Magistratura democratica
Controvento

L’estremismo istituzionale del governo Meloni. Una rivincita degli “esclusi”?

di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia

Una accorta politica economica dei “conti in ordine” e l’equilibrismo della presidente del Consiglio tra le simpatie ideologiche per l’amministrazione Trump e la volontà di non perdere contatto con l’Unione europea sulla crisi ucraina, hanno guadagnato al governo Meloni un’immagine di moderazione, smentendo molte delle preoccupazioni e delle apocalittiche previsioni emerse alla vigilia del suo insediamento. Una immagine che è stata solo marginalmente scalfita dagli interventi di Giorgia Meloni successivi all’omicidio Kirk, nei quali, dimenticando di essere la presidente del Consiglio di tutti gli italiani, non ha esitato ad addebitare alla sinistra italiana immaginarie minacce presenti ed esclusive responsabilità per gli odi, gli scontri e le vittime degli anni di piombo. Quando però si mette sotto la lente di ingrandimento la politica istituzionale del governo, l’immagine di misura, di equilibrio, di cautela svanisce e cede il posto ad un dichiarato oltranzismo ed a scelte improntate all’estremismo ed al revanscismo istituzionale e costituzionale. Tratti, questi, che non provengono dal fascismo (per molti aspetti il governo Meloni è infatti compiutamente afascista) ma dall’humus culturale profondamente autoritario del Movimento Sociale Italiano degli anni 70 e 80 guidato da Giorgio Almirante. Ad ispirare le riforme costituzionali propugnate dal governo è infatti la cultura – ereditata dal partito di Fratelli d’Italia - degli “esclusi” dall’elaborazione del patto costituzionale, i quali, pur collocando la loro azione politica nell’alveo della competizione democratica, si sono sempre sentiti “estranei” ai valori ed agli equilibri culturali ed istituzionali cristallizzati nel testo della carta fondamentale e si sono posti come avversari della Resistenza e delle forze politiche che hanno cooperato alla costruzione nel Paese della Repubblica democratica. La genealogia delle riforme costituzionali e della politica del diritto perseguita dal governo consente di cogliere nitidamente le eredità del passato, gli elementi di voluta continuità con le idee e le proposte istituzionali dell’estrema destra della prima Repubblica e l’ostilità verso alcuni degli istituti più caratterizzanti della nostra Costituzione. Questo oltranzismo istituzionale e costituzionale - che smentisce i giudizi sulla moderazione dell’attuale governo e suscita vive preoccupazioni sulla tenuta futura del quadro democratico – è tanto più inquietante in quanto esso è frutto di una volontà di rivincita sulla Costituzione e sulla storia istituzionale repubblicana del “polo escluso”, esprimendo la volontà di capovolgere regole e principi fondanti della democrazia repubblicana. L’analisi dei progetti di riforma costituzionale – assetto della magistratura e premierato – e della politica del governo sul versante del diritto penale e dell’immigrazione consente di illustrare gli aspetti di revanscismo della linea politica perseguita dalla maggioranza di destra.

Sommario: 1. Per una “genealogia” delle riforme istituzionali del governo di destra - 2. Contro il pluralismo della magistratura si approva la riforma del CSM voluta da Almirante - 3. Dividere le magistrature per incrinare la separazione dei poteri - 4. Al vertice delle istituzioni un capo eletto direttamente dal popolo - 5. L’abbandono del parlamento alla sua deriva - 6. Un diritto penale oltre gli schemi di “law and order” - 7. Un nazionalismo venato di nativismo…

 

1. Per una “genealogia” delle riforme istituzionali del governo di destra

Nella percezione di una larga parte dell’opinione pubblica – in questo influenzata anche da un ben orchestrato coro dei media - il governo Meloni ha smentito gran parte delle preoccupazioni e delle apocalittiche previsioni emerse alla vigilia del suo insediamento grazie alle prove di “moderazione” offerte nella prima metà della legislatura. 

Ad accreditare l’immagine di misura e di temperanza della compagine governativa e della sua leader hanno certamente concorso alcune scelte di politica economica ed estera. 

Sul versante economico l’opzione per una accorta politica dei “conti in ordine” e gli effetti positivi della stabilità dell’esecutivo sul rating dell’Italia e sullo spread hanno relegato in secondo piano ed efficacemente mascherato i non pochi dati negativi della situazione economica: il persistente calo della produzione industriale, il livello stagnante dei salari e della produttività, la realtà del lavoro povero. 

In ambito internazionale ha contato la ricerca di equilibrio - a tratti il vero e proprio equilibrismo della premier - tra le evidenti simpatie culturali e ideologiche con l’amministrazione Trump e la volontà di non perdere contatto, sulla crisi ucraina, con l’Unione Europea, i suoi interessi economici, le sue esigenze strategiche. 

Un terreno sul quale la presidente del Consiglio, dando prova di costante ipocrisia, si ostina a predicare Atlantismo e fedeltà all’Occidente, come se fossero “ancora” concetti unitari e unificanti, a dispetto delle fratture e delle vistose divaricazioni prodotte dalle scelte degli Stati Uniti di Donald Trump. 

Politica economica e politica estera dell’esecutivo accreditano dunque l’immagine di un governo nel quale il partito di maggioranza della coalizione, pur essendo erede diretto dei postfascisti italiani, appare ormai compiutamente “afascista” e opera per realizzare la politica propria di un governo di stampo nazional- conservatore. 

Una immagine che è stata solo marginalmente scalfita dagli interventi di Giorgia Meloni successivi all’omicidio Kirk, nei quali, dimenticando di essere la presidente del Consiglio di tutti gli italiani, non ha esitato ad addebitare alla sinistra “italiana” immaginarie minacce presenti ed esclusive responsabilità per gli odi, gli scontri e le vittime degli anni di piombo. 

Quando però si mette sotto la lente di ingrandimento la politica istituzionale del governo, questa immagine di misura, di equilibrio, di cautela svanisce e cede il posto ad un dichiarato oltranzismo ed a scelte improntate al revanscismo istituzionale e costituzionale. 

Tratti, questi, che dal loro angolo visuale i giuristi possono vedere con maggiore chiarezza di altri studiosi e che provengono da un passato lontano. 

Non dal passato fascista - che è improprio evocare perché, anche sotto il profilo istituzionale oltre che su quello economico, il partito di Fratelli d’Italia non mutua tratti del fascismo[1] - ma dalla cultura profondamente autoritaria del Movimento Sociale Italiano degli anni ‘70 e ‘80 guidato da Giorgio Almirante. 

Parliamo del partito degli “esclusi” dall’elaborazione del patto costituzionale, che, pur collocando la sua azione politica nell’alveo della democrazia, si è sempre sentito “estraneo” ai valori ed agli equilibri culturali ed istituzionali cristallizzati nel testo della carta fondamentale e si è posto come avversario dichiarato della Resistenza e delle forze politiche che avevano cooperato alla costruzione nel Paese di una Repubblica democratica. 

E, proprio per questo, un partito che, pur praticando una politica di piccolo cabotaggio sulle vicende politiche contingenti, restava fortemente impegnato a progettare una Nuova Repubblica, radicalmente differente e antagonista rispetto a quella nata dalla Costituzione. 

In effetti ripercorrere la genealogia delle riforme costituzionali e della politica del diritto perseguita dal governo di destra consente di cogliere nitidamente – in particolare con riguardo al partito di Fratelli di Italia - le eredità del passato, gli elementi di voluta continuità con le idee e le proposte istituzionali della destra della prima Repubblica, un’identica ostilità verso alcuni degli istituti più caratterizzanti della nostra Costituzione. 

Questo oltranzismo istituzionale e costituzionale - che smentisce i tanti giudizi affrettati e parziali sulla natura e gli scopi del governo di destra e suscita vive preoccupazioni sulla tenuta futura del quadro democratico – è tanto più inquietante in quanto esso è frutto di una volontà di rivincita sulla Costituzione e sulla storia istituzionale repubblicana del “polo escluso”, esprimendo la volontà di capovolgere regole e principi fondanti della democrazia repubblicana. 

Per dimostrare l’esistenza e la radicalità di un tale spirito di revanche occorre soffermarsi, sia pure solo con sintetiche notazioni, sulla genealogia delle riforme costituzionali e sulle risalenti fonti di ispirazione politica della destra odierna. 

Con l’avvertenza che l’analisi dei singoli provvedimenti già approvati o in corso di approvazione non consente di apprezzarne a pieno l’entità e l’incisività e che solo una visione di insieme è in grado di restituire il reale significato delle politiche in atto. 

 

2. Contro il pluralismo della magistratura si approva la riforma del CSM voluta da Almirante

Il primo tratto, per così dire genealogico, della politica istituzionale oltranzista e revanscista del governo Meloni sta nella volontà di rimodellare - sconvolgendolo profondamente – il governo autonomo della magistratura, affidandone la composizione al “sorteggio” dei componenti togati di due Consigli Superiori separati per giudici e pubblici ministeri e del nuovo giudice dei magistrati, l’Alta Corte disciplinare. 

La proposta del sorteggio mira a riportare la magistratura italiana allo status originario di corporazione indifferenziata sotto il profilo ideale, unita solo da elementari interessi materiali e professionali. 

Un risultato che si intende ottenere impedendo, grazie alla cecità del sorteggio, che negli organi di governo autonomo delle magistrature giudicante e requirente possano esprimersi e riflettersi, in conseguenza del voto, le diverse visioni della giurisdizione e la pluralità di culture istituzionali presenti nei diversi gruppi associativi operanti in seno all’associazione nazionale magistrati. 

Gruppi che vengono rappresentati - in termini propagandistici e contro la verità storica - come una realtà negativa da cancellare per liberare dal loro influsso, nefasto e clientelare, i magistrati italiani. 

Alla natura ed alla storia dell’opzione per il “sorteggio” questa Rivista ha dedicato più scritti analitici ai quali si rinvia[2]

Quello che qui preme illuminare è però un altro profilo della questione “sorteggio”, non a tutti noto e quasi mai ricordato nei dibattiti sulla riforma costituzionale della magistratura. 

Parliamo della paternità della proposta del sorteggio per il CSM che appartiene a Giorgio Almirante - il primo a proporlo nella storia repubblicana - e si iscrive organicamente e coerentemente nel progetto di “Nuova Repubblica” coltivato dal Movimento Sociale Italiano e dal suo leader a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso. 

Nella relazione della proposta di legge d’iniziativa dei deputati Almirante ed altri, recante «Modifica degli articoli 104,105,107 della Costituzione sulla funzione giurisdizionale» (C.3568 del 23 luglio 1971.) si leggeva che l’art. 101 della Costituzione che stabilisce che i giudici sono soggetti soltanto alla legge «è stato violato attraverso la cosiddetta interpretazione evolutiva» e che «nella realtà […] sono germinate divisioni, correnti, organizzazioni plurime, ormai diventate strumenti indispensabili ed insostituibili per il concorso all’elezione nell’altissimo organo»[3]

La soluzione ideale e per così dire finale per ovviare alla degenerazione del correntismo era - per Almirante e i suoi sodali - quella di vietare ai magistrati non solo di appartenere a partiti politici ma anche «ad associazioni di categoria» come previsto nella proposta di legge n. 2234 del 22 gennaio 1970 presentata alla Camera dai deputati del MSI, Romeo e Manco[4].

Ma intanto, in attesa dell’introduzione dell’auspicato divieto – proseguiva la relazione alla proposta di legge - «appare opportuno introdurre nel Consiglio Superiore della magistratura […] magistrati di nomina non elettiva ed a tal fine la soluzione più valida appare quella del sorteggio tra alcune categorie di magistrati», che garantirebbe una maggiore indipendenza dei membri sorteggiati ed una minore politicizzazione dell’organo di governo della magistratura. 

Al Consiglio Superiore della magistratura dovevano poi essere sottratte – sempre secondo Almirante e i deputati del MSI – le funzioni di giudice disciplinare da attribuire alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione. 

Dunque, «le stesse cose ritornano» sia pure con qualche variante e in un diverso contesto. 

Le stesse idee vengono riproposte, gli stessi progetti vengono riesumati con tenacia per raggiungere gli obiettivi falliti in passato. 

Si lavora alla demolizione del pluralismo culturale ed ideale della magistratura italiana che è stato uno straordinario fattore di crescita del ruolo di tutti i magistrati in favore del ripiegamento nella logica della corporazione nella quale “l’uno vale l’altro”. 

Si propugna il ritorno ad una magistratura di “funzionari” meno protetti nella loro indipendenza da un autogoverno meno legittimato, meno forte ed autorevole perché nato dal sorteggio e non da elezioni. 

Si vuole la cancellazione della storia della magistratura dal congresso di Gardone in poi, nel quale all’interrogativo posto da Giuseppe Maranini «magistrati o funzionari?» fu data la risposta orgogliosa e consapevole di rifiuto della figura del giudice burocrate. 

E’ francamente inquietante questa continuità ideale e programmatica tra Giorgio Almirante e Giorgia Meloni, tra l’MSI degli anni ‘70 e ‘80 e la destra odierna, tra il progetto di Nuova Repubblica e la riforma costituzionale della magistratura sullo snodo cruciale della riforma stessa che non è - come ormai molti apertamente riconoscono - la separazione delle carriere ma il ripudio delle elezioni e del metodo democratico per la formazione degli organi di governo della magistratura. 

La volontà di estirpare «la mala pianta delle correnti» – ancora una volta espressa da Giorgia Meloni al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione – non nasce solo dalla deliberata ignoranza della storia della magistratura e della positiva funzione culturale e ideale svolta dai gruppi associativi ma affonda le sue radici nella pervicace volontà, che fu dei postfascisti italiani, di trasformare i magistrati in isolati burocrati tenuti insieme solo dal generico collante degli interessi corporativi. 

Coerente nell’impostazione degli eredi di Almirante, questa scelta stride con le proclamazioni di liberalismo, garantismo e difesa dell’indipendenza di altri sostenitori della revisione costituzionale. 

Così, per propagandare la riforma costituzionale della magistratura il Ministro della Giustizia continua ad evocare Giuliano Vassalli ma smercia un “prodotto” destinato alla mortificazione del governo autonomo della magistratura, concepito dalla destra postfascista in polemica con la lettera e lo spirito della Costituzione repubblicana dalla cui elaborazione era stata esclusa. 

Ed analoga contraddizione vivono le Camere penali e le altre associazioni di avvocati che sostengono il progetto del governo Meloni senza ricordarne la genesi e senza volerne cogliere le valenze riduttive dell’indipendenza di tutti i magistrati. 

Per non parlare dell’esiguo gruppo di magistrati – quello dei 101 – che riceve dalla stampa di destra un potentissimo megafono tutte le volte che qualcuno dei suoi esponenti illustra le virtù del sorteggio, immaginando che l’indebolimento del governo autonomo della magistratura lascerebbe intatte le attuali garanzie giuridiche ed economiche dei magistrati. 

 

3. Dividere le magistrature per incrinare la separazione dei poteri

In realtà la scelta di comporre per sorteggio i due Consigli Superiori separati e di creare una Corte disciplinare a sua volta distinta dai Consigli conferisce alla separazione delle carriere una valenza che va molto al di là della semplice divariazione di percorsi professionali tra magistratura giudicante e requirente. 

La riforma mira infatti a realizza infatti una vera e propria mutazione genetica dell’ordinamento giurisdizionale, destinata ad investire una pluralità di temi istituzionali: le “carriere”, il “governo” della magistratura, l’intera “organizzazione giudiziaria” e l’“associazionismo” dei magistrati ed infine la “giurisdizione disciplinare”. 

Di qui la radicalità dello scontro tra le posizioni dei favorevoli e dei contrari alla riforma che si misurano non solo sui contenuti della proposta di revisione costituzionale ma anche sui processi istituzionali che saranno innescati dal nuovo assetto costituzionale della magistratura. 

In questo contesto il tema più aspro e controverso riguarda il futuro del pubblico ministero e delle sue garanzie di indipendenza. 

Se è vero che nel testo del disegno di legge di revisione costituzionale non è intaccata l’autonomia dall’esecutivo del corpo dei pubblici ministeri, è pressoché scontato che, una volta approvata la riforma, la sorte dei magistrati dell’accusa sarà subito al centro di nuove forti tensioni. 

I magistrati requirenti, retti da un organo di governo di rilievo costituzionale, costituiranno un autonomo potere di accusa dello Stato che non ha né precedenti né eguali in altri ordinamenti liberaldemocratici e rischierà di dar vita a squilibri istituzionali e a reazioni miranti a limitarne l’azione e la libertà di manovra. 

Ed infatti i sostenitori della riforma si dividono apertamente sulle prospettive future dell’ufficio del pubblico ministero. 

Gli uni sono prodighi di messaggi genericamente rassicuranti sull’indipendenza futura dell’organo, mentre gli altri invocano già oggi, come fa il Senatore Marcello Pera «una politica criminale determinata univocamente da un organo di vertice» contrapposta al caos in cui «ciascun pubblico ministero, se non ciascuna Procura è libera di fare ciò che crede, di perseguire i reati che crede, di fare la politica criminale che crede»[5]

Solo chiudendo gli occhi rispetto alla realtà si può non vedere che sui casi spinosi e controversi che nella giurisdizione non mancano mai si potranno imbastire campagne di aggressione e di discredito sul corpo separato e “irresponsabile” dei pubblici ministeri mirante a ricondurli nella sfera di responsabilità dell’esecutivo. 

Gli insulti e i violenti attacchi - spesso sferrati a freddo e senza che vi sia alcun casus belli – contro i pubblici ministeri ci dicono quanto sia intollerabile per la destra l’indipendenza del pubblico ministero, organo che si vuole ad ogni costo ricondurre all’obbedienza per acquisire al potere politico di maggioranza e gestire con spirito di parte la leva dell’azione penale. 

Risultato, questo, ottenibile anche con una normativa ordinaria che privi il pubblico ministero del potere di autonoma individuazione delle notizie di reato e lo trasformi in un “avvocato della polizia” che agisce solo a seguito delle denunce delle forze di polizia e solo per sostenere in sede processuale le iniziative da queste assunte. 

La posta in gioco è dunque il principio di separazione dei poteri, incrinato dai processi politici ed istituzionali messi in moto dalla riforma costituzionale della magistratura. 

 

4. Al vertice delle istituzioni un capo eletto direttamente dal popolo

Altro elemento di continuità, peraltro apertamente rivendicato, tra la cultura e le proposte istituzionali del Movimento Sociale Italiano e del governo Meloni è l’accentramento di poteri di governo in un “capo” direttamente eletto dal popolo. 

Ospite, nel 1983, di una trasmissione televisiva condotta da Enzo Biagi - Repubblica: Atto II - Giorgio Almirante sosteneva la necessità di liberare il governo dalla «servitù della partitocrazia», facendo sì che «il presidente del Consiglio non sia tratto fuori dal forcipe della partitocrazia ma venga nominato direttamente» da un capo dello Stato a sua volta forte di una diretta investitura popolare e non servo del sistema dei partiti. 

Nel 2018, all’inizio della XVIII legislatura, veniva presentata a firma di Giorgia Meloni ed altri, una proposta di legge (AC n. 716) volta ad apportare modifiche alla parte II della Costituzione concernenti l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. 

Nella relazione alla proposta di legge, dopo aver ricordato gli autorevoli esponenti della cultura e della politica italiana che avevano in passato preso posizione sia pure con diverse sfumature a favore del presidenzialismo – Gaetano Salvemini, Pietro Calamandrei, Randolfo Pacciardi, Leo Valiani, Giuseppe Saragat, Giuseppe Maranini, Giorgio La Pira – si sosteneva tra l’altro che «Un Presidente votato dagli italiani e che risponde del proprio operato solo di fronte ai suoi elettori è la più importante riforma costituzionale che potremmo regalare a una nazione che ha bisogno di stabilità ma anche di passare da una “democrazia interloquente” ad una “democrazia decidente”». 

Partita da posizioni presidenzialiste, nel corso della presente legislatura la presidente del Consiglio si è rapidamente convertita al premierato, avendo cura di mantenere rigorosamente fermo l’obiettivo politico centrale dell’investitura popolare diretta di un capo dell’esecutivo dotato di ampi poteri e i suoi naturali corollari di riduzione del ruolo dei partiti e del parlamento. 

Ed è proprio l’intransigenza sull’elezione diretta del capo dell’esecutivo – più volte personalmente ribadita da Giorgia Meloni – a rivelare il nocciolo duro, la volontà politica di fondo che sta al cuore del progetto di revisione della Costituzione. 

Si vuole immettere nel quadro della nostra democrazia parlamentare un elemento personalistico, potenzialmente plebiscitario e carismatico – e per questo destinato a non essere limitato e impacciato da contrappesi – in grado di aprire la strada ad un accentramento e ad una occupazione del potere di proporzioni mai viste prima e a scenari sin qui impensabili, scompaginando le relazioni e alterando gli equilibri istituzionali esistenti tra organi e poteri dello Stato.

Una scelta, questa, le cui origini vanno ricercate nelle corde più antiche e profonde della destra italiana e in una concezione verticistica del potere nutrita del mito del “capo” operante in simbiosi con il popolo che differenzia l’impostazione del governo di destra dalle forme di presidenzialismo democratico proposte in passato da esponenti di diverse parti politiche. 

Naturalmente, per essere compiutamente tradotta in atto, questa nota ancestrale aveva bisogno di un lavoro servente di ingegneria costituzionale che disegnasse i tratti di un nuovo assetto di potere in grado di assicurare, nel medio periodo, l’egemonia incontrastata della nuova endiadi politica creata dalla riforma: il premier - eletto da popolo - e la sua maggioranza parlamentare. 

Ed è quanto realizzato nel d.d.l costituzionale AS n. 953 che unisce un intervento apparentemente modesto e quasi minimalista sulle norme della Costituzione ad una impressionante alterazione del quadro costituzionale, disegnando la figura di un “premier pigliatutto” in grado di decidere la linea di governo ma anche di influire, grazie alla forza dell’investitura popolare ed al controllo della maggioranza parlamentare, sulla elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici della Corte costituzionale[6]

 

5. L’abbandono del parlamento alla sua deriva

In questo quadro, il parlamento - strettamente legato al premier e da questi fortemente condizionato – perde ogni residua pretesa di centralità per divenire elemento subalterno e servente del blocco istituzionale formato dal presidente del Consiglio e dalla sua maggioranza. 

Del resto l’opera di riduzione del peso politico e di svilimento del ruolo delle assemblee parlamentari è già stata condotta ad uno stadio assai avanzato dalle leggi elettorali e da prassi politiche consolidate degli ultimi decenni. 

Da un lato le leggi elettorali succedutesi dal 2005[7] in poi hanno generato e mantenuto in vita il “parlamento dei nominati”, trasformando la maggior parte dei parlamentari in funzionari che debbono l’elezione al posto loro assegnato nelle liste elettorali redatte dai dirigenti dei partiti. 

Dall’altro lato, la prassi di governare a colpi di decreti legge - in nome di una perenne situazione di “necessità ed urgenza”, cui nessuno, per non rendersi ridicolo, fa più mostra di credere – ha trasformato il parlamento nell’organo di ratifica delle decisioni dell’esecutivo. 

E’ significativo notare che, sebbene la legge che ha dato vita al parlamento dei nominati sia stata originariamente introdotta da un governo di destra, il pieno controllo delle direzioni dei partiti sull’elezione dei parlamentari è apparso allettante anche ai partiti di sinistra e di centro. 

Così che nessuna forza politica e nessuna coalizione di governo si è seriamente impegnata a modificare un sistema elettorale che priva i singoli parlamentari di una autonoma capacità rappresentativa e della piena legittimazione derivante dalle scelte dell’elettorato. 

Egualmente praticato da governi di ogni colore è stato il sistematico ricorso ai decreti legge che relegano in secondo piano le leggi ordinarie e la legislazione frutto di iniziative legislative parlamentari.

La «madre di tutte le riforme» propugnata dalla destra non si cura di questi vistosi difetti del nostro sistema istituzionale ed anzi li aggrava contrapponendo la legittimazione forte del capo dell’esecutivo a quella dimidiata dei parlamentari “nominati” e subordinando la maggioranza parlamentare al presidente del Consiglio. 

Anche in questa decisa svalutazione del ruolo del parlamento si avverte l’eco della cultura politica della destra missina. 

Se per ridimensionare il ruolo delle assemblee parlamentari negli anni ‘70 e ‘80 la destra postfascista proponeva, in polemica con la partitocrazia, un parlamento composto per metà da politici eletti dal popolo e per l’altra metà di rappresentati eletti dalle categorie professionali, oggi gli eredi di quella tradizione possono realizzare i loro obiettivi assecondando i processi già in atto di marginalizzazione delle Camere e rendendo la maggioranza parlamentare docile massa di manovra di un premier direttamente eletto dal popolo. 

Del resto il denunciato svilimento del parlamento è già ora giunto al punto che la proposta di riforma costituzionale della magistratura è stata approvata, senza alcuna modifica, nella versione originariamente concepita dal tandem Meloni–Nordio. 

Il totale ossequio dei deputati e senatori della maggioranza ai disegni dell’esecutivo ha precluso ai rappresentanti della destra qualsiasi modifica, correzione, miglioramento del testo e si è tradotto in un muro a tutti gli emendamenti dell’opposizione. 

Così che si sta modificando la Costituzione senza che il parlamento abbia attivamente partecipato alla elaborazione delle nuove norme, recando un suo autonomo contributo di riflessione e di esperienza. 

 

6. Un diritto penale oltre gli schemi di “law and order

Come tutti hanno potuto constatare, nella prima parte della legislatura il governo Meloni ha scelto di utilizzare il diritto penale come lo strumento principe per governare il disagio ed il conflitto sociale e per fornire la “sua” risposta alla domanda di sicurezza dei cittadini. 

Questa scelta ha determinato uno straordinario attivismo nell’introdurre – a più riprese e sempre all’insegna dell’emergenza, attraverso una serie di decreti legge – aumenti di pena, nuovi reati, nuove circostanze aggravanti.

Non si è trattato però della classica riedizione di una generalizzata politica di law and order propria di un governo di destra ma di una operazione più sofisticata che ha usato il diritto penale con grande flessibilità per inviare messaggi diversi a particolari settori della popolazione, a categorie professionali, a segmenti delle istituzioni. 

Con la depenalizzazione del reato di abuso di ufficio, la modifica della fattispecie del traffico di influenze e la moltiplicazione di reati della marginalità e della protesta sociale è stata tracciata la prima e fondamentale linea di demarcazione nell’iniziativa penale dell’esecutivo. 

Parliamo della netta cesura tra un orientamento di indulgenza verso illegittimità, abusi e devianze dei detentori del potere e una posizione di rigore estremo, a tratti parossistico, nei confronti della marginalità sociale, dei reati di strada e di tutte le forme di azione politica e sociale che fuoriescono dai binari della più stretta legalità formale. 

Per un verso, dunque, come ha scritto Alessandra Algostino «un diritto speciale dell’amico, declinato in senso classista ed autoritario» che attua la depenalizzazione dei reati dei colletti bianchi e introduce tutele privilegiate per le forze di polizia, così veicolando «l’immagine dello Stato come autorità»[8]

Per altro verso, un diritto speciale del nemico, che criminalizza dissenso e disagio sociale e individua nello straniero il «nemico per antonomasia»[9].

Diritti speciali che si pongono, entrambi, ad una distanza “siderale” dalla Costituzione promuovendo una lunga serie di mutamenti istituzionali: «dalla democrazia conflittuale allo stato autoritario; dallo stato sociale allo stato penale; dalla sicurezza come terreno di garanzia dei diritti alla sicurezza come ordine pubblico; dall’emancipazione alla criminalizzazione; dall’inclusione alla espulsione; dalla partecipazione effettiva all’obbedienza all’autorità; dall’orizzonte aperto del pluralismo alla logica identitaria escludente del nemico»[10]

Il tema della assoluta “distanza” dalla Costituzione del diritto penale della destra torna, con singolare identità di accenti, tanto nelle analisi dei costituzionalisti quanto in quelle dei penalisti. 

Così Marco Pellissero individua le direttrici di riforma del diritto penale del governo Meloni nell’utilizzo del diritto penale in chiave simbolico deterrente, nello spostamento dal diritto penale del fatto al diritto penale d’autore e in una idea di legalità penale sganciata dalla Costituzione[11].

E Gaetano Azzariti vede nelle norme in materia di sicurezza «solo l’ultimo atto in ordine di tempo di un progetto politico -culturale complessivo che punta ad abbandonare i principi del nostro sistema costituzionale, per abbracciarne altri che appartengono alla storia della destra attualmente al governo […] e per favorire il primato dell’egoismo individuale e dell’ordine pubblico ideale attorno a cui si struttura la mentalità autoritaria»[12]

Se l’autoritarismo e l’antitesi alla Costituzione sono i tratti di fondo della politica penale del governo, l’esplosione del diritto penale dell’ultimo triennio mira a rispondere anche ad esigenze “politiche” più contingenti ed assolve allo scopo di rinsaldare legami con aree delle istituzioni e della società. 

Su questa linea si colloca lo smaccato tentativo di fidelizzare e politicizzare le forze di polizia (oltre che le forze armate e i vigili del fuoco) grazie all’aumento dei poteri ad esse attribuiti ed alla previsione di norme speciali di tutela e di particolari privilegi[13]

Al punto che in molte dichiarazioni degli esponenti della destra lo scopo dichiarato e primario del decreto sicurezza è «la sicurezza degli apparati di sicurezza», prima ancora che quella della generalità dei cittadini. 

I detentori del monopolio della forza vengono faziosamente invitati a vedere nelle destre i loro veri ed unici protettori di contro ad una opposizione politica sistematicamente collocata dalla parte dei violenti, degli agitatori e dei criminali di strada e ad una magistratura insensibile ai problemi operativi, alle difficoltà ed ai rischi di poliziotti e carabinieri e pronta ad incriminarli alla minima deviazione.

Si assiste poi ad una sorta di “curvatura corporativa” del diritto penale impiegato per rispondere alla domanda di protezione di particolari categorie esposte ad aggressioni e violenze come i sanitari e le già menzionate forze di polizia. 

Più in generale infine il diritto penale è concepito come strumento per sedare una larga gamma di ansie e paure sociali effettive o presunte che vanno dall’occupazione della propria casa alle truffe ai danni degli anziani, dalla diffusione delle droghe agli intralci alla circolazione. 

Che il complesso armamentario normativo messo in campo dall’esecutivo e ratificato dal parlamento aumenti effettivamente la sicurezza dei cittadini è da verificare nella prassi. 

Ma è lecito dubitarne dal momento che l’azione del governo sconta evidenti limiti. 

La sicurezza è infatti concepita riduttivamente in termini di ordine pubblico mentre la deterrenza per questa sfera circoscritta di attentati alla sicurezza è affidata pressoché esclusivamente a nuove fattispecie penali, all’elevazione delle pene, alle anticipazioni delle soglie di punibilità, senza politiche di aumento e di migliore formazione degli organici delle forze di polizia e senza l’impegno per le “strade illuminate”, a suo tempo invocate da Beccaria, che oggi è realizzabile grazie all’impiego di tecniche sofisticate di controllo e sorveglianza degli spazi pubblici e privati. 

Gli astratti proclami normativi e la propaganda delle nuove salvifiche misure - che esauriscono tutti gli sforzi del governo - non appaiono sufficienti a garantire un più alto livello di sicurezza mentre hanno il sicuro effetto di imbastardire il diritto penale, privandolo di ogni interna linearità e coerenza, e di imbarbarirlo con scelte repressive eccessive e spesso del tutto irrazionali. 

 

7. Un nazionalismo venato di nativismo…

Ultimo profilo sul quale richiamare l’attenzione è il costante richiamo della presidente del Consiglio all’idea di nazione ed ai suoi elementi essenziali: l’identità di etnia, di lingua, di cultura, di costumi. 

In una parola il riferimento al “nazionalismo”, declinato nelle forme ritenute più adatte alle attuali aspirazioni ed in special modo alle ansie ed alle inquietudini degli Italiani. 

E’ interessante notare che - entrando in contatto con l’incandescente problema dell’immigrazione - l’ideologia nazionalista, fortemente presente nel patrimonio genetico di Fratelli d’Italia come diretta eredità del MSI, ha progressivamente mutuato molti dei caratteri propri del “nativismo”[14]

Parliamo di una ideologia che assegna una indiscussa primazia alla “nazione” intesa come l’insieme dei membri di un gruppo autoctono e considera «gli elementi non autoctoni (persone e idee) […] fondamentalmente minacciosi per l’omogeneità dello Stato nazionale»[15].

Si tratta perciò di una forma illiberale di nazionalismo che «include ed esclude dalla appartenenza alla comunità nazionale (a quella comunità che merita di essere rappresentata e difesa) non sulla base di uno status giuridico come la cittadinanza, ma sulla base di caratteri come l’etnia, la razza o la religione, oppure condiziona l’acquisizione della cittadinanza al possesso dei medesimi caratteri»[16]

Se le mirabolanti e impraticabili promesse di risolvere il problema dell’immigrazione clandestina attraverso un fantomatico “blocco navale” si sono subito rivelate una serenata elettorale per i gonzi e sono state rapidamente accantonate e messe nel dimenticatoio, il fondo melmoso di un nazionalismo venato di nativismo è rimasto ad impedire una seria politica dell’immigrazione, suggerendo soluzioni ottusamente rigide ed esclusivamente connotate da pregiudiziali atteggiamenti di rifiuto e di ostilità. 

Affrontare il problema migratorio al di fuori di schemi ideologici preconcetti significa coniugare il comprensibile impegno a disciplinare e contenere i flussi migratori nel quadro delle regole del diritto internazionale e dell’Unione europea con politiche di insegnamento della lingua, di formazione e di impiego degli immigrati presenti sul territorio nazionale. 

Una scelta, questa, destinata a sottrarre queste persone alla marginalità sociale ed ai richiami della criminalità organizzata. 

Sta prevalendo invece un nazionalismo illiberale, che per un verso è contrario a quesiti referendari miranti a ridurre il tempo di permanenza nel Paese necessario per ottenere la cittadinanza e, per altro verso, si oppone anche al cosiddetto ius scholae, cioè ad una normativa che faccia derivare il riconoscimento della cittadinanza al conseguimento di un certo livello di istruzione scolastica. 

E’ soprattutto sul problema dell’immigrazione e sul desiderio di attuare una remigrazione degli stranieri presenti sul suolo nazionale che, nella nuova destra, nazionalismo e populismo si fondono dando vita a politiche proprie di un nazionalismo dogmatico e intollerante che reagisce con veemenza alle decisioni giudiziarie che lo smentiscono dovendo tener conto dei principi del diritto internazionale e delle norme dell’Unione Europea. 

Dunque, anche su questo terreno, come già sui piani delle riforme costituzionali e del diritto penale, la pretesa moderazione del governo Meloni si rivela una cortina fumogena destinata a dissolversi rapidamente lasciando in evidenza il nocciolo duro, populista e nativista, della linea del governo. 

Traendo diretta ispirazione dalla cultura della destra missina il governo Meloni si sta dunque attivamente adoperando per imprimere una curvatura illiberale ed autoritaria al quadro istituzionale del Paese. 

In questo contesto, l’accettazione del metodo democratico convive con l’avversione verso tratti propri della democrazia liberale -il rigoroso rispetto della separazione dei poteri, la tutela dei diritti delle minoranze e la salvaguardia dello Stato di diritto – e punta a deprimere ulteriormente il ruolo del parlamento in favore di un accentramento dei poteri nell’esecutivo e nel suo capo. 


 
[1] Sul carattere “afascista” del partito di Fratelli d’Italia si soffermano S. Vassallo e R. Vignati, in Fratelli di Giorgia, Il partito della destra nazional conservatrice, Bologna, Il Mulino, 2023. Sulle vicende della destra italiana e sulle trasformazioni dei suoi partiti cfr. M. Tarchi, Le tre età della fiamma: la destra in Italia da Giorgio Almirante a Giorgi Meloni, Milano, Solferino, 2024.

[2] Sul tema cfr. R. Romboli, Magistratura e politica dalla finestra del Csm. I progetti di revisione costituzionale e la pratica di delegittimazione della magistratura, in Questione giustizia on line, 11.6.2025, ora anche nel n. 1/2 della Trimestrale di Questione giustizia, La riforma costituzionale della magistratura; N. Rossi, CSM separati e formati per sorteggio. Una riforma per scompaginare il governo autonomo, in Questione giustizia on line 10.6.2025, ora anche nel n. 1/2 della Trimestrale di Questione giustizia, La riforma costituzionale della magistratura, e bibliografia ivi citata.

[3] Nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge si affermava inoltre che «le gravissime deformazioni correntizie dei vari sistemi elettorali avvicendatisi per l’organo di autogoverno dei magistrati si sormontano soltanto con una riforma radicale: il ricorso al sorteggio tra i candidati appartenenti all’ordine giudiziario». Con analoghe motivazioni furono poi proposti altri due progetti di modifica della Costituzione: il disegno di legge di revisione costituzionale «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» (C. 4275 del 7 aprile 2011) e il d.d.l. presentato dai Senatori Buemi ed altri «Modifica dell’art. 104 della Costituzione per l’elezione dei componenti del Consiglio Superiore della magistratura mediante sorteggio» (S.1547 del 30 giugno 2014).

[4] Nella relazione di accompagnamento di tale proposta si leggeva che «[…] i giudici non hanno esigenza di avere alcuna associazione di difesa della categoria perché essi si autogovernano» e si sosteneva l’opportunità di «un provvedimento legislativo che preveda per gli appartenenti all’ordine giudiziario di non poter essere iscritti a partiti politici e neanche ad organizzazioni di categoria che, bisogna riconoscere, hanno finito con l’assumere ispirazioni politiche».

[5] Vedi le dichiarazioni del Senatore Marcello Pera riportate nell’articolo a firma di Valentina Stella, E Pera svegliò l’aula «Non mi fido di procure che vanno a simpatie», in Il Dubbio, 10.7.2025.

[6] Su questi temi mi sia consentito rinviare al mio scritto Il premier “pigliatutto” e lo squilibrio dei poteri, in Questione giustizia on line 21 maggio 2024.

[7] Il riferimento è alla legge 21 dicembre 2005, n. 270 «Modifiche alle norme per l’elezione della camera dei deputati e del Senato della Repubblica», nota alle cronache come Porcellum.

[8] A. Algostino, I diritti speciali dell’amico e del nemico: un diritto penale contro la Costituzione, in Questione giustizia on line, 8.4.2025, p. 9. Anticipazione del n. 3 del 2025 della Trimestrale di Questione giustizia.

[9] A. Algostino, ibidem, pp. 8-9.

[10] A. Algostino, ibidem, p. 1.

[11] M. Pellissero, La tutela penale della sicurezza pubblica. Una costante ossessione, in Questione giustizia on line, 16.7.2025, pp. 4 e ss. Anticipazione del n. 3 del 2025 della Trimestrale di Questione giustizia.

[12] G. Azzariti, Democrazia e sicurezza, in Questione giustizia on line, 9.4.2025, p. 1. Anticipazione del n. 3 del 2025 della Trimestrale di Questione giustizia.

[13] Nel decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48 – cd. “decreto sicurezza” – recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario (convertito nella legge 9 giugno 2025, n. 80): 
a) si prevede la tutela legale per gli appartenenti alle forze di polizia, al corpo nazionale dei Vigili del fuoco e alle forze armate indagati o imputati per fatti connessi alle attività di servizio (lo Stato potrà corrispondere fino a 10 mila euro per le spese legali in ciascuna fase del procedimento; la rivalsa è prevista qualora venga accertata la responsabilità del dipendente a titolo di dolo ed è invece esclusa in caso di sentenza di non luogo a procedere, per intervenuta prescrizione, per archiviazione e negli altri casi di proscioglimento, salvo che per i fatti contestati in sede penale sia stata accertata la responsabilità del dipendente per grave negligenza in sede disciplinare); 
b) viene introdotta una circostanza aggravante del delitto di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza con l’aumento di pena fino alla metà (invece di un terzo); 
c) gli agenti sono anche autorizzati a portare armi private senza licenza quando non sono in servizio.

[14] Nativismo che, si badi, non costituiva invece un tratto caratteristico di Alleanza nazionale, classificata come «un partito conservatore, in cui né il nativismo né il populismo sono preminenti» secondo C. Mudde, Populist Radical Right Parties in Europe, Cambridge, Cambridge University Press, Cambridge, p. 56.

[15] Così C. Mudde, Populist Radical Right Parties in Europe [...], op. cit., p. 19.

[16] C. Mudde, Populist Radical Right Parties in Europe […], op. cit., ibidem.

26/09/2025
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L’estremismo istituzionale del governo Meloni. Una rivincita degli “esclusi”?

Una accorta politica economica dei “conti in ordine” e l’equilibrismo della presidente del Consiglio tra le simpatie ideologiche per l’amministrazione Trump e la volontà di non perdere contatto con l’Unione europea sulla crisi ucraina, hanno guadagnato al governo Meloni un’immagine di moderazione, smentendo molte delle preoccupazioni e delle apocalittiche previsioni emerse alla vigilia del suo insediamento. Una immagine che è stata solo marginalmente scalfita dagli interventi di Giorgia Meloni successivi all’omicidio Kirk, nei quali, dimenticando di essere la presidente del Consiglio di tutti gli italiani, non ha esitato ad addebitare alla sinistra italiana immaginarie minacce presenti ed esclusive responsabilità per gli odi, gli scontri e le vittime degli anni di piombo. Quando però si mette sotto la lente di ingrandimento la politica istituzionale del governo, l’immagine di misura, di equilibrio, di cautela svanisce e cede il posto ad un dichiarato oltranzismo ed a scelte improntate all’estremismo ed al revanscismo istituzionale e costituzionale. Tratti, questi, che non provengono dal fascismo (per molti aspetti il governo Meloni è infatti compiutamente afascista) ma dall’humus culturale profondamente autoritario del Movimento Sociale Italiano degli anni 70 e 80 guidato da Giorgio Almirante. Ad ispirare le riforme costituzionali propugnate dal governo è infatti la cultura – ereditata dal partito di Fratelli d’Italia - degli “esclusi” dall’elaborazione del patto costituzionale, i quali, pur collocando la loro azione politica nell’alveo della competizione democratica, si sono sempre sentiti “estranei” ai valori ed agli equilibri culturali ed istituzionali cristallizzati nel testo della carta fondamentale e si sono posti come avversari della Resistenza e delle forze politiche che hanno cooperato alla costruzione nel Paese della Repubblica democratica. La genealogia delle riforme costituzionali e della politica del diritto perseguita dal governo consente di cogliere nitidamente le eredità del passato, gli elementi di voluta continuità con le idee e le proposte istituzionali dell’estrema destra della prima Repubblica e l’ostilità verso alcuni degli istituti più caratterizzanti della nostra Costituzione. Questo oltranzismo istituzionale e costituzionale - che smentisce i giudizi sulla moderazione dell’attuale governo e suscita vive preoccupazioni sulla tenuta futura del quadro democratico – è tanto più inquietante in quanto esso è frutto di una volontà di rivincita sulla Costituzione e sulla storia istituzionale repubblicana del “polo escluso”, esprimendo la volontà di capovolgere regole e principi fondanti della democrazia repubblicana. L’analisi dei progetti di riforma costituzionale – assetto della magistratura e premierato – e della politica del governo sul versante del diritto penale e dell’immigrazione consente di illustrare gli aspetti di revanscismo della linea politica perseguita dalla maggioranza di destra.

26/09/2025
La riforma costituzionale della magistratura. Il testo approvato, le perduranti incognite, i naturali corollari

Con l’approvazione in Senato del testo del ddl costituzionale “Meloni-Nordio” sull’ordinamento giurisdizionale, l’itinerario della riforma costituzionale della magistratura sembra segnato. 
A meno di incidenti di percorso e di improbabili ripensamenti della maggioranza di governo, la doppia spoletta Camera/Senato prevista dall’art. 138 della Costituzione si concluderà nel corso del 2025 o all’inizio del 2026 e si giungerà, nella primavera del 2026, al referendum confermativo. 
Un referendum voluto da quanti si sono dichiarati contrari alla revisione costituzionale, ma invocato anche da coloro che hanno intenzione di suggellare la “riforma” con il successo ottenuto in una campagna referendaria da vivere come un’ordalia. 
Sono molte le lacune del testo approvato dal Senato e le “incognite” sull’impianto finale del governo della magistratura: il “numero” dei componenti togati dei due Consigli; le “procedure” da adottare per il loro sorteggio; le modalità di votazione in Parlamento dell’elenco dei membri laici dei due Consigli e le maggioranze richieste; l’assetto della giustizia disciplinare dei magistrati e l’esclusività o meno, in capo al Ministro della giustizia, del potere di iniziativa disciplinare. 
Imponente è poi la cascata di corollari scaturenti dalla “validazione” del teorema riformatore. 
L’incertezza sul destino ultimo del pubblico ministero, sul quale già si dividono, nelle fila della destra, farisei e parresiasti; la diminuita legittimazione e forza istituzionale dei Consigli separati e sorteggiati; gli effetti riflessi della scelta del sorteggio per la provvista dei Csm sui Consigli giudiziari e su tutto il circuito di governo autonomo della magistratura: ecco solo alcuni degli aspetti dell’ordinamento della magistratura che verranno rimessi in discussione dalla revisione costituzionale. 
Sul vasto campo di problemi posti dalla riforma era necessaria una riflessione ampia e approfondita.
Ed è quanto Questione giustizia ha cercato di fare in questo numero doppio, 1-2 del 2025, straordinariamente denso, ricco di contributi di accademici, magistrati, avvocati, che si propone anche come il background da cui far emergere messaggi semplici, chiari e persuasivi da trasmettere ai cittadini nel corso dell’eventuale campagna referendaria. 

23/07/2025
Il no alla separazione delle carriere con parole semplici: un tentativo

La foglia di fico della separazione delle carriere, perseguita per via costituzionale, cela l’autentico obiettivo della riforma: l’indebolimento dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici nel loro ruolo di interpreti della legge, in termini conformi a Costituzione e trattati internazionali. Tuttavia, un’analisi delle ragioni a favore della separazione delle carriere ne svela incongruenze e ipocrisie e, persino, un certo anacronismo argomentativo, alla luce delle progressive riforme che hanno cambiato il volto e il ruolo delle indagini preliminari. Mentre l’analisi prospettica dei pericoli sottesi alla separazione delle carriere, dovrebbe mettere sull’allerta i cultori del diritto penale liberale, molti dei quali appaiono accecati dall’ideologia separatista e sordi ai rumori del tempo presente che impongono di inquadrare anche questa riforma nel contesto più generale della progressiva verticalizzazione dei rapporti tra istituzioni democratiche, insofferente ai bilanciamenti dei poteri che fondano la Carta costituzionale.

30/06/2025
Csm separati e formati per sorteggio. Una riforma per scompaginare il governo autonomo

L’iter della riforma costituzionale della magistratura procede verso l’approvazione definitiva, in doppia lettura, del disegno di legge di revisione costituzionale entro il 2025 e lo svolgimento del prevedibile referendum confermativo nel 2026.
Per quanto indesiderabile e foriera di conseguenze negative per le garanzie dei cittadini, la formale e definitiva separazione delle carriere, nei fatti già realizzata, avrebbe potuto essere sancita anche con una legge ordinaria. Ma le mire della maggioranza di governo si sono rivelate ben più vaste e ambiziose di questo risultato, mostrando di avere come ultimo e decisivo bersaglio la disarticolazione e il depotenziamento del modello di governo autonomo della magistratura, voluto dai Costituenti a garanzia “forte” dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati.
La realizzazione di questo obiettivo viene affidata al ripudio del metodo democratico e al ricorso alla sorte per la formazione dei due Consigli superiori separati e dell’Alta Corte, il nuovo giudice disciplinare dei magistrati ordinari. Con una totale inversione di segno rispetto alla Costituzione del 1947, si rinuncia alla selezione derivante dalle elezioni in nome della casualità, si rifiuta il discernimento in favore della cecità di un’estrazione a sorte, si sceglie di cancellare il sistema fondato sulla rappresentanza, ritenuto inutile e dannoso, per far emergere casualmente dal corpo della magistratura i soggetti destinati ad amministrarla. Sostituire il caso all’elezione dei “governanti”, spezzando il nesso democratico tra amministratori  e amministrati, significa porre in essere una enorme rottura culturale, politica e istituzionale con l’esperienza storica del governo autonomo della magistratura e con l’equilibrio tra i poteri disegnato nella Costituzione. Ed è forte il rischio che negli organismi del governo autonomo, nati dal caso e formati in base al principio  per cui  “l’uno vale l’altro”, rivivrà una concezione della magistratura come corpo indistinto di funzionari, portatori di elementari interessi di status e di carriera, cui ciascuno di essi può attendere in nome e per conto degli altri senza bisogno di scelte o investiture rappresentative.
I cittadini sbaglierebbero a ritenere che l’involuzione corporativa e burocratica determinata dal sorteggio sia un affare interno della magistratura. Consigli superiori sminuiti dall’estrazione a sorte dei loro membri sarebbero più deboli e condizionabili nella difesa dell’indipendenza della magistratura. E di questa minore indipendenza pagherebbero il prezzo i ceti più deboli e le persone prive di potere e di ricchezza. 

10/06/2025