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Il contrasto al fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori in ambito penale *

di Luca Milani
giudice delle indagini preliminari, Tribunale di Milano

Il terzo intervento al panel Appalti, sfruttamento lavorativo e retribuzione costituzionale: percorsi giurisprudenziali verso la parità di trattamento, nell’ambito del IV convegno annuale della Labour Law Community, tenutosi a Bari il 15 e 16 novembre 2024

Ho deciso di suddividere il mio breve intervento in tre parti, nel tentativo di fornire un contributo al dibattito sulle forme di contrasto al fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori, sulla base dell’esperienza maturata, da ultimo, nel periodo di servizio presso il Tribunale di Milano.

Il punto di vista da me assunto è quello del Giudice penale, in particolare del Giudice per le indagini preliminari, chiamato a provvedere su richieste avanzate dal Pubblico Ministero nella fase delle indagini, in procedimenti nei quali sia stata formulata la contestazione provvisoria di un determinato illecito a carico di persone fisiche – o giuridiche – e sia necessario vagliare la fondatezza degli elementi posti a sostegno delle iniziative assunte dagli inquirenti, in campo probatorio e cautelare.

Sulla base di tali premesse, ho selezionato i seguenti temi di discussione: 

1. Applicazione della misura del sequestro preventivo e nomina di un Amministratore giudiziario in procedimenti per l’accertamento del reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, di cui all’art. 603 bis c.p.;

2. Contestazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti ed evasione fiscale nell’ambito delle “catene degli appalti”;

3. Adozione di modelli organizzativi nel procedimento per responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.

 

1. Partendo dal primo ambito concettuale, poche parole per ricordare come la disciplina di cui all’art. 603 bis c.p., nella formulazione oggi vigente, costituisca il risultato di una serie di interventi finalizzati a delineare in modo sempre più dettagliato il campo di applicazione della previsione incriminatrice, nel rispetto dei principi di precisione e tassatività in materia penale.

Il risultato oggi raggiunto, a seguito dell’entrata in vigore della l. 29 ottobre 2016, n. 199, presenta ancora qualche difficoltà interpretativa, per esempio nell’attribuire un significato univoco ai concetti di «sfruttamento» e di «approfittamento dello stato di bisogno» dei lavoratori: categorie, queste ultime, in ordine alle quali il riferimento a previsioni di carattere extrapenale, financo al contenuto dei contratti collettivi, è suscettibile di condurre ad applicazioni non sempre uniformi della disciplina penalistica, considerate pure le peculiarità del contesto territoriale in cui il singolo procedimento venga instaurato. 

Senza addentrarmi in questa sede nella disamina degli orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi per delineare i confini applicativi della previsione di cui all’art. 603 bis c.p., vorrei tuttavia sottolineare come, ancor prima dell’accertamento in via definitiva delle responsabilità penali, sussistono significativi strumenti che consentono all’Autorità giudiziaria di intervenire, già a partire dalla fase iniziale del procedimento, in situazioni nelle quali siano emersi elementi indicativi di ipotesi di sfruttamento dei lavoratori. 

Rammento, al riguardo, come il Giudice penale abbia la facoltà di disporre, ai sensi dell’art. 3 l. 199/2016, il «controllo giudiziario» dell’azienda, provvedendo – su richiesta del P.M. – alla nomina di un Amministratore giudiziario allorquando venga disposto un sequestro preventivo la cui esecuzione sia suscettibile di «comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale». Ebbene, la figura dell’Amministratore giudiziario in questione rappresenta uno strumento molto incisivo che consente, nell’ambito del procedimento penale, il compimento da parte del professionista incaricato di veri e propri atti di gestione dell’impresa, con assunzione dei poteri tipici del datore di lavoro, anche nell’ottica di una regolarizzazione di situazioni nelle quali – per insussistenza di validi contratti di assunzione, per erogazione di retribuzioni inadeguati o mancato riconoscimento di ferie, congedi ecc. – si siano evidenziate condizioni di sfruttamento.

Personalmente ho avuto modo, nella mia esperienza come G.i.p., di disporre il controllo giudiziale di azienda nell’ambito di sequestri preventivi, applicati in procedimenti in cui fosse provvisoriamente contestato il reato di cui all’art. 603 bis c.p., riscontrando come le potenzialità di un simile strumento, nell’ottica del contrasto al fenomeno del caporalato o dell’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, siano notevolmente più ampie di quelle afferenti all’area di intervento di un Amministratore giudiziario nominato, invece, quale mero custode delle quote di una società, nel contesto di procedimenti penali iscritti per l’accertamento di reati diversi da quello sopra menzionato.

Un ultimo cenno va rivolto al fatto che, nel caso in cui siano ravvisabili i presupposti applicativi dell’illecito del delitto di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», è astrattamente possibile il ricorso anche allo strumento dell’Amministrazione giudiziaria disposta nel contesto del procedimento di prevenzione, aspetto sul quale il Tribunale meneghino ha avuto modo di cimentarsi, con l’adozione di provvedimenti di un certo impatto, anche per la notorietà delle imprese sottoposte al controllo giudiziale.

 

2. Di recente, la Procura della Repubblica di Milano, aderendo a orientamenti via via manifestatisi anche in altri Uffici requirenti della Penisola, ha approfondito le criticità emergenti dai risultati di verifiche fiscali effettuate a campione su grandi imprese operanti nei settori della logistica o della grande distribuzione organizzata, appurando come spesso si configuri una connessione tra le forme di sfruttamento della manodopera e le violazioni penal-tributarie.

Ci si riferisce, in particolare, alla prassi di utilizzare, all’interno delle dichiarazioni IVA, fatture emesse da altri soggetti imprenditoriali, di solito cooperative, a fronte di prestazioni derivanti dalla stipulazione di contratti di appalto di servizi. Ebbene, le attività investigative svolte dagli inquirenti hanno permesso, in molti casi, di acclarare come i contratti in questione costituiscano lo schermo per nascondere delle forme di somministrazione irregolare di manodopera: in altri termini, nell’appaltare ad altro soggetto economico il compimento di servizi – dal facchinaggio alle pulizie, al trasporto – i committenti mantengono, in realtà, la direzione e il controllo sui lavoratori delle imprese appaltatrici, esercitando su di essi i poteri tipici del datore di lavoro, senza ricorrere alla conclusione di contratti di somministrazione, anche perché gli enti appaltatori non fanno parte dei soggetti abilitati allo svolgimento di attività di somministrazione di lavoro.

Gli elementi raccolti in fase di indagine hanno posto in rilievo come spesso il committente si serva anche di strumenti elettronici o apposite app per monitorare gli spostamenti dei lavoratori delle cooperative, attribuendo ai medesimi indicazioni operative e occupandosi dell’organizzazione di turni, congedi ecc. Il tutto con il riscontro di indici di sfruttamento, a partire dagli orari di lavoro, sino all’entità della retribuzione oraria. Le imprese appaltatrici, in simile quadro, non sarebbero altro che “serbatoi di manodopera” caratterizzati da breve esistenza e dalla possibilità di essere sostituite velocemente con altri soggetti economici aventi caratteristiche analoghe. 

Allorquando si manifestino situazioni del genere, le fatture emesse dagli appaltatori, a giustificazione dell’attività svolta e dei compensi ricevuti, possono essere qualificate come inerenti a prestazioni «giuridicamente inesistenti», sulla scorta di una giurisprudenza che ormai conta anche importanti arresti di legittimità[1].

In ossequio a tale lettura, anche a Milano il P.M. ha ravvisato gli estremi del reato di dichiarazione fraudolenta, ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 74/2000, nei casi in cui sia stato accertato che l’impresa committente abbia utilizzato, nelle proprie dichiarazioni IVA, fatture emesse da altre imprese nel contesto di contratti di appalto di servizi funzionali a celare, in realtà, somministrazioni irregolari di manodopera, sovente impiegata in condizioni di sfruttamento.

All’ufficio G.i.p. è stata chiesta, in prima battuta, l’emissione di provvedimenti applicativi della misura del sequestro preventivo, aventi ad oggetto importi di denaro corrispondenti all’entità del risparmio fiscale – ottenuto attraverso indebite detrazioni o la maturazione di crediti di imposta – costituente ingiusto profitto, in quanto conseguito grazie all’impiego di fatture per operazioni ritenute oggettivamente inesistenti. Il profitto in questione, come noto, è assoggettabile a confisca obbligatoria, anche per equivalente, ai sensi dell’art. 12 bis d.lgs. 74/2000.

 

3. Venendo all’ultimo profilo considerato in questa esposizione, vorrei sottolineare come un ulteriore ambito di confronto possa essere rappresentato dal tema dell’accertamento della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, per i reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente, secondo i criteri di imputazione soggettiva delineati all’interno degli artt. 5 ss. d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. In particolare, non può sottacersi come il catalogo dei delitti presupposto, in seguito a una serie di aggiustamenti normativi, comprenda attualmente un riferimento sia all’illecito di cui all’art. 603 bis c.p. (v. art. 25 quinquies d.lgs. 231/2001), sia al reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 d.lgs. 74/2000 (ex art. 25 quinquiesdecies d.lgs. 231/2001). Ciò significa che, ove si proceda per uno dei delitti appena menzionati, attribuito a una persona fisica, è possibile anche valutare il profilo della responsabilità amministrativa dell’ente, in ossequio ai canoni appena menzionati. Nell’esperienza maturata presso il Tribunale di Milano ho avuto modo di verificare come, in simili ipotesi, il Giudice possa applicare, su richiesta del P.M., misure interdittive – quali, ad esempio, il divieto di pubblicizzazione di beni o servizi – in sede cautelare, prima della celebrazione del processo e del conseguente accertamento di responsabilità, ovviamente in presenza di gravi indizi di commissione dell’illecito amministrativo da parte dell’ente, ai sensi dell’art. 45 d.lgs. 231/2001. 

A livello procedurale, a fronte della richiesta di applicazione di una delle misure interdittive previste dall’elenco di cui all’art. 9 d.lgs. 231/2001, il G.i.p. è tenuto a fissare un’udienza, ai sensi dell’art. 47 d.lgs. 231/2001: in quella sede sarà necessario accertare la sussistenza dei presupposti applicativi della misura, valutando quali iniziative siano state poste in essere dall’ente, nel frattempo, per scongiurare l’imposizione dei divieti previsi dalla legge. L’esperienza milanese ha evidenziato, in proposito, come spesso le imprese nei cui confronti si procede per l’accertamento degli illeciti amministrativi elencati all’interno del d.lgs. 231/2001 decidano, allo scopo di evitare di essere sottoposte a misure interdittive, di provvedere all’eliminazione delle carenze organizzative che hanno determinato il reato, mediante l’adozione e l’attuazione di modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire illeciti della specie di quelli verificatisi, ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. b) d.lgs. 231/2001, adoperandosi per raggiungere l’obiettivo prima della celebrazione dell’udienza cui si è fatto cenno.

Qualora, in altre parole, il delitto presupposto sia costituito, per esempio, dalla violazione prevista dall’art. 2 d.lgs. 74/2000 e siano emersi gravi indizi della commissione dell’illecito di cui all’art. 25 quinquiesdecies d.lgs. 231/2001 da parte dell’ente, è ben possibile che, allo scopo di evitare l’applicazione di divieti – come quello di pubblicizzazione di beni e servizi – in grado di limitarne sensibilmente le occasioni di profitto, la persona giuridica si impegni ad adeguare la propria organizzazione interna e i rapporti con le imprese appaltatrici di servizi, provvedendo all’assunzione di dipendenti che sino ad allora erano lavoratori delle cooperative “serbatoi” di manodopera, con regolarizzazione delle rispettive posizioni anche sul piano contributivo.

Seguendo un simile percorso è stato possibile, sino ad oggi, assistere alla definizione dei rapporti di lavoro subordinato di centinaia di dipendenti – assunti dalle multinazionali nei cui confronti sono stati avviati procedimenti penali per l’accertamento, ad esempio, di reati tributari, nel senso sopra specificato, contestati ai sottoscrittori delle dichiarazioni IVA – ancor prima dell’adozione di sentenze conclusive dei giudizi di merito.

Gli spunti di discussione offerti in questo intervento sono il frutto di considerazioni sorte nel provvedere, nella veste di Giudice per le indagini preliminari, su richieste provenienti dalla Procura della Repubblica, in procedimenti penali che non sono stati appositamente menzionati in quanto attualmente pendenti in diverse fasi, ma non ancora giunti all’emissione di pronunciamenti definitivi.


 
[1] Cass. Sez. III, sentenza n. 31202 del 14 marzo 2019, Cass. Sez. III, sentenza n. 1784 del 28.10.2022, dep. 28.11.2022 e, da ultimo, Cass. Sez. III, sentenza n. 34407 del 23 maggio 2024.

[*]

Intervento al IV convegno annuale della Labour Law Community, tenutosi a Bari il 15 e 16 novembre 2024

18/12/2024
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