Magistratura democratica
Magistratura e società

Il punto sulle mafie. Analisi sbagliate e necessità di correggerle. Rocco Sciarrone, Prima lezione di sociologia delle mafie (Laterza)

di Francesco Gianfrotta
già presidente sezione GIP Torino

Vecchi e nuovi errori di analisi. Eppure la storia, per chi vuole, sa essere “magistra vitae”. E i giuristi dovrebbero avere imparato che, se non si guarda oltre i confini del diritto, le competenze specialistiche rischiano di rimanere armi spuntate anche  sul piano delle tradizionali forme di contrasto alle mafie. Le quali, invece, si adattano al nuovo e si aggiornano, e così si rafforzano. 

1. Se permettete, parliamo di mafie

Un nuovo libro sulle mafie: inutile? La ragione di una simile reazione -se vi fosse- al volume di cui qui ci si occupa potrebbe facilmente immaginarsi: in materia, letteratura e saggistica sono abbondanti e non sembra che siano intervenute novità significative e allarmanti, in un contesto in cui da tempo non scorre più il sangue (da non dimenticare, però: rimangono, sempre, delle eccezioni, anche se riguardanti casi ritenuti per lo più di scarso rilievo, quali quelli in cui in cui “si ammazzano tra loro”). La delinquenza, anche organizzata, si sa, è sempre esistita; quella mafiosa, benché non più radicata soltanto in alcune regioni meridionali, ad avviso di molti, non genera modifiche importanti dei contesti socio-economici e dell’ordine pubblico: dunque, nonostante sia presente anche fuori dalle aree tradizionali e all’estero, ciò non sarebbe valida ragione per rinnovate attenzioni sul tema.

Questo, in sintesi, potrebbe essere il pensiero di alcuni che vedessero in libreria l’ultimo libro di Rocco Sciarrone, Prima lezione di sociologia delle mafie, edito da Laterza. Torna alla mente l’opinione di quel Ministro che disse che occorreva abituarsi a convivere con le mafie; e non va forse trascurato il fatto che, in un’improbabile graduatoria della sofferenza, Kiev, Gaza e tanti altri posti del pianeta sono luoghi nei quali si sta molto peggio che da noi: il che potrebbe contribuire al risultato che non tutti siano disposti a sentir parlare di mafie.

 

2. Tanto per cominciare: le mafie non sono sempre le stesse. Ma guai a pensare che tutto è mafia

E però una sciocchezza (quel giudizio che -speriamo- non molti potrebbero formulare imbattendosi nell’interessante volume qui recensito) rimane tale, pur se in presenza di più di una spiegazione. Per la verità se ne possono trovare anche altre, di spiegazioni, all’insofferenza verso un discorso sulle mafie, oggi. Le mafie sono studiate in Italia dalla seconda metà dell’800, allorché Ministri e Prefetti iniziarono a percepire alcune specificità riguardanti la vita delle popolazioni insediate nelle campagne della Sicilia occidentale e di chi si trovava in carcere. Da allora le attività delle mafie e quelle di contrasto ad esse hanno fatto registrare alternanza di avanzate ed arretramenti dei soggetti in campo. I contesti politici e istituzionali, oltre che le dinamiche economiche e sociali hanno inciso sui risultati determinatisi, come puntualmente hanno evidenziato storici e sociologi. Ma già queste poche considerazioni dovrebbero far riflettere: le mafie, nel nostro paese, sono una questione tanto complessa quanto tuttora aperta e ciò basta a spiegare il fatto che un nuovo libro sulle mafie cozzi con quel diffuso bisogno di risposte semplificate che - se assecondato - dovrebbe metterci al riparo dalla prospettiva di un impegno conoscitivo richiedente ripetuti aggiornamenti, sempre faticosi. Diciamolo francamente: sarebbe bene, invece, cambiare registro e continuare a studiare. Sciarrone, nella sua lezione, opportunamente richiama alla nostra attenzione un aspetto che già da un po' non solo gli esperti, ma anche semplici opinionisti sottolineano: la straordinaria capacità dimostrata dalle mafie nel nostro paese (ma anche quando hanno allargato il loro raggio di azione fuori dai confini nazionali) di adattarsi ai mutamenti degli scenari nei quali esse si trovano ad operare. Dunque, è sbagliato ritenere che le mafie siano sempre uguali a sé stesse (ergo: non vi sarebbe bisogno di un nuovo libro sulle mafie), pur dovendosi riconoscere che vi sono alcuni tratti distintivi che possono ritenersi acquisiti nel percorso di conoscenza delle mafie: le finalità perseguite (vi si tornerà più avanti), i mezzi usati (non solo la violenza), le risorse relazionali (il cosiddetto capitale sociale), un territorio di riferimento insieme alla propensione all’espansione; e però anche, nell’ambito di un territorio, la tendenza al controllo delle attività economiche e allo svolgimento di funzioni di sovranità tipiche dello Stato. Tutto ciò non esclude che gli adattamenti alle diverse fasi storiche comportino mutamenti nei rapporti con la società, con l’economia e con lo Stato, sui quali è opportuno tenere acceso il faro della conoscenza. Ma è pure sbagliato avere una concezione mafiocentrica: frutto, secondo Sciarrone, di una vera e propria deriva analitica, e, potrebbe aggiungersi, tentazione alla quale si può essere esposti per deformazione professionale; in ogni caso, un errore, in forza del quale la mafia diventa una sorta di variabile indipendente, con il risultato che, volendosi spiegare la mafia, è quest’ultima che finisce per spiegare tutto. Basterebbe, invece, ricordarsi che continua ad essere attuale l’antica osservazione: se tutto è mafia, niente è mafia[1].

 

3. Altri errori: mafie nuove versus mafie vecchie

Ma anche altri sono gli errori (non nuovi, per la verità) nei quali si rischia di ricadere -se non si rimane vigili- nello studio delle mafie: per il che approfondire e verificare l’attualità di analisi già fatte è tutt’altro che inutile, per addetti ai lavori e per comuni cittadini. Mai del tutto scongiurato, ad esempio, è il pericolo di una contrapposizione, nell’opinione comune, tra mafie vecchie (buone perché fedeli ai valori della tradizione, in primis il cosiddetto onore) e nuove (cattive, in quanto affaristiche e violente). Accertamenti giudiziari e la pubblicistica intervenuta evidentemente non sono bastati a fare piazza pulita di questa falsificazione, se è vero che anche Sciarrone si dà carico di affrontarla, evidenziando che obiettivo di tutte le mafie è sempre stata l’accumulazione di ricchezze, con attività lecite e/o illecite: le differenze derivano, quindi, dallo spazio lasciato, nei diversi periodi, alle mafie dallo Stato. Anche soffermarsi sulle origini può essere frutto di un approccio interessato: magari serve ad allontanare l’attenzione dal presente. E’ vero, invece, che è discussa, oggi, anche la qualità di mafioso: lo è non chi si sente tale, ma chi è percepito come tale[2]. Tema delicato anche questo, che rimanda alle rappresentazioni che delle mafie sono state e sono date da films e fictions, anche di successo, le quali influiscono sulla costruzione sociale del fenomeno. Sempre attuali le considerazioni - riportate nel libro - di Salvatore Lupo sul film Il Padrino[3], ma tuttora spinosa è la questione dei modelli sociali che fictions più recenti hanno contribuito ad affermare e diffondere, circondate da un dibattito pubblico non sempre adeguato a disvelarne tutto intero il contrasto rispetto ai valori della coesione sociale e della legalità. Non è in discussione, naturalmente, la libertà di espressione, ma - perché no? - il ruolo dell’intellettuale (questione non nuova anche questa), almeno in determinate fasi storiche, nelle quali le minacce alla democrazia richiedono consapevolezze rafforzate e impegni diffusi. 

 

4. Antimafia istituzionale e antimafia sociale. Il ruolo della politica

Rimane, oggi, pressoché impossibile sviluppare analisi complete sul tema delle mafie, senza considerare esistenza, ruolo e rappresentazione dell’antimafia, anche per l’incidenza che quest’ultima può avere sulla autorappresentazione che le mafie danno di sé stesse[4]. Antimafia che va distinta nelle due aree dell’antimafia istituzionale e dell’antimafia sociale[5]. La prima si è materializzata, storicamente, dopo gravissimi fatti, che hanno indotto lo Stato a reagire con strette repressive. Al riguardo, di solito, si citano le stragi del biennio 1992-93; ma vale la pena non dimenticare quella di Ciaculli del 1963[6], cui seguì l’avvio dell’attività della prima Commissione parlamentare antimafia, e poi l’esplosione della violenza mafiosa negli anni ’70 e ’80: di Cosa Nostra, che azzerò in Sicilia «i vertici di tutte le istituzioni, ma anche figure della società civile»; della ‘ndrangheta che arrivò, per la prima volta, a colpire al Nord un magistrato dirigente di un grande ufficio, quale il Procuratore della Repubblica di Torino, Bruno Caccia[7]; della camorra, con le centinaia di morti, per anni, a Napoli e in Campania. La politica reagì con la modifica della legislazione penale e processuale penale (dalla legge La Torre al progressivo affermarsi del sistema del doppio binario, alla normativa premiale per i collaboratori di giustizia). L’antimafia sociale vide, invece, il moltiplicarsi delle associazioni impegnate sul versante della cultura antimafia nella società civile e della solidarietà verso le istituzioni (Libera, Comitato Addiopizzo, Liberi di scegliere, sindacati, e infine -sia pure in ritardo- alcune associazioni di categoria). Resta il fatto che il movimento antimafia (punto sul quale non si può non consentire) è considerato dall’Autore la grande novità di questi ultimi decenni ed ha contribuito a diffondere la consapevolezza delle mafie come male sociale da contrastare. Snodo, anche questo, cruciale sul piano della conoscenza: delle valutazioni dei fatti e della scelta sul che fare. Sciarrone svolge, al riguardo, acute osservazioni che conviene riportare integralmente[8]: «Lo sviluppo dell’antimafia sociale e i successi dell’antimafia istituzionale hanno tuttavia prodotto anche un esito a prima vista paradossale: una progressiva declinazione del problema della mafia come mera questione di ordine pubblico, da affrontare fondamentalmente…attraverso interventi e politiche di tipo repressivo…Negli ultimi decenni,…, è…cresciuto il livello di attenzione e di conoscenza… dei fenomeni mafiosi…e quindi la costruzione sociale della mafia come “male”, ovvero la consapevolezza di un fenomeno che danneggia la collettività e la convivenza democratica, e che quindi va considerato come male sociale da osteggiare e combattere…Senonché considerare la mafia come male assoluto ha avuto come effetto anche quello di rappresentare la lotta alla mafia come una contrapposizione fra il Bene e il Male, chiamando quindi in causa prevalentemente ragioni di ordine etico e morale… A parere di chi scrive, sarebbe invece auspicabile andare nella direzione di considerare la mafia come “male pubblico”, in quanto tale socialmente tangibile, e circoscrivibile a livello spaziale e temporale. In questo modo, essa sarebbe rappresentata in contrapposizione al bene pubblico. Si tratta di una prospettiva che chiama in causa in modo forte la politica, e che quindi dovrebbe essere in grado di affrontare la cruciale questione dell’area grigia…, ma anche…di anteporre la giustizia alla legalità. Un’antimafia così concepita mette in primo piano la politica e le politiche, ovvero le decisioni pubbliche che investono i rapporti tra Stato e mercato, la regolazione del lavoro, l’allocazione delle risorse, la rappresentanza degli interessi, le diseguaglianze economiche, territoriali e sociali, più in generale i processi di sviluppo economico e quelli di coesione sociale….Appare… paradossale che soprattutto nell’area propriamente politica manchi un confronto critico e aperto sui problemi della mafia e dell’antimafia…Si ritiene fondamentale salvaguardare l’unitarietà del fronte antimafia; si ripete che la lotta alla mafia non deve essere né di destra né di sinistra.. Così facendo, difficilmente si arriva…a parlare di come condurre questa lotta, con quali strumenti e verso quali obiettivi concreti…(ciò: ndr) azzera possibilità di un confronto su modelli alternativi di progettare e praticare l’antimafia».

Non possono residuare dubbi. E’ la politica che deve assumersi le sue responsabilità di scelta: limitarsi alla irrinunciabile repressione penale, oppure fare chiarezza su obiettivi e mezzi più adeguati che facciano avanzare i percorsi di uguaglianza, il rispetto dei diritti e la giustizia sociale, come scritto nella nostra Carta costituzionale?

 

5. I mafiosi e gli altri

Si è già detto del rapporto tra avanzata delle mafie e spazio ad esse lasciato dallo Stato. Sciarrone, sviluppando il tema, ci ricorda il pensiero di Max Weber sui requisiti dei gruppi politici, che si ritrovano tutti nell’agire delle mafie, le quali dispongono di un sistema di regole, di apparati in grado di farle rispettare, di un territorio di riferimento. In fondo, la capacità delle mafie di adattare la loro azione alle condizioni eventualmente nuove in cui si trovano ad operare, riuscendo comunque a coniugare controllo del territorio e attività a fini di lucro e riducendo al minimo -se del caso- il ricorso alla violenza (come nell’attuale fase dimostrano di saper fare le mafie italiane), è segno importante della attualità della questione mafiosa. Osserva, efficacemente, l’Autore che i mafiosi non sono marziani e non sono solo mafiosi: contano i loro legami familiari, a partire da quelli con le loro donne; contano anche i modelli organizzativi diversi che essi si danno, in base a criteri di utilità, e i rapporti che instaurano con il mondo economico (delle imprese e della finanza) in relazione ai loro obiettivi ed a quelli dei loro interlocutori. Molti studiosi, da tempo, evidenziano la saldatura di interessi tra mafia, corruzione politica, criminalità economica e dei colletti bianchi. Le competenze di altri soggetti messe a disposizione delle mafie creano le condizioni per la realizzazione di scambi reciprocamente vantaggiosi, al punto che -come osservato dal Procuratore nazionale antimafia- l’economia criminale non si contrappone al mercato ma ne conosce bene le regole e cerca di usarle ai propri fini[9].

 

6. L’area grigia

Anche Sciarrone non si sottrae alla disamina della questione che, da tempo ormai, ha assunto un ruolo sempre più rilevante nell’analisi delle mafie: quella della cosiddetta area grigia, della quale l’Autore propone una possibile definizione. Egli sottolinea che essa trae origine dalla capacità delle mafie di costruire relazioni con pezzi di società civile e di istituzioni, le quali serviranno a «creare legami di sostegno attivo e a ottenere il consenso necessario alla loro sopravvivenza e riproduzione»: si tratta del capitale sociale[10] che può essere riconvertito in capitale economico e che comunque fa crescere prestigio e potere[11]. Le mafie comandano in quanto sono capaci di costruire reti e, per farlo, ricorrono all’uso della forza, ma anche ad una straordinaria abilità nel realizzare manipolazione e influenza, «in grado di orientare il modo di pensare degli individui, modificandone le mappe cognitive». Qui si radica la «controversa questione del consenso alla mafia»[12], tutt’altro che priva di riflessi sui profili di responsabilità penale, come la dottrina penalistica, anche di recente, ha evidenziato[13]

Ma neppure sarebbe corretto trascurare che c’è una area grigia nel Centro-Nord del nostro paese che ha una sua autonomia rispetto all’insediamento delle mafie: se pecunia non olet, perché non fare affari con i mafiosi trasferitisi al Nord? E’ ciò che è emerso da plurime indagini giudiziarie e che periodicamente si tende a dimenticare. Non solo. Se così è andata in Val di Susa e in Val d’Aosta, i concetti cui si è fatto riferimento per analizzare il fenomeno delle mafie radicate al di fuori dalle aree tradizionali sono stati contagio, invasione, trapianto, tutti rivelatisi inadeguati a descrivere compiutamente i processi reali di diffusione[14]. Tema, quest’ultimo, indicativo dell’assoluta necessità di uno scatto in avanti dell’analisi cui dovrebbe decidersi a mettere mano la pubblicistica non specializzata, per dare alla coscienza antimafia quella robustezza di cui c’è ancora bisogno.

 

7. Conoscere la realtà per trasformarla. Cioè, per liberarsi dalle mafie

Da ultimo l’Autore, dopo aver sottolineato l’importanza della conoscenza (che sia anche polispecialistica) sulla questione mafie, sollecita ad avere due attenzioni: la cautela nel maneggiare le fonti giudiziarie, importanti ai fini della ricostruzione delle dinamiche fattuali, ma non esaustive ai fini della completezza e affidabilità delle relative interpretazioni che esse stesse suggeriscono; e, collegata ad essa, la necessità di andare oltre le mafie per ricostruire vicende storiche complesse, nelle quali i fatti di mafia possono risultare intrecciati ad altri di natura tutt’affatto diversa. Ancora una volta Salvatore Lupo lo aveva evidenziato. Non esiste una mafiologia. Basterebbe quest’ultima considerazione per convincersi della irrinunciabilità della lettura del libro di Sciarrone per saperne di più sulle mafie oggi[15].


 
[1] Cfr. pagg. 5 e 13; 185.

[2] Cfr. pagg. 46 e ss.

[3] Cfr. pag. 51: «Nel film è raffigurata l’ideologia mafiosa, con notevole “forza evocativa, con corrispondente capacità manipolativa e mistificante, e con apologetica impudicizia”».

[4] Cfr. pag. 55: «Come sostiene Lupo, “solo l’antimafia rende visibile la mafia, ne consegue che per capire le emergenze della seconda non possiamo prescindere da uno studio della prima”».

[5] Cfr. pag. 56.

[6] Solo per i più giovani che abbiano resistito, fin qui, alla lettura: luogo, nei pressi di Palermo, ove un’autobomba causò la morte di sette uomini delle forze dell’ordine.

[7] Cfr. pagg. 57-59.

[8] Cfr. pagg.88- 89 e 93-95.

[9] Cfr, pagg. 96 e ss.; 119 e ss.; 133 e ss.; 138-139.

[10] Cfr. sub 2.

[11] Cfr. pagg. 141 e ss.

[12] Cfr. pagg. 149-152.

[13] Sul punto, cfr. A. Capone, La denuncia riservata, Giappichelli, 2025.

[14] Cfr. pagg. 178-185.

[15] Cfr. pagg. 214 e ss., 220 e ss.

15/11/2025
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