Ed eccoci arrivati al traguardo. I giuslavoristi che in questi ultimi mesi si sono attivati per scrivere, leggere e divulgare i tantissimi interventi pubblicati sul tema dei referendum getteranno un occhio motivatamente stanco e distratto su questo ennesimo articolo. Ma, probabilmente, anche i giuristi che operano in settori diversi, se incuriositi, avranno già trovato su riviste e quotidiani chi avrà loro illustrato – con un livello di approfondimento rispondente alle proprie esigenze –, le ragioni per recarsi alle urne e votare SÌ per ogni singolo quesito. Su questa stessa Rivista possono rinvenirsi esaurienti analisi[1], così come merita di essere segnalato il pregevole numero monografico che Wikilabour ha dedicato al tema[2].
Mi scuso quindi sin d'ora se mi accingo a ripetere argomenti che alcuni considereranno noti, come premessa necessaria, anche se non indispensabile, per evidenziare la necessità che tutti e tutte, inclusi parenti e affini, si rechino alle urne i prossimi 8 e 9 giugno.
Una piccola premessa si rende, però, necessaria.
Fino al 2003 la produttività in Italia era in linea con la media Europea, da allora è aumentata nei vent’anni successivi in Italia del 5% contro il 30% di Francia, Gran Bretagna e Germania, il 25% del Portogallo, il 15% per cento della Spagna e il 13% della Grecia. E ciò ha portato ad un duplice, ma connesso esito. Da un lato tutte le ricerche dicono che l’intensità del lavoro è cresciuta in Italia molto più che negli altri paesi (ad esempio le ore lavorate pro capite in Italia sono oltre il 20% in più di quelle lavorate in America). E dall’altro lato l’Italia è l’unico paese che in tale periodo ha visto il valore delle retribuzioni reali scendere mentre, per fare qualche numero, in Lituania gli stipendi hanno segnato +276%, in Estonia + 237%, in Lettonia + 200%, in Germania + 33%. In Francia + 31%, in Grecia + 30% e in Portogallo + 13%. Ma lo stesso confronto si può fare sulle morti sul lavoro: se prendiamo la Regione italiana più economicamente avanzata e cioè la Lombardia vediamo che su 10 milioni di abitanti nel 2022 ha avuto 177 morti sul lavoro. Se prendiamo invece lo Stato economicamente più avanzato dell’Unione Europea, e cioè la Germania, che ha otto volte gli abitanti della Lombardia, ne dovremmo concludere che nello stesso anno avrebbe dovuto avere l’ottuplo dei morti e cioè 1416. Ed invece ne ha avuti solo 423: in Lombardia dunque si muore di lavoro il 400% di più che in Germania (ma, facendo la tara sul numero dei lavoratori, va ovviamente ancora peggio nelle altre Regioni d’Italia). E lo Svimez proprio negli scorsi giorni ha comunicato come negli ultimi 10 anni il 50% dei laureati negli Atenei del Sud Italia è emigrato all’estero[3].
E veniamo ai quesiti.
Il primo quesito, con cui si chiede l'integrale abrogazione del decreto legislativo n. 23/2015, è quello forse “simbolicamente” più importante, perché mette in discussione la politica del lavoro posta in essere appena 10 anni fa proprio dal Partito Democratico guidato allora da Matteo Renzi con otto provvedimenti legislativi, che cumulativamente vengono indicati come “Jobs Act”. Va subito evidenziato come esso – caso più unico che raro – in pochi anni sia stato oggetto di ben cinque interventi della Corte costituzionale, con le sentenze n. 194/2018, n. 150/2020, n. 22/2024, n. 128/2024 e n. 129/2024. È pacifico che tale decreto si proponesse di “abbassare le tutele” per i lavoratori e le lavoratrici in caso di licenziamento illegittimo, asseritamente allo scopo di promuovere assunzioni a tempo indeterminato con il nuovo contratto “a tutele crescenti”. Fa quindi sorridere che oggi ci sia qualcuno che, per scoraggiarne l'abrogazione, ricorra ai più svariati argomenti: da quello secondo cui, proprio a seguito degli interventi del giudice delle leggi, scarse sarebbero le differenze di tutela rispetto all'art. 18 legge n. 300/1970, nella versione riformata dalla legge n. 92/2012 (la cd. legge Fornero); a quella che tale decreto sarebbe, in alcune ipotesi, addirittura più favorevole dell'art. 18.
Rispetto al primo argomento va ribadito che il d.lgs. n. 23/2015 continua ad escludere la reintegrazione per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015: a) in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, a meno che il fatto contestato sia insussistente o il contratto collettivo non preveda espressamente, per quella specifica condotta, una sanzione diversa dal licenziamento (come il rimprovero scritto, la multa o la sospensione dal lavoro). Ne restano quindi escluse, anche dopo la sentenza n. 129 del 2024, le lievi infrazioni per le quali il CCNL si limita ad indicare un criterio di proporzionalità, o clausole generali che possono implicitamente includere casi analoghi, e di pari gravità, rispetto a quelli indicati a titolo esemplificativo; b) in caso di licenziamento individuale per motivo economico o organizzativo, ad esempio per soppressione del posto di lavoro, anche quando è provato che il datore di lavoro avrebbe potuto collocare il/la dipendente in altro posto disponibile (cd. violazione dell’obbligo di repêchage); c) nel caso di un licenziamento collettivo in cui vengono violati i criteri di scelta previsti dalla legge, come l’anzianità di servizio o i carichi di famiglia.
Quanto al secondo argomento, non ho difficoltà a riconoscere che esistono un paio di casi di licenziamento invalido/nullo in cui la tutela risarcitoria del d.lgs. 23 risulta – dopo gli interventi della Corte costituzionale – poco più vantaggiosa rispetto a quella dell’art. 18: sono ipotesi in cui, comunque, la reintegrazione è garantita, per cui gli effetti pratici possono ritenersi marginali. Esse sono citate dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza con cui ha dichiarato ammissibile il quesito (n. 12 del 2025), nella quale si riconosce che in caso di vittoria del referendum vi sarebbe un generale ampliamento delle garanzie. Con la vittoria dei SÌ vi sarebbe, quindi, una unificazione del trattamento di tutti/e i/le dipendenti da datori di lavoro che occupano più di 15 addetti nella singola unità (o nell’ambito dello stesso Comune) o comunque più di 60 a livello nazionale, a prescindere dalla data della loro assunzione.
Non si vuole, con questo, esaltare le tutele garantite dall’art. 18 nella versione prodotta dal legislatore del 2012, che ha indubbiamente ridotto quelle precedenti la riforma, ma essa – grazie anche agli interventi della Corte costituzionale (sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022) e della Corte di cassazione in materia di licenziamento per motivo oggettivo (sul diritto alla reintegra in caso di violazione dell’obbligo di repêchage) e di licenziamento disciplinare (sul diritto alla reintegra in presenza di clausole del contratto collettivo che, attraverso l'impiego di formule generali ed elastiche, consentono di includere, tra le sanzioni conservative, condotte costruite attorno alla violazione di generiche e residuali previsioni comportamentali) – garantisce la conservazione del posto molto più di quanto faccia il decreto legislativo n. 23.
A coloro che sono dipendenti da datori di lavoro che occupano un numero di dipendenti inferiore rispetto alla soglia sopra indicata è dedicato il secondo quesito (con cui si intende abrogare il tetto massimo di sei mensilità di indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato).
Rispondendo SÌ il cittadino avrebbe l’opportunità di sopperire all’inerzia del legislatore, invano sollecitato dalla Corte costituzionale con la sentenza (interpretativa di rigetto) n. 183 del 2022, che ha evidenziato come «il numero dei dipendenti […] non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro» ben potendo «al contenuto numero di occupati […] fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari».
Basti un esempio: quando, nell’aprile del 2012, Facebook aveva acquistato Instagram al prezzo di un miliardo di dollari, aveva 13 dipendenti (e, due anni dopo, nel 2014, quando la stessa Facebook acquistava WhatsApp per 19 miliardi di dollari, i dipendenti erano 55)[4].
Se, quindi, dal punto di vista della “compatibilità ambientale”, una reintegra forzata in un piccolo ambiente di lavoro potrebbe comportare oggettive difficoltà di relazione (tanto che quasi sempre sono i/le dipendenti ingiustamente licenziati/e a non volere riprendere a lavorare a fianco di chi li voleva cacciare), non è sempre corretto misurare le dimensioni aziendali con le dimensioni occupazionali. Come è comunque assurdo trattare praticamente allo stesso modo, sotto il profilo dell’indennizzo, un piccolo bar e un’impresa con 59 dipendenti a livello nazionale.
Il problema e la sua soluzione sono puntualmente rinvenibili nelle parole della stessa Corte: «La specificità delle piccole realtà organizzative, che pure permane nell’attuale sistema economico, non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto».
E quale può essere la strada per consentire al lavoratore un adeguato ristoro, considerando le disarmonie che «traggono origine, per un verso, dall’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità e, per altro verso, dal criterio distintivo individuato dal legislatore», dal momento che «il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde […] all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli»?
Sarà ovviamente necessario rimuovere l’ostacolo di «un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità», che palesemente «vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio».
Eliminando, con il referendum, il tetto massimo, il giudice potrà riconoscere il ristoro adeguato al caso concreto considerando, nel fissare la misura dell’indennizzo - come lo stesso art. 8 indica - oltre che il numero dei dipendenti, anche le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, il comportamento e le condizioni delle parti.
Il terzo quesito si propone di colpire l’uso indiscriminato - che si riduce spesso a vero e proprio abuso - di una tipologia contrattuale trasformatasi nel più tipico dei contratti precari: il contratto a tempo determinato. Nato nel 1962 per soddisfare esigenze effettivamente temporanee, ha subìto, nel corso degli anni, moltissime modifiche normative, di cui ben otto negli ultimi 15 anni, e continua ad essere la forma contrattuale preferita in alternativa al contratto a tempo indeterminato (nel 2024 ci sono stati 3,7 milioni di avviamenti al lavoro con contratti a termine).
Con l’ultima riforma del 2023 il decreto Lavoro del governo Meloni, oltre ad escludere per i rinnovi e per le proroghe l'esigenza delle causali per i contratti fino a 12 mesi, ne ha introdotto di nuove per i contratti con durata compresa tra i 12 e i 24 mesi, tra cui quella «per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti in assenza della previsione contrattuale», che è possibile stipulare fino a fine 2025 (termine comunque già prorogato una volta). Con il SÌ al referendum si eliminerebbe la possibilità, quindi, di assumere nei primi 12 mesi senza motivarne la ragione e conseguentemente ogni nuovo contratto di lavoro (o di somministrazione di lavoro) a tempo determinato andrà motivato con esigenze di carattere temporaneo previste non già dalle parti (!) ma, eventualmente, solo dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi.
Con il quarto quesito si vuole intervenire su una delle piaghe del nostro Paese, in cui ogni anno muoiono sistematicamente per lavoro più di mille persone. È noto che il 70% degli incidenti mortali in edilizia interessa lavoratori in subappalto, così come che molte piccole imprese hanno vita breve e lavorano tagliando i costi sulle paghe e sulla sicurezza. Coinvolgere le imprese committenti di un appalto nella garanzia della copertura integrale dei danni, anche se conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici, indurrà le prime a un’attenta selezione delle seconde, esigendo dalle stesse comportamenti virtuosi[5]. In altri termini, ciò che si propone è di avere concreta giustizia per l’emergenza, reale, delle morti sul lavoro.
Il quinto quesito. Verremo chiamati alle urne, fortunatamente, non solo sul tema del lavoro. La legge n. 91 del 1992 sulla cittadinanza da più di trent’anni porta avanti un sistema in cui una persona straniera, immigrata in Italia e qui stabilizzatasi, deve aspettare 10 anni prima di potere chiedere di diventare cittadino/a italiano/a, attendendo altri 3 o 4 anni prima della conclusione del procedimento (non sempre positiva, poiché basata prevalentemente su requisiti di reddito). Statisticamente, prima di 15/20 anni la persona straniera non saprà se può diventare cittadina italiana.
Il quesito referendario propone, attraverso l’eliminazione di alcune parole nell’art. 9 legge n. 91/1992, di ridurre da 10 a 5 anni il periodo di attesa prima di potere presentare la domanda di cittadinanza, così uniformandosi alla maggior parte dei Paesi dell’Unione europea. Dicendo SÌ al quinto quesito, inoltre, si consentirà l’acquisto della cittadinanza anche ai figli minori di coloro che diverranno cittadini, quei minori che, per la maggior parte nati in Italia o che qui hanno vissuto e studiato, potranno essere davvero uguali ai loro coetanei italiani. Anche in questo caso, si tratta di offrire con un SÌ la giustizia sociale[6].
Ho esordito dicendo che, forse, una conoscenza approfondita dei singoli quesiti può anche non essere indispensabile per decidere di recarsi alle urne. La grande scommessa è, infatti, che vi si rechino non solo i milioni di lavoratori e lavoratrici che hanno assistito al progressivo peggioramento delle loro condizioni di lavoro, alla precarietà della loro occupazione, alla riduzione dei salari, oppure i giovani e le giovani che hanno dovuto accettare occupazioni precarie e sottopagate in alternativa alla scelta di andare a lavorare all’estero. Per queste persone, per i loro parenti, è interesse diretto lanciare un segnale “di rivolta” per indurre il legislatore a finalmente intraprendere percorsi normativi più garantisti in contro-tendenza rispetto alla legislazione del lavoro degli ultimi decenni.
Ma ci sono anche coloro che, invece, sotto il profilo dell’interesse materiale non ne ricaverebbero niente (pubblici e pubbliche dipendenti, pensionati/e, liberi/e professionisti/e, studenti/esse, non occupati/e), per i quali, tuttavia, la partecipazione al referendum può/deve essere un momento di cittadinanza attiva, di contrasto alla deriva istituzionale nazionale che vede gli elettori e le elettrici sempre più spogliati del diritto di decidere nella cosa pubblica (la res pubblica, per l’appunto), a partire dal fatto (ma non solo) che il Parlamento (potere legislativo) è spogliato della sua funzione costituzionale, divenuto ormai luogo di mera ratifica di decreti legge voluti dal Governo (potere esecutivo) e dunque senza effettiva discussione e potere di intervento delle opposizioni, metro di valutazione di un sistema che vorrebbe essere democratico ma che sta perdendo sempre più questa caratteristica.
Il referendum inverte questa deriva, consentendo a ognuno di noi di partecipare al sistema sociale e politico, perché è di tutti e tutte noi che si parla, della comunità in cui viviamo e dei valori, di giustizia e solidarietà, che a molti di noi appartengono.
Restare a casa l’8 e il 9 giugno, rinunciando in partenza a provare a cambiare le cose, significa lanciare un segnale di indifferenza, assecondando così proprio chi confida nell’immobilismo delle persone per procedere indisturbati verso un accentramento dei poteri dell’esecutivo e un tradimento dei valori costituzionali, gli unici che davvero identificano la nazione a cui tutti apparteniamo, senza distinzione di censo, di razza e di condizioni sociali.
Come è stato opportunamente osservato, «ancora una volta il movimento dei lavoratori offre dunque a tutti una grande opportunità per sostenere la nostra democrazia in crisi, come storicamente già avvenne in altri momenti cruciali della vita del Paese, e la partita che si gioca riguarda pertanto ognuno di noi, senza distinzione alcuna[7]».
[1] Anna Luisa Terzi, Giovanni Cannella, I referendum sui licenziamenti, https://www.questionegiustizia.it/articolo/i-referendum-sui-licenziamenti-25035; Chiara Coppetta Calzavara, Il referendum sul contratto a termine, https://www.questionegiustizia.it/articolo/i-referendum-sui-licenziamenti; Roberto Riverso, Il referendum in materia di sicurezza sul lavoro, https://www.questionegiustizia.it/articolo/referendum-in-materia-di-sicurezza-sul-lavoro-negli-appalti-per-estendere-la-responsabilita-solidale-del-committente-dell-appaltatore-e-del-subappaltatore; Alberto Guariso, Il referendum sulla cittadinanza, https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-referendum-sulla-cittadinanza
[2] https://www.wikilabour.it/referendum-sul-lavoro-2025/
[3] Relazione-audizione di Comma2 – Lavoro è dignità, rappresentata da Carlo Guglielmi, alla Camera dei deputati XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO) sul Decreto-legge 2 marzo 2024, n. 19, recante ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) (A.C. 1752).
[4] Riccardo Staglianò, Gigacapitalisti, 2022, Einaudi.
[5] Per un approfondimento v. Carlo Sorgi, Morire per lavoro è di destra o di sinistra?, Blog del Fatto Quotidiano, 1 maggio 2025, https://www.comma2.it/referendum-2025/morire-per-lavoro-e-di-destra-o-di-sinistra
[6] Per un approfondimento v. Filippo Miraglia, Col sì diremo ai giovani di origine straniera che questo è anche il loro Paese, Blog del Fatto Quotidiano, 21 maggio 2025, https://www.comma2.it/referendum-2025/referendum-cittadinanza-col-si-diremo-ai-giovani-di-origine-straniera-che-questo-e-anche-il-loro-paese
[7] Enzo Martino, I referendum in difesa della democrazia e del lavoro, in Volere la Luna, 3 aprile 2025, https://www.comma2.it/referendum-2025/i-referendum-in-difesa-della-democrazia-e-del-lavoro