1. Simulazione e frode alla legge nel contratto individuale di lavoro
Il titolo della relazione – e, a ben vedere, l’intero argomento del corso – nascondono più di un’insidia, e forse anche, sotto certo profili, il pericolo di un inganno.
Chiaramente, il primo intento consiste nell’approfondimento, in una prospettiva sicuramente stimolante, della tematica della compatibilità con la materia giuslavorista della lente civilistica, data come mezzo e strumento complementare ed aggiuntivo al fine di offrire alle parti del contratto individuale di lavoro forme di riequilibrio e di tutela, che fungono da limite generale all’autonomia privata.
Simulazione e frode alla legge, ben sappiamo, sono istituti che nella disciplina dei contratti servono a ricondurre l’oggetto dell’accordo alla causa contrattuale che gli è propria, secondo lo schema di legge. L’autonomia delle parti trova dunque limiti dirimenti ed insuperabili, in forza di un intento di tutela che si concretizza in meccanismi di correzione, ovvero di autentica inibizione dello strumento negoziale.
Il tema deve però essere calato nella nostra disciplina, quel diritto del lavoro che, forse secondo un’ottica oggi un po’ negletta e trascurata, ma che è saldamente radicata in chi si è formato in anni non più recenti, è quella della sua ontologica specialità e specificità, che risiede, o meglio, risiedeva, nella inderogabilità della norma regolatrice, di matrice legislativa o collettiva, e nel corrispondente limite alla autonomia delle parti contraenti, giustificato dall’intento di fornire tutela alla parte debole del rapporto.
Questa specificità, lo sappiamo bene noi giudici del lavoro “di lungo corso”, che ci siamo formati e forgiati sotto l’influsso determinante di questa premessa, oggi non è più così solida e scontata. Hanno contribuito molte scelte legislative a sgretolare progressivamente il paradigma dell’inderogabilità e a dare corso ad una nuova stagione di valorizzazione ed ampliamento dello spazio negoziale delle parti nella stipulazione del contratto individuale (si pensi al meccanismo introdotto nel 2015 di modifica della disciplina delle mansioni con la riforma dell’art. 2103 c.c.). Questo, nella scia di precedenti scelte che già avevano inferto colpi fortissimi al dogma della inderogabilità (vd. l’art. 8 del d.l. 138 del 2011 che aveva legittimato i contratti aziendali a derogare alle norme di legge in determinate materie[1]), e che comunque si collocavano nel percorso di “modernizzazione” del diritto del lavoro già intrapreso nel 2001 con l’edizione del Libro Bianco, sulla spinta di fattori politico-culturali nuovi e che hanno segnato l’inizio del millennio, quali le istanze di deregolazione dettate dalla globalizzazione, le pretese scientifico-dogmatiche della cd. Analisi Economica del Diritto, le esigenze occupazionali, e soprattutto, il prevalere a livello globale dell’ideologia neoliberista.
Non senza ragioni, e anzi per certi versi condivisibilmente, si parlò, all’epoca dell’approvazione del Jobs Act, di un «mutamento di paradigma[2]» per il diritto del lavoro, chiamato a rispondere a sollecitazioni nuove e prevalenti, non più corrispondenti all’originaria funzione di riequilibrio degli assetti del potere nel rapporto di lavoro quanto alla sempre più pressante necessità di riportare gli istituti giuslavoristici alla primaria esigenza di preservare il valore del mercato e dell’impresa.
Una traiettoria che, va detto, ha trovato più di recente nella Corte costituzionale un solido baluardo contro le derive maggiormente incuranti di quelle esigenze di tutela del soggetto debole (v. C. Cost., n. 194/2018, n. 59/2021, n.125/2022), e che hanno costretto tutti, giuristi e non solo, a ricordare, casomai ne avessero perso memoria, che nella disciplina del contratto di lavoro subordinato, in particolare, si insedia una serie di valori e principi costituzionali, quali la dignità, l’uguaglianza, la solidarietà e il divieto di discriminazione, che devono orientare la stessa interpretazione delle norme ordinarie. Perché, come ci ha insegnato Francesco Santoro-Passarelli, il tratto distintivo del contratto di lavoro sta nel fatto che il contratto di lavoro riguarda «l’avere per l’imprenditore e l’essere per il lavoratore». Da qui discendono se non la diffidenza, la cautela nei confronti della autonomia privata, l’attenzione a porre dei limiti al suo libero esplicarsi, e la stessa ragione fondante della specialità del diritto del lavoro, quel compito di procedere al riequilibrio degli assetti di potere, economico e non solo, all’interno del rapporto, che gli ha fatto meritare l’attributo di «diritto diseguale».
Il progressivo abbandono di questa impostazione, nel segno di un maggior dinamismo imprenditoriale che possa contare sul rapporto di lavoro come su di un normale rapporto di mercato, e la conseguente, sensibile riduzione delle tutele accordate al lavoratore, sulla scia di studi più risalenti che già avevano inquadrato il tema[3], ha effettivamente portato la dottrina, ed anche la giurisprudenza, ad interpellarsi se il ricorso alle categorie civilistiche potesse ovviare a questa involuzione, o quantomeno limitarne gli effetti. Il tema è affascinante, anche perché non si limita a sollecitare la riflessione sugli spazi espansivi degli istituti del diritto civile di cui l’interprete si può avvalere pur nel venir meno delle garanzie universalistiche del diritto del lavoro (penso all’espansione del rimedio della nullità, ovvero al rafforzamento dell’operatività del dovere di agire secondo buona fede), ma contemporaneamente obbliga alla verifica a proposito dell’attuale tenuta dell’apparato dei meccanismi che, all’interno del contratto di lavoro, operano come limite all’autonomia delle parti, sul presupposto di partenza che tra queste non vi sia una parità sostanziale e dunque non vi sia una piena libertà di negoziare le condizioni più favorevoli, nella realizzazione di un sinallagma che risulti soddisfacente e conveniente per entrambi. E’ insomma un esercizio che ci obbliga a verificare se e in che misura, la nostra materia rivesta ancora una sua specialità, e se vi sono ancora spazi per l’interprete per ribadirla e darle concretezza e contenuto.
Mi avvalgo di questa (spero non troppo) lunga premessa per dare conto di quello che sarà il tentativo, nell’affrontare il tema che mi è stato dato, di non limitarmi al dettaglio dei singoli istituti, ma di cercare di offrire un filo unitario alla trattazione, che sicuramente ha molto a che fare col tentativo di riaffermare una specificità professionale del giudice del lavoro, che è quella che rende particolarmente appassionante la nostra funzione.
2. Le clausole individuali nel contratto di lavoro
E’ fra gli intenti dichiarati del corso quello di esplorare in generale il tema delle clausole contrattuali individuali, e nel caso di specie, di quelle che incidono sul regime di recedibilità dal rapporto, al fine di verificarne il limite di liceità. La giurisprudenza pur dopo la fine del sistema corporativo ha continuato ad avvalersi del meccanismo del 2° co. dell’art. 2077 c.c., al fine di rinsaldare da un lato, la capacità regolativa della fonte collettiva in un’ottica generale di protezione, e di individuare dall’altro, il limite all’autonomia privata nello stabilire l’assetto dei contrapposti interessi[4].
Attraverso il meccanismo della sostituzione di diritto, si è mantenuto fermo il limite per l’autonomia contrattuale costituito dall’invalicabilità “in peius” delle previsioni contenute nelle clausole del contratto collettivo. Un rafforzamento delle tutele esterne alla negoziabilità del contenuto del contratto, ulteriore a quello consistente nell’attributo di inderogabilità della legge.
Resta il vasto campo di incertezza che si estende in tutte le aree in cui il contratto collettivo non ha specificamente regolato la materia, oppure lo ha regolato ma senza sancire l’inderogabilità delle previsioni, per cui le parti si sono sentite “libere” di concludere specifiche pattuizioni individuali di diverso contenuto.
a) E’ il caso, per iniziare, di uno degli esempi di cui al titolo, della pattuizione di una durata del preavviso maggiore rispetto a quella fissata dal contratto collettivo (posto che una previsione che avesse ad oggetto una durata minore non potrebbe sicuramente superare il vaglio del 2077, 2° co. cc).
La giurisprudenza di legittimità si muove su due direttrici: la prima quella dell’analisi dell’istituto contrattuale investito dall’accordo individuale, e della sua ratio nell’assetto complessivo del sinallagma contrattuale, la seconda, quella della verifica di un effettivo interesse delle parti, in ispecie del lavoratore, ad accettare un periodo di preavviso più lungo del termine contrattuale.
E’ dunque ricorrente l’affermazione a proposito della liceità dell’accordo individuale con cui viene fissata una maggior durata del preavviso, «che, nel rapporto di lavoro dipendente … si pone come condizione di liceità del recesso, la cui inosservanza è sanzionata dall’obbligo di corrispondere da parte del recedente un’indennità sostitutiva» (da ult., v. Cass., n. 18122/2016). Un preavviso più lungo di quanto previsto dalla contrattazione collettiva «può giovare al datore di lavoro, come avviene nel caso in cui non è agevole la sostituzione del lavoratore recedente, ed è sicuramente favorevole a quest’ultimo, che resta avvantaggiato dal computo dell’intero periodo agli effetti della indennità di anzianità, dei miglioramenti retributivi e di carriera e dal regime di tutela della salute (cfr. anche Cass., n. 5929/79)». E’ nell’affrontare il secondo parametro che la Corte ci svela la vera essenza del suo ragionamento: laddove conferma la liceità di una previsione a livello individuale che fissi termini di durata di preavviso più lunghi per il lavoratore, a condizione però che si materializzino cospicui vantaggi per il medesimo (che nel caso di specie aveva ottenuto un avanzamento professionale e la corresponsione di un assegno ad personam). Il principio generale che se ne deve trarre è dunque quello per cui sicuramente è valida la clausola del contratto individuale che preveda un termine di preavviso più lungo, ove la facoltà di deroga sia prevista (ovvero non esclusa, n.d.e.) dal contratto collettivo, e soprattutto, il lavoratore riceva, quale corrispettivo per il maggior termine, un compenso di denaro.
E’ da rimarcare questa conclusione: l’affermazione della Corte non “liberalizza” ogni espressione dell’autonomia negoziale in punto maggior durata del preavviso, ma si appunta sulla necessità di un interesse proprio ed ulteriore del lavoratore. Non è sufficiente la constatazione di una astratta possibilità che comunque un preavviso più lungo possa rientrare nell’interesse del lavoratore, ciò che si chiede è che ad esso si annetta un concreto e tangibile riconoscimento economico per l’avvenuta accettazione della deroga al regime collettivo.
b) Per rafforzare il proprio ragionamento, la sent. n. 18122/16 richiama altra ipotesi di pattuizione individuale concernente la facoltà di recesso del lavoratore dal rapporto di lavoro, quella concernente la pattuizione di una garanzia di durata minima del rapporto stesso. Anche in questo caso, la Corte di cassazione ha tradizionalmente riconosciuto la legittimità di clausole individuali con cui il lavoratore si impegna a non recedere dal rapporto prima di una certa durata dello stesso, e che comportino in caso di mancata osservanza del termine, fuori dell’ipotesi della giusta causa di recesso di cui all’art. 2119 c.c., la responsabilità patrimoniale per il danno causato alla parte non recedente. Deve ritenersi pertanto che «l’ordinamento rimette alle parti sociali, ovvero alle stesse parti del rapporto, la facoltà di disciplinare la durata del preavviso in relazione alle proprie valutazioni di convenienza, rendendo essenzialmente le parti arbitre del giudizio di maggior favore della disciplina concordata»: in tal senso si è espressa la Cassazione con orientamento del tutto unanime (Cass., n. 14457/2017; n. 17010/2014; n. 18457/2009; n. 17817/2005; n. 1435/1998)
Dietro l’assolutezza del principio, si cela però il secondo livello di verifica, quello che si esercita nei confronti del concreto assetto di interessi raggiunto dalle parti con la sottoscrizione della clausola in questione, e che induce la giurisprudenza della Corte a procedere alla verifica della previsione di un corrispettivo per il lavoratore nel caso di clausola di durata minima garantita stipulata nell’interesse del datore di lavoro. La più recente delle pronunce citate (sent. n. 14457/2017) fissa però alcuni canoni a cui parametrare l’indagine: non è richiesta la pattuizione di un compenso specifico, direttamente in via corrispettiva, ma al giudice spetta comunque la verifica che al lavoratore è stata riconosciuta una retribuzione comunque in grado di soddisfare il parametro costituzionale dell’art. 36. In presenza di questo presupposto, la corrispettività «va valutata rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale di ciascuna parte»: in altri termini, se un corrispettivo per il lavoratore che accetta di vincolarsi per un certo tempo al mantenimento del rapporto, è comunque necessario, pena la nullità della clausola – per difetto della causa concreta – esso «può essere liberamente stabilito dalle parti e può consistere nella reciprocità dell’impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione nella retribuzione, o in una obbligazione non monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore». Di qui la cassazione della sentenza impugnata, che si era limitata a sancire la nullità della clausola per la mancanza della previsione di uno specifico compenso.
La decisione apre però per l’interprete, ma in specie per il giudice del merito a cui è richiesto di svolgere l’indagine in questione, non pochi interrogativi: perché se la valutazione dell’assetto patrimoniale deve compiersi in via complessiva e comprensiva, in presenza di un superminimo genericamente riconosciuto non sarà facile presumibilmente stabilire se esso sia stato concesso quale corrispettivo della clausola di stabilità. E’ evidente che dall’individuazione della esistenza di un corrispettivo o meno riconducibile al “sacrificio” consistito nella limitazione alla propria facoltà di recedere, potrà discendere o meno la sanzione della nullità della clausola, e dunque, nella non riconoscibilità della penale stabilita a corredo.
Ciò che comunque è importante rilevare è che senza l’individuazione di un corrispettivo, anche se non espressamente pattuito ma comunque ricavabile dal complessivo assetto degli interessi, la clausola deve ritenersi nulla per mancanza di causa.
c) Nel corso del suo iter motivazionale, la sentenza n. 14457/2017, a giustificazione della conclusione circa la non necessità di un corrispettivo specifico per assicurare la validità del patto di stabilità richiama un'altra ipotesi di patto accessorio, viceversa espressamente normato dal disposto dell’art. 2125 c.c., il patto di non concorrenza nel rapporto di lavoro subordinato (che ovviamente va tenuto distinto da quello introdotto con la l. n. 422/2000, art. 23, in tema di agenzia).
Nonostante l’esplicitazione legislativa delle condizioni di validità del patto in questione (forma scritta, previsione di specifico corrispettivo, limite spazio-temporale e di oggetto al divieto di concorrenza), i giudici si sono trovati spesso a dover giudicare della validità di un tale patto, in particolare per quel che concerne l’adeguatezza del compenso. E’ pur vero che la norma di legge si limita a richiedere che il compenso stesso sia «determinato o determinabile»: la giurisprudenza ha avuto modo di approfondire però il profilo in questione, premettendo al suo ragionamento che se pure il patto di non concorrenza, pur se stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato, resta autonomo da questo, essendo diverso e distinto dalla retribuzione, per cui deve possedere soltanto i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione secondo la previsione dell’art. 1346 c.c., non possono ritenersi sufficienti i rimedi generali avverso il caso di onerosità del patto medesimo, di cui agli artt. 1448 e 1467 c.c., ossia la rescissione per lesione e l’eccessiva onerosità sopravvenuta, tali da garantire al lavoratore una tutela «in larga misura soltanto apparente» (così Cass., sent. n. 10062 del 1994, ampiamente ripresa dalle decisioni successive).
Più di recente, con la sentenza n. 5540/2021, la Corte ha ritenuto che «un requisito di adeguatezza sia implicito nella formulazione dell’art. 2125 e risponda alla stessa ratio sottesa alla imposizione di limiti di oggetto, tempo e luogo», in un assetto di contrapposti interessi in cui non entra in gioco un «valore di mercato» ovvero «il risultato almeno virtuale di una domanda e di una offerta», quanto piuttosto «la garanzia del lavoratore e non del puro equilibrio dello scambio». Ne consegue che, salva sempre la possibilità di ricorrere ai rimedi degli artt. 1448 e 1467 c.c., «l’espressa previsione di nullità va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore, alla riduzione della sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato».
E’ interessante rimarcare, ai nostri fini, ed in relazione al tema generale del corso, che questa affermazione ormai risalente oggi viene riletta come antesignana di successive evoluzioni giurisprudenziali che, «sebbene in definiti confini, hanno comunque riconosciuto rilevanza alla sproporzione economica del regolamento negoziale».
Il riferimento è a precedenti di legittimità (in tema di intermediazione finanziaria o di assicurazione alla r.c., clausole cd. on claims made) che hanno ravvisato la non meritevolezza di contratti o patti conclusi con lo scopo di attribuire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l’altra, e dunque di sancire, in ragione della rispettiva “causa in concreto” un significativo squilibrio dei diritti ed obblighi contrattuali tra le parti.
Dunque, nel caso di specie non è sufficiente per sfuggire alla sanzione di nullità che l’accordo avente ad oggetto il patto di non concorrenza non determini, o comunque non renda determinabile, il compenso spettante al lavoratore: alla stessa conclusione può pervenirsi a fronte di un compenso «simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato». Il requisito dell’onerosità del patto si eleva rispetto alla “semplice onerosità” imponendo quello che è stato definito «un regime di protezione rafforzato»[5] Un insegnamento questo che sicuramente si sottrae al dogma della autonomia negoziale, che nega allo squilibrio economico originario delle prestazioni un riflesso sulla validità del contratto, sino a determinarne la nullità, che può ravvisarsi solo ove si riscontri un difetto della struttura della fattispecie rispetto al paradigma legale.
E allora è questo il compito che si pone al giudice, in particolare a quello di merito: il compito di una indagine seria, mirata sulla sostanza dell’assetto degli interessi, oltre quella che è l’apparenza formale e lo schema giuridico cui si fa ricorso. In questo senso la definizione di “clausola decettiva” allude ad una ipotesi di inganno, ma in realtà non sarà l’atteggiamento soggettivo delle parti che dovrà essere esplorato dal giudice, che piuttosto dovrà verificare che con le pattuizioni in esame non si siano andati ad alterare equilibri economici a svantaggio della parte debole del rapporto di lavoro.
Ci sono situazioni che di per sé richiedono al giudice un’attenzione peculiare che si spinga oltre l’apparenza delle forme, per giungere a disvelare la causa effettiva, reale e concreta di quello che appare un accordo determinato dal libero incontro delle volontà dei contraenti: con la consapevolezza, sempre presente, che soprattutto nella fase della costituzione del rapporto «massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro[6]».
d) Ovviamente, la tipologia delle clausole individuali può essere la più varia, e ognuna merita una attenzione dell’interprete ma, per quanto si è detto, non solo in relazione alla causa in astratto, ma più acutamente, rispetto alla causa in concreto realizzata.
Altro esempio significativo riguarda il patto individuale di prolungamento della prova, pur se entro il limite di legge di sei mesi di cui all’art. 10 della L. n. 604/1966. La giurisprudenza è salda nel ribadire che deve affermarsi la nullità dei patti diretti a prolungare la durata della prova rispetto a quanto determinato dalle parti sociali (Cass., n. 8295/2000; n. 9789/2020), salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore, che si giustifica solo nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l’affidamento al lavoratore renda necessario, al fine di un valido esperimento e nell’interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi; il relativo onere probatorio ricade sul datore di lavoro, a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova.
In termini generali, dunque, deve affermarsi che «la clausola del contratto individuale con cui il patto di prova è fissato in un termine maggiore di quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, come tale, è sostituita di diritto ex art. 2077, secondo comma cod. civ., salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore, con onere probatorio gravante sul datore di lavoro».
e) In tema di patto di ricostituzione del rapporto di lavoro, è innanzitutto principio unanime quello per cui in caso di licenziamento, il rapporto di lavoro necessariamente si risolve, stante la natura di atto unilaterale recettizio idoneo di per sé a risolvere il contratto: per la sua eventuale, successiva ricostituzione, a seguito della revoca del recesso operata dal datore di lavoro, occorre comunque il consenso del lavoratore. Ne consegue che «la revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro, a cui non sia seguito il consensuale ripristino del rapporto, non può sottrarre al lavoratore il diritto all'indennità sostitutiva» (Cass., n. 23435/2016; v. prec. Cass., n. 36/2011). In ragione di ciò, l’eventuale ricostituzione del rapporto deve avvenire in base ad un effettivo e autentico incontro di volontà, che deve riscontrarsi anche nel contenuto del nuovo contratto, e dalle condizioni che esso presenta per il lavoratore riassunto.
In caso di dimissioni del lavoratore, la prosecuzione di fatto del rapporto in seguito alla revoca delle stesse è parimenti idonea a esprimere il consenso del datore di lavoro al ripristino del vincolo contrattuale. Infatti, a differenza della locazione, la cui prosecuzione, dopo la disdetta, non ha per effetto la rinnovazione del contratto (art. 1591 c.c.), nel rapporto di lavoro, che può costituirsi anche per l’effettuazione della prestazione lavorativa (ex art. 2126 c.c.), la prosecuzione può essere interpretata sia alla stregua di un nuovo accordo costitutivo, sia quale comune volontà di eliminare l’effetto risolutorio delle dimissioni, determinando l’automatica continuazione del rapporto originario.
Nelle molte pronunce sul tema, la giurisprudenza esclude la prima delle due interpretazioni (nuova manifestazione di volontà costitutiva), ritenendo che la prosecuzione del rapporto abbia per effetto «di porre nel nulla» le dimissioni[7].
La materia non è però esente da ambiguità: se la prosecuzione, di fatto, del rapporto presenta gli elementi strutturali per configurarsi come contratto di lavoro (ex art. 2126 c.c.), non è sempre vero che l’intento delle parti sia diretto alla prosecuzione dell’originario rapporto e, non, invece alla costituzione di uno nuovo, in particolare dopo che il lavoratore ha rassegnato le sue dimissioni dal precedente rapporto.
3. La somministrazione e la frode alla legge
L’altro argomento oggetto della relazione merita innanzitutto un inquadramento per così dire “storico”, a partire dalla evoluzione – alquanto rapida – del diritto nazionale. Il contratto di somministrazione di lavoro è stato introdotto con il d.lgs. n. 276 del 10 settembre 2003, che all’art. 20 ne disciplina le «condizioni di liceità», prevedendo che «la somministrazione di lavoro a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatore»: l’art. 21 elenca gli elementi che il contratto di somministrazione, da stipulare in forma scritta, deve contenere e alla lett. c) indica «i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo, di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 20». L’art. 27 concerne la somministrazione irregolare, avvenuta cioè «al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 20 e 21, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e)», e prevede tra l’altro che «il lavoratore p(ossa) chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell'articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione».
La legge n. 92 del 28 giugno 2012, che (art. 1, comma 9) ha aggiunto il comma 1 bis all’art. 1 del d. lgs. n. 368 del 2001, eliminando in generale l’obbligo di enunciazione delle causali «nell'ipotesi del primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi».
E’ poi seguito il d.l. n. 34 del 2014, convertito dalla legge n. 78 del 2014, che ha eliminato del tutto, per il contratto di somministrazione a tempo determinato, il requisito delle causali giustificative, che già la legge n. 92 del 2012 aveva escluso con riferimento alla prima missione. Ancora, il d. lgs. n. 81 del 15 giugno 2015 ha abrogato le disposizioni finora richiamate del d. lgs. n. 276 del 2003 ed ha ridisegnato la disciplina della somministrazione di lavoro nel capo IV, artt. 30 e seguenti. 3.10. L’art. 31, comma 2, a proposito della somministrazione di lavoro a tempo determinato, prevede: «La somministrazione di lavoro a tempo determinato è utilizzata nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi applicati dall'utilizzatore. È in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo determinato di lavoratori di cui all'articolo 8, comma 2, della legge n. 223 del 1991, di soggetti disoccupati che godono, da almeno sei mesi, di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, e di lavoratori “svantaggiati” o “molto svantaggiati” ai sensi dei numeri 4) e 99) dell'articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali».
Ai sensi dell’art. 34, comma 2, «In caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III per quanto compatibile, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 19, commi 1, 2 e 3, 21, 23 e 24. Il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore». 3.12. La somministrazione irregolare è disciplinata dall’art. 38 del d.lgs. n. 81 del 2015 che, ai primi due commi, stabilisce: «1. In mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell'utilizzatore. 2. Quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell'utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione».
Sul piano del diritto europeo, la Direttiva 2008/104 sul lavoro tramite agenzia interinale all'articolo 1 definisce il proprio ambito di applicazione come relativo ai «lavoratori che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro con un’agenzia interinale e che sono assegnati a imprese utilizzatrici per lavorare temporaneamente e sotto il controllo e la direzione delle stesse». Il termine «temporaneamente» è utilizzato anche all’articolo 3, paragrafo 1, lettere da b) a e), che definisce le nozioni di «agenzia interinale», di «lavoratore tramite agenzia interinale», di «impresa utilizzatrice» e di «missione» ponendo in risalto la temporaneità del lavoro prestato presso l’utilizzatore.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia, in particolare nelle due sentenze rispettivamente del 14 ottobre 2020, JH c. KG, C-681/2018 (punto 61) e del 17 marzo 2022, Daimler AG, Mercedes-Benz Werk Berlin, C-232/20 (punti 31, 34), dalla formulazione di tali disposizioni risulta che il termine “temporaneamente” non ha lo scopo di limitare l’applicazione del lavoro interinale a posti non previsti come permanenti o che dovrebbero essere occupati per sostituzione, poiché tale termine caratterizza non il posto di lavoro che deve essere occupato all’interno dell’impresa utilizzatrice, bensì le modalità della messa a disposizione di un lavoratore presso tale impresa. È piuttosto il rapporto di lavoro con un’impresa utilizzatrice ad avere, per sua natura, carattere temporaneo.
In coerenza con tali premesse, l’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della Direttiva 2008/104 prevede che gli Stati membri adottino le misure necessarie, conformemente alla legislazione e/o alle pratiche nazionali, per evitare il ricorso abusivo al lavoro interinale e, in particolare, per prevenire missioni successive aventi lo scopo di eludere le disposizioni della Direttiva. Tale disposizione non definisce alcuna misura specifica che gli Stati membri debbano adottare a tal fine, né fissando una durata oltre la quale una messa a disposizione non può più essere qualificata come avvenuta «temporaneamente», ovvero imponendo agli Stati membri l’obbligo di prevedere, nel diritto nazionale, una siffatta durata.
Nondimeno, come osservato dalla Corte di giustizia nella sentenza del 14 ottobre 2020, C-681/2018, sul rinvio pregiudiziale del Tribunale di Brescia, la Direttiva mira a conciliare l’obiettivo di flessibilità perseguito dalle imprese con l’obiettivo di sicurezza che risponde alla tutela dei lavoratori. Questo duplice obiettivo risponde così alla volontà del legislatore dell’Unione di ravvicinare le condizioni del lavoro tramite agenzia interinale ai rapporti di lavoro “normali”, tanto più che, al considerando 15 della Direttiva 2008/104, il medesimo legislatore ha esplicitamente precisato che la forma comune dei rapporti di lavoro è il contratto a tempo indeterminato.
La Direttiva in argomento mira, di conseguenza, anche ad incoraggiare l’accesso dei lavoratori tramite agenzia interinale ad un impiego permanente presso l’impresa utilizzatrice. Un lavoratore temporaneo può quindi essere messo a disposizione di un’impresa utilizzatrice al fine di coprire, temporaneamente, un posto di natura permanente, che egli potrebbe continuare ad occupare stabilmente, nell’ottica di incentivare l’inserimento nell’organizzazione aziendale e di favorire l’eventuale successiva instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, che rappresenta «la forma comune dei rapporti di lavoro».
Se è vero, in base a quanto detto, che le disposizioni della Direttiva 2008/104 non impongono agli Stati membri l’adozione di una determinata normativa in materia, resta il fatto che, come ricordato dalla Corte di Giustizia, l’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, impone agli Stati membri, in termini chiari, precisi ed incondizionati, di adottare le misure necessarie per prevenire l’assegnazione di missioni successive a un lavoratore tramite agenzia interinale aventi lo scopo di eludere le disposizioni di tale Direttiva nel suo insieme. Ciò comporta che gli Stati membri debbano adoperarsi affinché il lavoro tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice non diventi una situazione permanente per un lavoratore tramite agenzia interinale (v. Corte di Giustizia, C-681/18 cit., punti 55, 60).
Nella sentenza del 14 ottobre 2020, nella causa C-681/18, la Corte di Giustizia ha quindi dichiarato che l’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della Direttiva 2008/104 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che uno Stato membro non adotti alcuna misura al fine di preservare la natura temporanea del lavoro tramite agenzia interinale, nonché ad una normativa nazionale che non preveda alcuna misura al fine di evitare l’assegnazione ad un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale di missioni successive presso la stessa impresa utilizzatrice con lo scopo di eludere le disposizioni della Direttiva 2008/104 nel suo insieme. Nella più recente sentenza del 17 marzo 2022, nella causa C- 232/20, la Corte di giustizia ha aggiunto un ulteriore tassello alla valutazione del giudice, evidenziando come missioni successive del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice, ove conducano a una durata dell’attività presso tale impresa più lunga di quella che «possa ragionevolmente qualificarsi “temporanea”, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore», potrebbero denotare un ricorso abusivo a tale forma di lavoro, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della Direttiva 2008/104. Nella sentenza appena citata, la Corte di Giustizia ha considerato che gli Stati membri possono stabilire, nel diritto nazionale, una durata precisa oltre la quale una messa a disposizione non può più essere considerata temporanea, in particolare quando rinnovi successivi della messa a disposizione di un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice si protraggano nel tempo. Una siffatta durata, in conformità all’articolo 1, paragrafo 1, della Direttiva 2008/104, deve necessariamente avere natura temporanea, vale a dire, secondo il significato di tale termine nel linguaggio corrente, essere limitata nel tempo (Corte di Giustizia, C-232/20 cit. punto 57).
Nell’ipotesi in cui la normativa applicabile di uno Stato membro non abbia previsto una durata determinata, è compito dei giudici nazionali stabilirla caso per caso, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore (v., in tal senso, sentenza del 18 dicembre 2008, Andersen, C-306/07, punto 52) e garantire che l’assegnazione di missioni successive a un lavoratore temporaneo non sia volta a eludere gli obiettivi della Direttiva 2008/104, in particolare la temporaneità del lavoro tramite agenzia interinale. La necessaria temporaneità delle missioni deve essere in ogni caso assicurata, a prescindere da una previsione normativa in tal senso nei singoli ordinamenti nazionali.
Sulla base di tali considerazioni, la sentenza del 17 marzo 2022 ha stabilito che l’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 5, paragrafo 5, della Direttiva 2008/104 debbano essere interpretati nel senso che costituisce un ricorso abusivo all’assegnazione di missioni successive a un lavoratore tramite agenzia interinale il rinnovo di tali missioni su uno stesso posto presso un’impresa utilizzatrice, nell’ipotesi in cui le missioni successive dello stesso lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice conducano a una durata dell’attività, presso quest’ultima impresa, più lunga di quella che può essere ragionevolmente qualificata «temporanea», alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore, e nel contesto del quadro normativo nazionale, senza che sia fornita alcuna spiegazione obiettiva al fatto che l’impresa utilizzatrice interessata ricorre a una serie di contratti di lavoro tramite agenzia interinale successivi, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
In ossequio al principio di interpretazione conforme, che obbliga i giudici degli stati membri ad interpretare il diritto interno in modo da garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo, e nella specie, che impone al giudice del rinvio di fare tutto ciò che rientra nella sua competenza, prendendo in considerazione tutte le norme del diritto nazionale, per garantire la piena efficacia della Direttiva 2008/104 sanzionando l’abuso in questione ed eliminando le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione, la Corte di cassazione affrontando una serie di ricorsi provenienti dalla Corte d’appello di Brescia che aveva negato la sussistenza dell’abuso nel ricorso alla somministrazione a tempo determinato, pur in ipotesi di stipulazioni successive di contratti presso lo stesso utilizzatore, a monte negando di poterli prendere in considerazione in caso di mancata impugnativa nei termini di decadenza ex art. 32 co.4 lett. d) della l. n. 183/2010, ha prioritariamente ritenuto di dover far ricorso all’istituto di cui all’art 1344 c.c., Contratto in frode alla legge, in combinato disposto con l’art. 1418 cod. civ.
Dunque è attraverso il richiamo ad un istituto di diritto interno che la Corte risolve la conseguenza della dovuta interpretazione della normativa alla luce delle pronunce CGUE: salvo poi dover concludere, del tutto correttamente, in relazione alla portata delle norme sottoposte al suo esame, che «il fatto che il d.lgs. n. 81 del 2015, e prima ancora il d. lgs. n. 276 del 2003, non contenga alcuna previsione esplicita sulla durata temporanea del lavoro tramite agenzia interinale non impedisce di considerare tale requisito come implicito ed immanente del lavoro tramite agenzia interinale, in conformità agli obblighi imposti dal diritto dell’Unione, non comportando una simile lettura una interpretazione contra legem» (sent. n. 22861/2022, § 25, cui poi faranno seguito altre, tutto dello stesso tenore).
Dunque, spetterà al giudice del merito, stabilire caso pe caso, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, se la reiterazione delle missioni del lavoratore preso l’impresa utilizzatrice abbia oltrepassato il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea, sì da realizzare una elusione delle norme imperative ai sensi dell’art. 1344 c.c. e, specificamente, degli obblighi e delle finalità imposti dalla Direttiva, da cui discende, secondo l’ordinamento interno, la nullità dei contratti. Decisamente rilevante a questo scopo risulta verificare se le missioni successive del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice conducano a una durata dell’attività presso tale impresa più lunga di quanto possa essere ragionevolmente qualificato come “temporaneo”, posto che da ciò potrebbe evincersi il ricorso abusivo a missioni successive ai sensi dell’art. 5, par. 5, prima frase, della Direttiva medesima, tanto più in assenza di qualsiasi spiegazione oggettiva alla reiterazione delle somministrazioni.
La Corte ha poi ribadito un principio già esplicitato, quello per cui non osta all’accertamento dell’abusivo ricorso alla somministrazione l’intervenuta decadenza ai sensi dell’art. 32, co.4 lett. d) della legge n. 183 del 2010, dall’azione di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, in quanto il precedente impiego con contratti di somministrazione a t.d. rileva fattualmente, come antecedente storico, valutabile incidentalmente dal giudice al fine della verifica della sussistenza o meno del requisito della temporaneità
Quindi, ritorna al giudice di merito il compito di valutare se in caso di reiterati ricorsi al contratto di somministrazione a tempo determinato, in favore dello stesso utilizzatore, possa riscontrarsi quel difetto del requisito della temporaneità che la normativa eurounitaria indica costituire presupposto di legittimità del ricorso a tale forma di contratto interinale.
Conclusione del tutto condivisibile, che si è imposta alla luce di una normativa (poi opportunamente modificata nel 2018, con il decreto legge n. 87 poi convertito dalla legge 96) che liberalizzava integralmente il ricorso alla somministrazione temporanea di lavoro, senza limite nell’individuazione del termine massimo né nella indicazione di causali oggettive a giustificazione della forma contrattuale.
Resta il dubbio a proposito della necessità, e fors’anche della correttezza, del richiamo all’art. 1344 c.c. come istituto di diritto interno giustificativo di un intervento del giudice chiamato ad accertare la legittimità del o dei contratti. Come assume la stessa Corte di legittimità, nel passaggio sopra richiamato (sub § 25), il requisito della temporaneità del ricorso alla somministrazione deve considerarsi «implicito ed immanente del lavoro tramite agenzia interinale, in conformità agli obblighi imposti dal diritto dell’Unione, non comportando una simile lettura una interpretazione contra legem». Ciò determina che la nullità del contratto di somministrazione debba essere fatta discendere dalla mancanza intrinseca di un requisito, ricavabile interpretativamente sì, ma non per questo meno essenziale e cogente, tutto interno alla fattispecie. Nel caso che ci occupa, il contratto non «costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa», ma contiene in sé la violazione della norma imperativa, violazione ricavabile dall’accertamento incidentale del pregresso ricorso a contratti di somministrazione a tempo determinato presso lo stesso utilizzatore. In definitiva, può dirsi che il ricorso nei termini di cui sopra al contratto di somministrazione, non è avvenuto «in frode alla legge», ma è «contro la legge».
[1] Per un riepilogo sulle rigide condizioni di operatività della capacità derogatoria dell’accordo di prossimità, vd. Cass., n. 27764/2023.
[2] A. Perulli, Il contratto a tutele crescenti e la Naspi: un mutamento di “paradigma” per il diritto del lavoro?, in L. Fiorillo, A. Perulli, Contratto a tutele crescenti e Naspi, Torino, 2015, p. 3 e ss.
[3] G. Santoro-Passarelli (a cura di), Diritto del lavoro e categorie civilistiche, Torino, 1992, p. 33 ss.
[4] V. tra le tante, Cass., n. 4011/2007, «In virtù del disposto di cui all'art. 2077, comma secondo, cod. civ., secondo il quale le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto dal contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro, deve affermarsi che la garanzia del preventivo controllo sindacale previsto dalla contrattazione collettiva in ordine all'espletamento del potere organizzativo del datore di lavoro non è disponibile ad opera del singolo lavoratore che, se fosse abilitato a concedere in forza di contratto individuale il potere negato dal contratto collettivo, modificherebbe "in peius" le garanzie apprestate dalla contrattazione collettiva».
[5] M. Cerbone, Nullità del patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. tra indeterminabilità e non adeguatezza del corrispettivo, in GI, 2021, 1684.
[6] Così si legge nel messaggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con cui rimanda alle Camere il ddl in materia di arbitrato trasmessogli il 3 marzo 2010.
Testo della relazione tenuta il 7 marzo 2025 presso la Scuola Superiore della Magistratura nell’ambito del corso Simulazione e frode alla legge nel contratto individuale di lavoro