Da qualche tempo è stata mossa un’accusa di sostanziale incoerenza contro chi si è schierato per il NO alla separazione delle carriere tra magistrati in nome della salvaguardia della Costituzione.
Si è detto che l’allora Ministro di Grazia e Giustizia Avv. Dino Grandi, noto alla storia soprattutto per l’Ordine del Giorno che il 25 luglio del 1943 portò alla destituzione di Mussolini, nel 1941 sostenne la necessità di mantenere una magistratura unica, con la conseguenza che l’odierno assetto istituzionale è figlio di un sistema autoritario e oppressivo quale quello fascista.
Di conseguenza, chi muove questa critica lo fa per arrivare alla conclusione che chi oggi si oppone alla separazione delle carriere (anche in nome della Costituzione antifascista), in realtà si troverebbe sulle stesse posizioni, magari inconsapevolmente, di un gerarca fascista come Dino Grandi.
Ovviamente, come sempre accade quando si estrapola un inciso da un quadro ben più ampio, così non è.
Facciamo un passo indietro.
La questione della salvaguardia dell’autonomia della magistratura non esisteva durante il ventennio fascista e nemmeno poteva esser oggetto di discussione, dal momento che uno dei primi provvedimenti che trasformarono il debole stato liberale italiano in regime autoritario fu proprio la creazione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, competente per reati politici e presieduto da fedelissimi miliziani fascisti. La magistratura, di cui Mussolini per principio non si fidava, doveva essere sotto il controllo più totale del governo.
In questo contesto si inserisce la riforma del Guardasigilli Grandi, ma non nei termini sopra usati. Infatti, dopo aver introdotto un nuovo codice penale e di procedura penale nel 1930, era la volta, con notevole ritardo, di metter mano anche al sistema civile, passando per la riforma della magistratura. Tanto che fu scelto proprio Grandi come nuovo Ministro (in realtà anche per allontanarlo dall’ambasciata a Londra, quasi certamente su sollecito dei tedeschi) con l’incarico di portare a termine questo iter.
Ebbene, l’ordine unitario della magistratura, così come oggi previsto anche dalla Costituzione, nulla ha a che vedere con il progetto politico del ventennio fascista; nel pensiero del Guardasigilli Grandi si teorizzava il superamento delle separazioni di tutti i poteri, con la magistratura (a cui a parole si garantiva l’indipendenza) relegata a dover «informare la sua attività alle direttive generali segnate dal governo per l’esercizio di ogni sua funzione»[1]. Non a caso il Ministro di Giustizia diventava il solo ed unico detentore del potere sanzionatorio nei confronti della magistratura.
Ed ancora, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1940, Grandi invitava i magistrati a oltrepassare i limiti della legge per obbedire allo spirito del tempo e di Mussolini, che ribadiva l’intervenuta e definitiva fine della divisione dei poteri[2].
Ebbene, in questo contesto l’unicità della magistratura, come evidente, nulla ha a che vedere col dibattito di oggi. Nel pensiero fascista, la magistratura doveva essere un mero strumento del potere, di fatto un prolungamento dell’azione di governo, pertanto diventava ovvio (o forse irrilevante) l’unitarietà della magistratura. In altre parole, la questione non riguardava quante magistrature potessero esistere, dal momento che comunque avrebbero perso ogni autonomia in favore del potere politico, nei modi di cui abbiamo parlato.
[1] Antonella Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, 2013, pag. 229.
[2] Giancarlo Scarpari, Il giudice del Novecento: da funzionario a magistrato, in Questione giustizia online, https://www.questionegiustizia.it/speciale/articolo/il-giudice-del-novecento-da-funzionario-a-magistrato_106.php