Magistratura democratica
Magistratura e società

Separare la magistratura non è una soluzione. Un documento sottoscritto da studiose e studiosi di procedura penale

a cura di Redazione

Pubblichiamo in allegato il documento sottoscritto da docenti di Procedura penale di diverse Università, che esprime ragioni di contrarietà alla riforma costituzionale in materia di ordinamento giurisdizionale e istituzione della Corte disciplinare. Il testo nasce in risposta al documento, diffuso dal Consiglio direttivo dell'Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale "Gian Domenico Pisapia", a sostegno della riforma costituzionale.

Le professoresse e i professori evidenziano che «solo un approccio scientifico ai temi toccati dalla riforma costituzionale può contribuire a stemperare le forti contrapposizioni». Questa indicazione metodologica è tutt’altro che secondaria.

Non si tratta solo di valutare il merito delle soluzioni proposte, ma di ricostruire le condizioni di possibilità di una riforma che non sia contingente alla stagione politica, né dettata dall’urgenza di risolvere il problema del giorno. Il manifesto dei professori parte da una premessa che vale la pena sottolineare: la rigorosa separazione delle funzioni è un valore condiviso e non negoziabile nei sistemi accusatori moderni. E tuttavia — come osservano gli studiosi — non esiste una correlazione necessaria tra modello processuale e assetto delle carriere, perché nei sistemi a più consolidata tradizione accusatoria le radici professionali di pubblico ministero, avvocato e giudice sono spesso comuni.

Un primo punto critico riguarda la finalità della riforma. Le studiose e gli studiosi segnalano come essa «non fornisca alcun contributo alla risoluzione dei problemi che affliggono la giustizia penale italiana (primo fra tutti la durata irragionevole)». Se l’obiettivo dichiarato è una maggiore efficienza, la domanda è inevitabile: separare le carriere, sdoppiare il CSM e introdurre formule di sorteggio rafforza davvero l’indipendenza dei magistrati o rischia piuttosto di logorarla? Ed è su questo crinale che il documento richiama una conseguenza forse non immediatamente visibile ma cruciale: la riforma potrebbe condurre a un mutamento genetico della figura del pubblico ministero, sempre più orientato a funzioni di repressione e sempre meno a garanzia dell’equilibrio tra interessi pubblici e tutela dei diritti fondamentali. Una trasformazione che — si legge — «è destinata a tradursi in un progressivo indebolimento delle garanzie per indagati e imputati», soprattutto i più fragili.

Un altro punto critico riguarda la nuova Corte disciplinare. Il documento evidenzia dubbi sulla sua composizione e soprattutto sull’ampiezza della delega alla legislazione ordinaria, che decide modalità di sorteggio, composizione dei collegi e altre questioni rilevanti. L’esito è noto al nostro sistema: un assetto costituzionale destinato a mutare al variare della maggioranza politica del momento, con effetti potenzialmente destabilizzanti sulla continuità dell’ordinamento giudiziario. Di fronte a tali rilievi, la domanda di fondo resta aperta: quale riforma serve davvero alla giustizia italiana? Una riforma strutturale non può ridursi a una scelta identitaria tra pro e contro, tra magistratura e politica, tra difesa e accusa. Richiede un progetto condiviso e una visione sistemica. Il documento mostra che il dibattito serio non è tra chi è conservatore e chi è innovatore, ma tra chi pensa la giustizia in termini di garanzie e chi la pensa in termini di schieramento. Il merito più grande di questa presa di posizione è proprio questo: ricordarci che una riforma della giurisdizione non può nascere da un atto di forza, né essere valutata secondo logiche di appartenenza. Deve piuttosto inscriversi nella cornice del costituzionalismo italiano, dove autonomia della magistratura, garanzie nel processo e tutela dei diritti non sono variabili accessorie, ma architravi dell’ordine democratico.

26/11/2025
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