Il referendum è passato. Chi, come noi, lo ha sostenuto ha perso. Non c’è altro modo di dirlo e sulle sconfitte è sempre necessario riflettere.
La prima riflessione è che chi, come noi, ha creduto nelle buone ragioni del Sì evidentemente non è riuscito a convincere tanti lavoratori e lavoratrici che i referendum parlavano di loro. Non siamo riusciti a contrastare efficacemente la narrazione, pervasiva in quasi tutti i media principali (nello spazio, peraltro molto modesto, riservato alla campagna referendaria), che il voto non servisse, perché non avrebbe affrontato l’unico, o comunque il principale, problema di lavoratori e lavoratrici: i bassi salari. Ed è una sconfitta bruciante perché quella narrazione era ed è completamente inveritiera. Perché c’è una relazione significativa, scientificamente accertata, tra precarietà e lavoro povero e una altrettanto significativa tra diffusione del lavoro atipico e delle catene degli appalti e precarietà lavorativa. Oggi lo troviamo scritto nero su bianco nel rapporto Caritas che pubblichiamo.
In quel rapporto si dà atto che oltre il 23% delle persone assistite dalla Caritas ha un lavoro e la situazione appare ancora più grave tra gli adulti nella fascia tra i 35-54 anni, per i quali l’incidenza di chi ha un impiego supera il trenta per cento, attestandosi al 30,6% nella fascia 35-44 anni e al 30,3% per quella dei 45-54.
Un dato, quello dei lavoratori assistiti dalla Caritas, che è molto aumentato negli ultimi 15 anni: riferisce infatti il rapporto che nel 2007, le persone in cerca di occupazione rappresentavano il 66,4% del totale degli assistiti, mentre gli occupati erano il 15%.
Ma è interessante il rapporto anche perché individua i settori in cui lavorano questi lavoratori poveri: tra gli uomini nei diversi settori dell’edilizia, nella ristorazione, nelle vendite ambulanti, oppure come “tuttofare”, quindi traslocatori, giardinieri, corrieri. Le donne invece risultano impiegate per lo più nel settore dei lavori domestici, come colf, badanti o addette alla cura dei bambini. E aggiunge il rapporto «spesso si tratta complessivamente di persone con carriere lavorative poco lineari, molto segmentate, piuttosto articolate dal punto di vista delle mansioni svolte e rispetto alle condizioni contrattuali». Quindi persone impiegate in settori a bassa remunerazione e bassa qualifica, ma anche lavoratori e lavoratrici con contratti brevi e a orario ridotto.
Il rapporto stesso individua tra le cause della in work poverty anche «i mancati rinnovi contrattuali e la proliferazione dei CCNL; la diffusa precarietà, la forte incidenza dei lavori irregolari e dei contratti non standard, soprattutto tra i giovani; il forte incremento del part-time involontario».
Si tratta di dati che ne confermano molti altri.
Già nel novembre 2021 il Gruppo di lavoro «Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa[1]» rilevava come giochino un ruolo cruciale nella diffusione di bassi salari «i tempi di lavoro ridotti - in primis il tempo parziale involontario, cioè dato dall’impossibilità di trovare un lavoro a tempo pieno - e i periodi di non occupazione associati con maggiore frequenza a contratti a tempo determinato o atipici».
La relazione del gruppo di lavoro affermava quindi che «dietro l’aumento della povertà lavorativa degli ultimi anni si nascondono, oltre a salari stagnanti, l’aumentata instabilità delle carriere e l’esplosione del tempo parziale “involontario”, determinate dalla debolezza della struttura economica italiana … ma anche da cambiamenti strutturali, come un aumento del peso dei servizi. Più che nella manifattura, infatti, nei servizi i lavori possono essere spezzettati in brevi fasce orarie, in alcuni casi assegnando alcune attività a società esterne per il minimo di ore possibili[2]».
Gli autori individuavano così in modo chiaro anche la segmentazione dei processi produttivi come veicolo di precarietà lavorativa ed è un fatto che essa si realizzi innanzitutto a mezzo della commissione in appalto di singole frazioni del lavoro aziendale. D’altra parte vi sono risultanze inequivoche che quella tra appalti e bassi salari non sia una relazione contingente, ma strutturale e necessaria. La letteratura sociologica ha infatti ampiamente dimostrato come i differenziali regolativi (e quindi anche le differenze nelle retribuzioni) sono la ragione principale dei fenomeni di frammentazione dei cicli produttivi. Lo illustra, secondo noi, con molta chiarezza il contributo di Lisa Dorigatti al lavoro collettivo presentato da MD al quarto congresso della Labour Law Community[3].
Scrive Dorigatti che «la possibilità di accedere a condizioni di lavoro meno regolate è esattamente l’elemento trainante di queste architetture organizzative. Questo sotto tre profili: costi, flessibilità e rischi. L’esempio più evidente è, ovviamente, quello dei differenziali regolativi fra diversi contratti collettivi nazionali: proprio attraverso l’utilizzo dei confini organizzativi, infatti, le imprese possono accedere a forza lavoro regolata diversamente e anche mettere in competizione un contratto collettivo con un altro in innovative forme di dumping salariale. Non a caso, diversi studiosi hanno evidenziato come, proprio negli appalti, si mostri in tutta la sua portata il problema del dumping orizzontale, probabilmente uno dei problemi principali del sistema contrattuale italiano (Razzolini 2021). Ma elementi di differenziazione (e quindi altri potenziali ambiti di sfruttamento di questi differenziali) riguardano altri elementi della regolazione. Gli appalti consentono, infatti, l’estrema variabilizzazione dei costi per l’impresa e il trasferimento del rischio d’impresa sui lavoratori. L’outsourcing costituisce un grande strumento di esternalizzazione dei rischi, che consente alle imprese clienti di ridurre in maniera significativa i costi fissi e di adattarli in maniera molto più rispondente rispetto all’impiego diretto alle fluttuazioni del mercato e alle conseguenti variazioni nella domanda di lavoro. Ad esempio, poter ricorrere a personale impiegato da imprese esterne consente agli alberghi di ridurre il costo fisso di pulizia delle camere e di pagare i lavoratori solo quando i loro servizi sono effettivamente richiesti». Ma la marginalizzazione del rischio da parte delle imprese significa necessariamente trasferimento di quel rischio sui lavoratori, a mezzo di una più ampia diffusione del contratto a termine e, come strumento di flessibilizzazione degli orari, del part time (che vede così radicalmente mutata la propria funzione originaria di mezzo di conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita).
Vi erano e vi sono quindi evidenze inequivoche di una relazione tra bassi salari e precarietà e tra lavoro atipico, appalti e precarietà. E di precarietà e di appalti si occupavano i referendum, nei limiti di uno strumento solo demolitorio e tuttavia in effetti l’unico disponibile su temi che non erano e non sono nell’agenda della maggioranza parlamentare.
I referendum erano diretti a limitare il ricorso al lavoro a termine, rendendolo sempre causale, sul presupposto - che ha un’evidenza empirica per chiunque si occupi nelle aule di giustizia di rapporti di lavoro - che l’acausalità ne consenta di fatto l’impiego generalizzato, anche per esigenze niente affatto temporanee, come alternativa al tempo indeterminato, peraltro in chiara violazione anche del diritto dell’Unione. Essi miravano inoltre ad ampliare la responsabilità dei committenti, così rendendo più oneroso il ricorso all’esternalizzazione di frazioni del processo produttivo, e perciò contrastando gli appalti parassitari (cioè diretti unicamente a ridurre il costo del lavoro) sul terreno della loro reale finalità.
Le misure proposte erano sufficienti a risolvere i problemi del mercato del lavoro italiano? Certamente no, ma sarebbero state utili, anche solo a cominciare un processo.
Questo evidentemente, noi che abbiamo sostenuto le ragioni del sì non siamo riusciti a spiegarlo ai lavoratori e alle lavoratrici che non hanno votato. Certo ha contato il silenzio, non casuale, che soprattutto in televisione ha avvolto, fino quasi alla fine, la campagna referendaria, come pure la diffusione, nel modesto dibattito pubblico, di tante informazioni non vere (soprattutto in materia di appalti si è sentito dire perfino che il referendum avrebbe esteso la responsabilità del committente alle attività dell’appaltatore diverse da quelle oggetto dell’appalto o che la disposizione si sarebbe applicata anche a committenti non imprenditori, come i condomini, assunti semplicemente falsi). E non è stata irrilevante l’ignavia di un sistema dell’informazione che ricorre da vent’anni sempre alle stesse voci, che ripetono le stesse cose, senza che nessuno mai ricordi loro che quella via è già stata seguita e ci ha portati fino qui, al lavoro povero e precario.
Tuttavia le buone ragioni del sì non sono state in grado di contrastare le narrazioni della pseudo modernità e di riempire i silenzi. Questo è un fatto e un fatto che pone delle domande che non possono essere evitate: come rendere comprensibile oggi il linguaggio dei diritti? Come renderne evidente la relazione necessaria con il prezzo del lavoro umano - la retribuzione, perché questa torni a essere strumento per vivere, secondo le proprie scelte, vite libere e dignitose?
photo credits Caritas Faenza
[1] Si può leggere qui: https://www.lavoro.gov.it/priorita/Documents/Relazione-del-Gruppo-di-lavoro-sugli-Interventi-e-misure-di-contrasto-alla-poverta-lavorativa-in-Italia.pdf
[2] Merita ricordare come il rapporto muova dalla nozione europea di in work poverty, utilizzata da Eurostat, secondo cui un individuo è considerato in work poor se dichiara di essere stato occupato per un certo numero di mesi - solitamente sette - nell’anno di riferimento e se vive in un nucleo familiare che gode di un reddito equivalente disponibile inferiore alla soglia di povertà stabilita, solitamente il 60% del reddito mediano nazionale. Il primo criterio esclude così dall’ambito stesso della rilevazione un novero ampio di lavoratori e lavoratrici precari (quelli che lavorano meno di sette mesi l’anno) tra i più vulnerabili, così sottostimando certamente l’ampiezza del problema, come sottolineano gli stessi autori del rapporto, a pag. 10.
[3] Si può leggere qui https://www.questionegiustizia.it/articolo/scomposizione-dei-processi-produttivi-e-regolazione-del-lavoro-il-ruolo-dei-differenziali-regolativi-e-i-potenziali-effetti-di-un-loro-superamento