema della difesa giudiziale contro le discriminazioni ribadendo il regime della legittimazione e dell’onere della prova. Circa la tutela ed il sostegno della maternità e paternità opera il richiamo il d.lgs. 151/2001, a sua volta Testo unico in materia.

Come forse già emerge da questa sintetica panoramica degli interventi normativi, è indubbio che la legislazione antidiscriminatoria attribuisce un ruolo fondamentale (c’è chi dice anzi che ad essa finisce per affidare per intero la cura del tema delle diseguaglianze[18]) alla tutela di carattere giudiziale. E’ innegabile che il proposito del Legislatore, ribadito nelle varie occasioni, di incentivare azioni positive di tipo promozionale non ha portato gli esiti sperati: resta il ricorso al giudice, e l’aspettativa di un intervento giudiziale che rimedi a disparità di trattamento che colpiscono la lavoratrice donna, per la sua appartenenza di genere.

Va detto ancora che non è stata senza incertezze la ricezione da parte della giurisprudenza italiana delle nozioni derivanti dal diritto antidiscriminatorio, che per sua struttura e per le sue radici nella matrice europea presenta alcune salienti peculiarità non di immediata acquisizione per la nostra tradizione giuridica. Solo nel 2016 la Corte di cassazione con la sentenza n. 6575[19], modificando un consolidato orientamento precedente, è approdata all’affermazione in sede di legittimità del carattere oggettivo e funzionale dei divieti di discriminazione, inaugurando un indirizzo che oggi deve dirsi consolidato. Via via si sono però consolidati gli orientamenti interpretativi a proposito della distinzione, e del rispettivo ambito di applicazione, tra discriminazione diretta ed indiretta[20], e in tema di ambito dell’onere probatorio nei giudizi contro le discriminazioni[21]; è stata ribadita l’affermazione della natura discriminatoria delle molestie, e delle molestie sessuali, secondo l’equiparazione enunciata nell'art. 26, comma 2, del d.lgs. n. 198 del 2006, comportante anche l’applicazione del peculiare onere di prova “alleggerito” ex art. 40 del medesimo decreto[22]; si è altresì sanzionata quella forma di discriminazione peculiare che integra una cd. “vittimizzazione secondaria”, che consiste nella reazione datoriale contro la lavoratrice che aveva denunciato di essere stata fatta oggetto di molestie sessuali, alla stregua della previsione dell’art. 26, co.3 d.lgs. n. 198 del 2006, e per quel che riguarda l’impiego pubblico, dell’art. 54-bis co.1, d.lgs. n. 165/2001, ora sost. dal d.lgs. n. 24 del 2023[23].

Ancora di recente, la Corte costituzionale, per parte sua, è stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale della normativa concernente l’Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria (l. n. 395/1990) laddove sancisce un trattamento differenziato in base al genere nella dotazione organica del ruolo degli ispettori, cui sono assegnati compiti di direzione e coordinamento, ove è prevista una netta prevalenza della presenza maschile. Con la sent. n. 184/2024[24], la Corte ha sancito l’illegittimità costituzionale della disposizione, per contrarietà con l’art. 3 della Costituzione e della direttiva 2006/54, laddove «Alla luce dei compiti di direzione e di coordinamento, che contraddistinguono le mansioni assegnate agli ispettori, la più esigua rappresentanza femminile non rinviene alcuna ragionevole giustificazione in un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa, nei termini rigorosi enucleati dall’art. 14, paragrafo 2, della direttiva 2006/54/CE»[25].

Sta di fatto che il progresso compiuto nella legislazione, e nelle pronunce dei giudici, nell’affermazione del principio di parità, se messo a confronto con le premesse numeriche di questo breve scritto, sembra non avere portato a risultati sufficienti, per vari aspetti e in relazione alle differenze più sensibili e significative. Si affaccia tra gli osservatori e le osservatrici della materia, la domanda, non provocatoria ma giustificato dalla considerazione della realtà dei fatti, a proposito dell’effettiva utilità, per le donne, e per la loro condizione di lavoratrici, dei divieti di discriminazione[26], che, in qualche misura, hanno contribuito a sopprimere forme legislative di tutela (quali il divieto di lavoro notturno e l’anticipazione dell’età pensionabile), in un contesto di più generale perdita di garanzie per chi dal proprio lavoro trae prima di ogni altra cosa le risorse per vivere.

 

4. Che fare allora?

Si profilano alcune prospettive di intervento, pur nella consapevolezza della situazione e del dato di contorno che corrisponde a un modello sociale e culturale (quello patriarcale) che evidentemente in Italia non recede, o almeno non alla velocità che vorremmo venisse impressa al cambiamento.

L’aspetto più clamoroso, soprattutto per quel che riguarda l’evidente incapacità delle norme a porre rimedio efficace alla diseguaglianza di fatto, riguarda il gender pay gap, della cui effettiva incidenza già si è detto in esordio. Eppure, sin dall’art. 37 della Costituzione, e poi via via, con le innovazioni legislative in tema di parità, sino alla più recente formulazione dell’art. 28 del Codice delle pari opportunità[27], il Legislatore italiano non ha mai receduto dalla linea rigorosa di affermazione incondizionata del principio: che evidentemente non vale ad eliminare quel differenziale che, pur depurando il dato di molti elementi che caratterizzano la condizione della lavoratrice donna rispetto al lavoratore uomo (maggior ricorso al part time, anche in considerazione del maggior impegno nei lavori di cura, segregazione in settori meno remunerativi, minor durata di carriera anche a causa delle sospensioni per maternità), significa evidentemente che, per lo stesso lavoro, o per un lavoro di eguale valore, la donna è pagata meno.

È esperienza comune che la norma dell’art. 28 del codice delle pari opportunità abbia avuto nella pratica giudiziale scarsissima applicazione. Le ragioni possono essere diverse: fino ad una decina di anni fa, almeno fino al revirement operato con la già citata Cass., n. 6575/2016, potevano rinvenirsi nella diffusa ricostruzione giurisprudenziale della discriminazione come motivo illecito, con le conseguenti difficoltà probatorie per chi ne facesse oggetto di prospettazione in giudizio. Può aver influito anche l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che, almeno a partire da Cass., sez. unite, 9 maggio 1993, n. 6030, ha escluso l’esistenza, nel rapporto di lavoro privato, di un principio di parità di trattamento contrattuale, oltre la “parità nei minimi”, così che ogni trattamento differenziato al di sopra di tali minimi era considerato legittimo, a meno che non vi fosse prova della sua natura discriminatoria, secondo l’accezione soggettiva, con i conseguenti oneri di prova.

Va detto però che anche nello stato attuale l’onere gravante sulla parte che si afferma discriminata non è agevole. Come individuare infatti il lavoratore comparabile, specie quando si fa questione di lavoratori che svolgono non lo stesso lavoro, ma un lavoro di “uguale valore”? Come ottenere, da parte della lavoratrice che assuma di essere discriminata, i dati retributivi dei colleghi? Neppure all’esito delle modifiche apportate da ultimo dalla l. n. 162/2021 al Codice delle pari opportunità, si sancisce il pieno diritto della lavoratrice o del lavoratore a ottenere dal datore di lavoro informazioni relative alla retribuzione corrisposta agli altri dipendenti che svolgano analoghe mansioni. Esiste ad oggi un’unica possibilità, quella di accedere al rapporto sulla situazione del personale, che i datori di lavoro pubblici e privati che impieghino più di cinquanta dipendenti sono tenuti a redigere e a trasmettere al Ministero del lavoro «ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta» (così il testo vigente dell’art. 46 d.lgs n. 198/2006, da ultimo modificato dalla l. n. 162/2021)[28].

Una volta assolto l’onere di dimostrare il trattamento deteriore a parità di mansioni (cioè l’attribuzione di una retribuzione inferiore rispetto al lavoratore comparabile), spetterà al datore di lavoro dimostrare l’inesistenza della discriminazione, quindi l’esistenza di una ragione alternativa lecita per l’attribuzione del trattamento differenziale, con allegazioni altrettanto specifiche e prove sufficienti. E l’insufficienza o la contraddittorietà di una simile prova andranno a suo danno, in ragione del meccanismo probatorio oggi descritto dall’art. 40 del codice delle pari opportunità. 

In questa situazione data, è intervenuta la direttiva 2023/970[29] che si propone di migliorare la situazione, comune a tutti gli Stati, attraverso l’elaborazione di alcuni strumenti di supporto – tra cui diritti di informazione e di comunicazione ad hoc – che devono essere trasposti entro il 7 giugno 2026.

Interessante è l’affermazione (all’art. 7) del diritto dei lavoratori e delle lavoratrici all'informazione sulle retribuzioni in via generale, concernente i «livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore». In caso di informazioni imprecise o incomplete, i lavoratori hanno il diritto di richiedere, personalmente o tramite i loro rappresentanti dei lavoratori, chiarimenti e dettagli ulteriori e ragionevoli riguardo ai dati forniti e di ricevere una risposta motivata. In ogni caso il datore di lavoro ha l’obbligo di rispondere entro due mesi. In caso di mancata attuazione degli obblighi datoriali di trasparenza, gli Stati membri devono provvedere «affinché spetti al datore di lavoro dimostrare, nei procedimenti amministrativi o giudiziari riguardanti una presunta discriminazione retributiva diretta o indiretta, che non vi è stata una siffatta discriminazione». Infine, la direttiva prevede che la comparazione non debba avvenire necessariamente tra soggetti effettivamente dipendenti dello stesso datore di lavoro in coincidenza con il rapporto di lavoro della lavoratrice che si affermi discriminata (la comparazione può non essere agevole in settori lavorativi in cui la manodopera è in gran parte femminile), ma piuttosto che debba essere estesa «alla fonte unica che stabilisce le condizioni retributive». L'indagine dunque potrà estendersi per esempio a tutti i dipendenti di un gruppo societario, per i quali il trattamento retributivo sia disciplinato in maniera unitaria, ma anche alle previsioni della contrattazione collettiva, quando il trattamento differenziale derivi direttamente dall'applicazione di norme dell'autonomia collettiva (come accade nei casi di attribuzione di voci retributive accessorie connesse alla presenza per un tempo determinato, e che non tengono conto delle assenze per maternità o congedo parentale). Ma la comparazione potrà essere estesa anche ai trattamenti retributivi corrisposti in passato dal datore di lavoro, ovvero riguardare un terzo ipotetico, anche attraverso il riferimento a dati statistici.

E’ evidente che con la Direttiva in esame, il Legislatore europeo si è fatto carico di superare la mera fase dell’affermazione del divieto, per corredare il meccanismo giudiziale di strumenti e schemi di funzionamento capaci di portare all’accertamento della reale sussistenza della discriminazione, anche indiretta: se a ciò si aggiunge la considerazione di previsioni specifiche riguardanti la prescrizione[30] e le spese di giudizio[31], oltre che l’apparato sanzionatorio tipico delle violazioni del divieto di discriminazione (recupero delle somme perdute, cui possono aggiungersi sanzioni «efficaci, proporzionate e dissuasive» delle violazioni, ordine di cessazione e piano di rimozione), ci si può fare un’idea complessiva di come ed in che misura questa volta si intenda raggiungere il risultato.

Su un piano diverso, ma parimenti essenziale per il percorso verso la parità, con la direttiva n. 1158 del 2019 le politiche europee hanno proposto agli Stati membri una nuova visione di quella che tradizionalmente veniva definita la «conciliazione» tra tempi di lavoro e tempi di vita, definendo piuttosto l’obbiettivo come un «equilibrio tra l’attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza», così allargando lo sguardo oltre il confine dei vincoli della genitorialità, per considerare obblighi familiari anche di altro tipo, più strettamente assistenziali, sempre più incombenti dato anche il progressivo invecchiamento della popolazione.

Le direttrici prioritariamente seguite per raggiungere questo auspicato equilibrio sono quelle della flessibilità, ovvero della riduzione, degli orari di lavoro, e quello del lavoro da remoto, oltre al rafforzamento dei congedi di paternità ed all’ampiamento dei congedi parentali.

L’attuazione operata con il d.lgs n. 105/2022[32], ha però in buona misura deluso le aspettative, ignorando la sollecitazione a favorire le possibilità di scelta del lavoratore di un orario consono alle proprie specifiche esigenze. Il provvedimento non si è in realtà occupato in alcun modo di intervenire sulle possibilità di modulazione dell’orario secondo le necessità di provvedere anche alle esigenze familiari, occupandosi piuttosto dell’estensione dei congedi di paternità (fissando in dieci giorni quello obbligatorio), e della regolamentazione di quelli parentali (estesi fino all’età di dodici anni del bambino, della durata di tre mesi per genitore, estensibile a sei, ma nel termine massimo complessivo di nove mesi).

I più recenti interventi governativi in materia riguardano non tanto l’incentivazione del lavoro femminile, quanto il riconoscimento di contributi economici alle famiglie, già formate e con prole: il caso più noto è quello del cd. “bonus mamme”. La misura è stata introdotta con l’articolo 1, commi da 180 a 182, della legge 30 dicembre 2023, n.213 (L. Finanziaria 2024) e consiste in un esonero contributivo per le madri lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato, con tre o più figli, fino alla maggiore età del figlio o della figlia più piccola. L'esonero è pari al 100% della quota dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici, nel limite massimo di 3.000 euro l'anno. La misura, in via sperimentale, è stata estesa anche alle lavoratrici madri di due figli, purché il più piccolo o la più piccola avesse un’età inferiore ai dieci anni. L’ultima Finanziaria (appena approvata dal Governo) prevede un intero capitolo dedicato alle «Misure in materia di famiglia e pari opportunità», che comprendono il rinnovo del bonus, e nell’agevolazione – sempre attraverso la decontribuzione – del part-time per le medesime madri. 

Va detto che quella delle decontribuzioni, e dei bonus è una politica che non affronta il problema dalla radice. Anzi, così come realizzati, introducono elementi di disparità di trattamento che portano a dubitare della loro conformità a Costituzione. Il Tribunale di Milano con ordinanza del 23.10.2024[33] ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 180 e 181, l. n. 213/2023 nella parte in cui non riconosce l’esonero contributivo anche alle lavoratrici madri di tre o più figli (e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli) con rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato e nella parte in cui esclude l’esonero contributivo per i rapporti di lavoro domestico. La questione è stata discussa all’udienza pubblica dell’11 giugno 2025.

Viene da osservare che, prima di introdurre strumenti di tale fatta, sarebbe opportuno constatare che, come dicono tutti i rilievi statistici, in realtà si fanno più figli dove le donne lavorano di più e con più qualità, ci sono più infrastrutture sociali, e dove gli uomini condividono di più il lavoro di cura.

Purtroppo, nel nostro Paese il percorso che dovrebbe portare, come esito naturale, al traguardo della condivisione paritaria del lavoro di cura è dunque ancora molto lontano: e certo le leggi attualmente in vigore non lo realizzano ancora appieno, ma soprattutto l’ostacolo maggiore sta nel permanere, tra i più larghi strati della nostra società, dell’adesione ad un modello patriarcale, per cui è sempre la donna, prevalentemente almeno, a doversi occupare dell’accudimento della prole, e del lavoro di cura familiare. Il che evidentemente ha ricadute sì sulla presenza della donna nel mondo del lavoro, ma purtroppo anche sulla denatalità del nostro Paese. Insomma, è difficile immaginare strumenti giuridici che meccanicamente possano portare al risultato della parità: di certo, non basta l’enunciazione del principio, e non basta nemmeno inseguire una parità asessuata, servendosi di modelli indistinti. Ma bisogna anche prestare grande attenzione a quelle misure di conciliazione che possono avere un effetto “di segregazione”, all’interno dell’ambiente di lavoro e, più estesamente, rispetto alla fisiologica partecipazione alla vita sociale. E’ il caso del part-time e anche dello smart working, che in molti casi viene “piegato” alle esigenze familiari di cui far carico alla sola donna lavoratrice.

Constatata l’inadeguatezza, o comunque l’insufficienza, del diritto antidiscriminatorio a raggiungere l’obbiettivo di una effettiva parità, la questione è ormai da porre su un piano più complessivo, che implichi un progetto di un nuovo modello di società, che sappia dare oltre che più diritti, più servizi e più opportunità di scelta, differenziando anche tra le varie fasi della vita. Quindi sì, per sintetizzare, e per richiamare un recente, documentatissimo studio[34] che bene spiega le premesse, e soprattutto le ragioni di un approdo, la questione del lavoro delle donne, così ancora drammaticamente aperta, addirittura tale da sembrare ingravescente, è una questione essenzialmente redistributiva, che necessita di una nuova ripartizione di ruoli, di obblighi e di opportunità di scelta.


 
[1] Secondo il Global Gender Gap Report 2025, https://reports.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2025.pdf, l’Italia occupa l’85.ma posizione su 185 Paesi nella statistica generale. Per un commento al quadro generale che emerge dal Report globale, F. MARINELLI, Rapporto globale sulla disparità di genere, in LDE, https://www.lavorodirittieuropa.it/dottrina/parita-e-non-discriminazione/2148-rapporto-globale-sulla-disparita-di-genere-2025

[2] Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità, Rapporto CNEL–ISTAT, leggibile in https://www.cnel.it/Portals/0/CNEL/Comunicazione/PROGRAMMI%20EVENTI/Cnel_Istat_Il%20lavoro%20delle%20donne%20tra%20ostacoli%20e%20opportunit%C3%A0.pdf?ver=2025-03-06-101631-840&timestamp=1741256197000. Vi si riporta tra l’altro che, pur avendo raggiunto il suo massimo livello, il tasso di occupazione femminile è cresciuto in Italia meno rispetto alla media Ue: 6 punti dal 2008 al 2024 in confronto a 8,6 punti in Europa. Il gap di genere nel tasso di occupazione è quasi il doppio della media Ue: 17,4 punti contro 9,1 punti. Ad ampliare ulteriormente i divari con l’Ue si aggiungono le marcate disparità territoriali: mentre tutte le regioni del Nord e del Centro, tranne il Lazio, hanno raggiunto l’obiettivo previsto dalla Strategia di Lisbona 2010, pari al 60%, nessuna regione meridionale ha raggiunto il target europeo.

[3] INPS, Analisi dei divari di genere nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale attraverso i dati INPS, 2024, in https://www.inps.it/it/it/dati-e-bilanci/attivit--di-ricerca/pubblicazioni/studi-e-analisi/2024.html

[4] La Legge 19 giugno 1902, n. 242, nota come Legge Carcano, è stata la prima legislazione italiana volta a tutelare il lavoro femminile e minorile, limitando l'orario massimo di lavoro delle donne a 12 ore, vietando il lavoro notturno per le donne minorenni, i lavori sotterranei per le donne e fissando l'età minima per l'ammissione al lavoro a 12 anni per i fanciulli. La legge introduceva anche per la prima volta il congedo di maternità, prevedendo un riposo obbligatorio di un mese dopo il parto.

[5] Frutto della mediazione compiuta in sede di Assemblea Costituente dall’on. Aldo Moro. Scrive E. TARQUINI, in Le discriminazioni economiche e di carriera delle donne nel mercato del lavoro, https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/le-discriminazioni-economiche-e-di-carriera-delle-donne-nel-mercato-del-lavoro: «Ma il richiamo all’essenziale funzione familiare della donna lavoratrice dice anche altro, perché c’è nella norma, obiettivamente (e la sua formazione in Assemblea costituente lo testimonia), il riferimento anche a un ruolo sociale, a un modello di relazione tra i generi nel quale il lavoro di cura (e di riproduzione sociale) apparteneva naturalmente, nel senso preciso di “per natura”, alle donne».

[6] Sulle politiche per il lavoro femminile del fascismo, vedi M. V. BALLESTRERO, Dalla tutela alla parità, 1978, Il diritto del lavoro e la differenza di genere, in RGL, 1998, parte 1, p. 287 ss., in particolare p. 293, dove si dà conto, peraltro, di una notevole serie di interventi legislativi di carattere espulsivo delle donne prima dal settore pubblico, e poi anche da quello privato.

[7] Sono stati respinti dalla giurisprudenza i tentativi di prospettare come discriminatorio il divieto di licenziamento per causa di matrimonio nei confronti delle sole lavoratrici di sesso femminile, posto che la limitazione della nullità prevista dall'art. 35 del d.lgs. n. 198 del 2006 «non ha natura discriminatoria, in quanto la diversità di trattamento non trova la sua giustificazione nel genere del soggetto che presta l'attività lavorativa, ma è coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare, ed è fondata su una pluralità di principi costituzionali posti a tutela dei diritti della donna lavoratrice» (Cass., n. 28926/2018; n. 10286/2024).

[8] M. V. BALLESTRERO, Dalla tutela, cit., p. 241 ss., secondo cui la l. n. 903 si era limitata ad integrare le donne nella condizione giuridica sino a quel momento riservata agli uomini, senza avere di mira quegli svantaggi di partenza capaci di compromettere il raggiungimento dell’obbiettivo proposto, e per contrastare i quali occorre prendere le mosse dalla considerazione della condizione femminile.

[9] La legge n. 903 introdusse anche, all’art. 5, il divieto di lavoro notturno per le donne, poi giudicato dalla Corte di Giustizia europea (CGUE, Stoeckel, C-345/89, 25 luglio 1991, n. 345), incompatibile con l’art. 5 della direttiva comunitaria n. 76/207 adottata dal Consiglio delle comunità europee il 9 febbraio 1976, per il quale agli uomini ed alle donne debbono essere garantite le medesime condizioni di lavoro senza discriminazioni di sesso, e pertanto deve essere disapplicata dal giudice nazionale anche nell’ambito dei rapporti intersoggettivi delle parti del rapporto di lavoro ; all’art. 4 fu attribuita alle donne lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, la possibilità di continuare a lavorare negli stessi limiti di durata del rapporto di lavoro prevista per l’uomo lavoratore da disposizioni legislative, regolamentari o contrattuali, ma solo per le donne richiedeva un’opzione in tal senso e la sua comunicazione al datore di lavoro, da farsi entro un termine prestabilito, previsione che anche in questo caso (pur fatta salva da C. Cost., n. 498/1988) venne giudicata dalla CGUE in contrasto con i principi normativi europei, posto che «i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo» (CGUE, Commissione c. Repubblica italiana, C-46/07, 13 novembre 2008); all’art. 7 viene introdotta la possibilità per il padre di fruire dell’aspettativa facoltativa e di permessi per paternità.

[10] Come è noto, il principio di parità di trattamento fra uomo e donna sul piano retributivo venne inserito nel Trattato di Roma, all’art. 119 (ora art. 157 TFUE, fu dettato essenzialmente da ragioni ispirate al principio della libera concorrenza obbiettivo primario del mercato unico europeo. A questa affermazione solenne fecero seguito alcune direttive, di prima generazione (75/117, 76/207 e 79/7), che imposero agli Stati membri di adottare misure legislative a proposito di parità retributiva, parità di accesso all’impiego ed alla formazione e sulla parità delle condizioni di lavoro, nonché alla parità di trattamento in tema di sicurezza sociale.

[11] L. CORAZZA, Il lavoro delle donne? Una questione redistributiva, 2025, p.37 ss.

[12] Art. 4 l. n. 195/1991 - Azioni in giudizio
1. Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso.
2. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.

[13] Art. 4 
5. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti - idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sulla insussistenza della discriminazione.

[14] Come scrive E. TARQUINI, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale, Milano, 2015, in particolare a pag. 5 e ss., «E’ noto come la tutela antidiscriminatoria di fonte europea nasca a fini di tutela del mercato (del lavoro come merce tra altre merci), per garantirne il regolare funzionamento, salvaguardando la libera circolazione dei lavoratori e impedendo effetti di dumping sociale (in questo senso è l’origine del principio di parità retributiva tra uomini e donne, contenuta già nel testo originario del trattato), un’origine che dice di un rapporto anche complesso con il principio dell’art. 3 della Costituzione, la cui matrice culturale è del tutto diversa. Tuttavia, è innegabile che il diritto antidiscriminatorio abbia progressivamente ampliato nel diritto dell’Unione, anche per il tramite fondamentale della Giurisprudenza della Corte di Giustizia, non solo l’area della sua applicazione (in ragione della individuazione di nuovi fattori di protezione oltre l’archetipo della differenza di genere, tali da individuare non solo condizioni innate, ma anche scelte di vita), ma più ancora e prima il suo contenuto valoriale, dichiaratamente ancorandolo ai diritti fondamentali della persona, in un’ibridazione di modelli normativi e strumenti di tutela che potrebbe rivelarsi (e che in parte già si è rilevata) effettivamente produttiva di modalità innovative di protezione dei diritti».

[15] Le direttive 75/117 sulla parità retributiva, 76/207 sulla parità di accesso all’impiego e alla formazione e sulla parità delle condizioni di lavoro, 79/7 sulla parità di trattamento in tema di sicurezza sociale obbligatoria. Negli anni successivi sono state approvate la 86/378 sull’attuazione del principio di parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale, la 86/613 sulla parità di trattamento di uomini e donne che svolgono lavoro autonomo, la 92/85 sul miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere e in periodo di allattamento, la 96/24 sui congedi parentali, la 97/80 sugli oneri di prova in caso di discriminazione basata sul sesso.

[16] 2000/43, 2000/78, 2002/73.

[17] Che subirà diversi interventi di modifica, nel 2010 con il d.lgs. n. 5, e da ultimo, nel 2021 con la l. n. 162.

[18] L.CORAZZA, Il lavoro delle donne?, cit., p. 57.

[19] E. TARQUINI, Il licenziamento discriminatorio, “soggetto inatteso”: alcune riflessioni sul principio paritario e la disciplina limitativa del recesso datoriale, in https://www.lavorodirittieuropa.it/dottrina/licenziamento/1311-il-licenziamento-discriminatorio-soggetto-inatteso-alcune-riflessioni-sul-principio-paritario-e-la-disciplina-limitativa-del-recesso-datoriale

[20] Cass., n. 20204/2019: «In tema di comportamenti datoriali discriminatori, nel caso di discriminazione diretta la disparità di trattamento è determinata dalla condotta, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l'effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittima»; Cass., n. 4313/2024: «Costituisce discriminazione indiretta, ai sensi dell'art. 25, comma 2, d.lgs. n. 198 del 2006, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che, pur non illecito o intrinsecamente discriminatorio, metta, di fatto, i lavoratori di un determinato sesso in posizione di particolare svantaggio rispetto a quelli dell'altro, rilevando, ai fini dell'applicazione della norma citata, il solo effetto discriminatorio finale sul piano della realtà sociale». (Nella specie, la S.C. ha affermato, in ragione dell'accertata preponderanza statistica delle donne tra i lavoratori in part time, che costituisce discriminazione indiretta ai fini delle progressioni economiche orizzontali, l'attribuzione di un punteggio ridotto ai lavoratori a tempo parziale, rispetto a quelli a tempo pieno).

[21] Cass., n. 6965/2025: «Nei giudizi antidiscriminatori, in applicazione delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, i criteri di riparto dell'onere probatorio sono quelli speciali di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 216 del 2003 (equivalente all’art. 40 del d.lgs. n. 198/2006, n.d.e.), senza alcuna inversione dell'onere probatorio, ma solo con agevolazione in favore del ricorrente: conseguentemente, incombe sul lavoratore l'allegazione e dimostrazione del fattore di rischio e il trattamento che assume meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, con deduzione della significativa correlazione tra tali elementi; il datore di lavoro è tenuto a dedurre e a provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura oggetto di controversia». Conf., Cass., n. 3361/2023; n. 5476/2021; n.1/2020.

[22] Cass., n. 23286/20.

[23] Cass., n. 33476/2024.

[24] Così argomenta la Corte: 8. - L’art. 3, primo comma, Cost. «pone un principio avente un valore fondante, e perciò inviolabile, diretto a garantire l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e a vietare che il sesso – al pari della razza, della lingua, della religione, delle opinioni politiche e delle condizioni personali e sociali – costituisca fonte di qualsivoglia discriminazione nel trattamento giuridico delle persone» (sentenza n. 163 del 1993, punto 3 del Considerato in diritto).
Sin da epoca risalente questa Corte ha affermato che «oggi, riconosciuta dalla Costituzione l’eguaglianza di diritto a tutti senza distinzione di sesso, la regola è l’eguaglianza»: il legislatore può tener conto, «nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purché non resti infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica» (sentenza n. 56 del 1958).
9.– La parità di trattamento tra uomo e donna è anche «un principio fondamentale del diritto comunitario, ai sensi dell’articolo 2 e dell’articolo 3, paragrafo 2, del trattato, nonché ai sensi della giurisprudenza della Corte di giustizia. Le suddette disposizioni del trattato sanciscono la parità fra uomini e donne quale "compito” e "obiettivo” della Comunità e impongono alla stessa l’obbligo concreto della sua promozione in tutte le sue attività» (direttiva 2006/54/CE, Considerando n. 2).
Le eccezioni al principio di parità di trattamento devono «essere limitate alle attività professionali che necessitano l’assunzione di una persona di un determinato sesso data la loro natura o visto il contesto in cui si sono svolte, purché l’obiettivo ricercato sia legittimo e compatibile con il principio di proporzionalità» (direttiva 2006/54/CE, Considerando n. 19).
Nell’odierno scrutinio, riveste preminente rilievo la previsione dell’art. 14 della direttiva 2006/54/CE, ai sensi della quale «è vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene: a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione».
In forza dell’art. 14, paragrafo 2, della direttiva citata, «una differenza di trattamento basata su una caratteristica specifica di un sesso» non assume carattere discriminatorio solo quando, «per la particolare natura delle attività lavorative di cui trattasi o per il contesto in cui esse vengono espletate, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato».

[25] Cfr. A.PITINO, La sentenza n. 181/2024 e l’affermazione del principio di non discriminazione e pari opportunità tra le donne e gli uomini nell’accesso al ruolo di ispettore della Polizia penitenziaria (con qualche osservazione sull’ambigua rilevanza del genere come “requisito attitudinale” nell’accesso al lavoro), in www.lecostituzionaliste.it, aprile 2025; M. PARODI, La Corte Costituzionale si pronuncia (ancora) sulla questione di genere nell’ordinamento del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria e coglie l’occasione per ritornare sul tema della disapplicazione, in Osservatorio sulle fonti, 1/2025, p. 147 ss.

[26] In generale, sul permanere di una peculiare efficacia nel contrasto alle diseguaglianze del diritto antidiscriminatorio, v. M. BARBERA, Il diritto antidiscriminatorio oggi. False e vere questioni, in https://csdle.lex.unict.it/sites/default/files/Documenti/WorkingPapers/Barbera_n495-2025it.pdf

[27] L’art. 28, intitolato Divieto di discriminazione retributiva, richiama quasi letteralmente il disposto dell’art. 4 dir. 2006/54/CE, secondo cui, «per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, occorre eliminare la discriminazione diretta e indiretta basata sul sesso e concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni. In particolare, qualora si utilizzi un sistema di classificazione professionale per determinare le retribuzioni, questo deve basarsi su principi comuni per i lavoratori di sesso maschile e per quelli di sesso femminile ed essere elaborato in modo da eliminare le discriminazioni fondate sul sesso».

[28] Oltre al dato numerico, il rapporto deve contenere i dati «sui processi di selezione in fase di assunzione, sui processi di reclutamento, sulle procedure utilizzate per l’accesso alla qualificazione professionale e alla formazione manageriale, sugli strumenti e sulle misure resi disponibili per promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sulla presenza di politiche aziendali a garanzia di un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso e sui criteri adottati per le progressioni di carriera».

[29] L. CALAFA’, M. PERUZZI, L’autonomia collettiva nella direttiva sul gender pay gap, in LLD, 2025,1, 37 ss; V. FERRANTE, Divario retributivo di genere: novità e conferme dalla direttiva UE 2023/970, in Dir.Rel.Ind., 2024, 313; E. TARQUINI, Parità retributiva di genere e trasparenza salariale, 2024, 380.

[30] Articolo 21 della direttiva:
Gli Stati membri provvedono affinché le norme nazionali applicabili ai termini di prescrizione per presentare ricorsi in materia di parità di retribuzione stabiliscano quando iniziano a decorrere tali termini, la loro durata e le circostanze in cui possono essere sospesi o interrotti. I termini di prescrizione non iniziano a decorrere prima che la parte ricorrente sia a conoscenza, o si possa ragionevolmente presumere che sia a conoscenza, di una violazione. Gli Stati membri possono decidere che i termini di prescrizione non inizino a decorrere mentre è in corso la violazione o prima della cessazione del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro. Tali termini di prescrizione non sono inferiori a tre anni.

[31] Articolo 22 della direttiva:
«Gli Stati membri provvedono affinché, qualora un procedimento relativo a un ricorso in materia di discriminazione retributiva abbia esito positivo per il convenuto, gli organi giurisdizionali nazionali possano valutare, conformemente al diritto nazionale, se la parte ricorrente soccombente abbia motivi ragionevoli per presentare ricorso e, in tal caso, se sia opportuno non esigere che tale parte ricorrente sostenga le spese di causa».

[32] M.L. VALLAURI, Il d.lgs. 30 giugno 2022, n. 105 di attuazione della Direttiva (UE) 2019/1158, in LDE, n.3/22, p. 2 ss.

[33] Leggibile in https://www.cortecostituzionale.it/scheda-ordinanza/2024/217

[34] L. CORAZZA, Il lavoro delle donne? Una questione redistributiva, cit.

[*]

Relazione tenuta alla Scuola Superiore della Magistratura, sede di Napoli Castel Capuano, il 30 ottobre 2025, per il corso P25081 "La donna nell’ordinamento giuridico interno e internazionale". 

18/11/2025
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