Magistratura democratica
Editoriali

La riforma costituzionale della magistratura. Il testo approvato, le perduranti incognite, i naturali corollari *

di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia

Con l’approvazione in Senato del testo del ddl costituzionale “Meloni-Nordio” sull’ordinamento giurisdizionale, l’itinerario della riforma costituzionale della magistratura sembra segnato. 
A meno di incidenti di percorso e di improbabili ripensamenti della maggioranza di governo, la doppia spoletta Camera/Senato prevista dall’art. 138 della Costituzione si concluderà nel corso del 2025 o all’inizio del 2026 e si giungerà, nella primavera del 2026, al referendum confermativo. 
Un referendum voluto da quanti si sono dichiarati contrari alla revisione costituzionale, ma invocato anche da coloro che hanno intenzione di suggellare la “riforma” con il successo ottenuto in una campagna referendaria da vivere come un’ordalia. 
Sono molte le lacune del testo approvato dal Senato e le “incognite” sull’impianto finale del governo della magistratura: il “numero” dei componenti togati dei due Consigli; le “procedure” da adottare per il loro sorteggio; le modalità di votazione in Parlamento dell’elenco dei membri laici dei due Consigli e le maggioranze richieste; l’assetto della giustizia disciplinare dei magistrati e l’esclusività o meno, in capo al Ministro della giustizia, del potere di iniziativa disciplinare. 
Imponente è poi la cascata di corollari scaturenti dalla “validazione” del teorema riformatore. 
L’incertezza sul destino ultimo del pubblico ministero, sul quale già si dividono, nelle fila della destra, farisei e parresiasti; la diminuita legittimazione e forza istituzionale dei Consigli separati e sorteggiati; gli effetti riflessi della scelta del sorteggio per la provvista dei Csm sui Consigli giudiziari e su tutto il circuito di governo autonomo della magistratura: ecco solo alcuni degli aspetti dell’ordinamento della magistratura che verranno rimessi in discussione dalla revisione costituzionale. 
Sul vasto campo di problemi posti dalla riforma era necessaria una riflessione ampia e approfondita.
Ed è quanto Questione giustizia ha cercato di fare in questo numero doppio, 1-2 del 2025, straordinariamente denso, ricco di contributi di accademici, magistrati, avvocati, che si propone anche come il background da cui far emergere messaggi semplici, chiari e persuasivi da trasmettere ai cittadini nel corso dell’eventuale campagna referendaria. 

Sommario: 1. L’itinerario della riforma costituzionale della magistratura / 2. Il testo approvato: il contributo di analisi di Questione giustizia / 3. Le perduranti incognite / 4. Il primo corollario: il destino del pubblico ministero / 5. Una cascata di ulteriori effetti collaterali della riforma 

 

1. L’itinerario della riforma costituzionale della magistratura

Dopo l’approvazione in Senato del testo del disegno di legge costituzionale “Meloni-Nordio”, recante «Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare», l’itinerario della riforma costituzionale della magistratura – alla quale è dedicato questo numero monografico – sembra segnato. 

A meno di incidenti di percorso e di improbabili ripensamenti della maggioranza di governo, la doppia spoletta Camera/Senato prevista dall’art. 138 della Costituzione si concluderà nel corso del 2025 o all’inizio del 2026 e quasi certamente si giungerà, nella primavera del 2026, al referendum confermativo. 

Referendum che sarà voluto da coloro che alla riforma si sono dichiarati contrari, che auspicheranno una smentita dei cittadini all’operato della maggioranza di destra, ma è sin d’ora invocato anche da coloro che, dopo aver approvato la revisione del testo costituzionale, hanno intenzione di suggellarla con il successo ottenuto in una campagna referendaria da vivere come un’ordalia. 

È facile prevedere che i sostenitori del progetto di revisione costituzionale non avranno remore a presentare – impropriamente – il referendum come un giudizio popolare sul (cattivo) funzionamento della giustizia, dando vita a una campagna mediatica all’insegna della denigrazione sistematica e della delegittimazione della magistratura, senza curarsi delle macerie istituzionali che resteranno sul campo al termine della contesa. 

Si vedrà se l’aspirazione ad ottenere un plebiscito “contro” la magistratura avrà successo o se resterà frustrata, come è avvenuto per altri ambiziosi progetti di “rivoltare” la Costituzione. 

È certo, comunque, che l’offensiva frontale lanciata alle regole dettate dalla Costituzione in tema di assetto del giudiziario merita di essere analizzata a fondo nella sua matrice culturale e nelle sue numerose implicazioni istituzionali. 

Così come vanno antivisti i danni collaterali causati dalle nuove norme e ricercati i possibili antidoti a una riforma dal chiaro taglio punitivo. 

 

2. Il testo approvato: il contributo di analisi di Questione giustizia 

È quanto Questione giustizia ha cercato di fare in questo numero monografico doppio, 1-2/2025, curato da chi scrive, diviso in tre parti. 

La prima parte è riservata a scritti specificamente destinati al numero della Trimestrale, che analizzano i principali contenuti del disegno di legge costituzionale: la separazione delle carriere giudicante e requirente; la parallela separazione dei Consigli superiori; la provvista mediante sorteggio dei membri togati e dei componenti laici dei due organi; l’istituzione, per i soli magistrati ordinari, di un nuovo giudice disciplinare, l’Alta Corte; le leggi di attuazione della riforma. 

La seconda parte raccoglie le analisi e le riflessioni sui temi della riforma già pubblicate su Questione giustizia, nonché alcuni contributi di studio apparsi sulla rivista Sistema penale e gli interventi svolti in convegni e seminari. 

Nella terza parte, infine, sono pubblicati i testi di molte delle audizioni parlamentari che si sono svolte alla Camera e al Senato sui disegni di legge di revisione costituzionale dell’ordinamento giurisdizionale. 

Ne emerge un quadro di opinioni molto denso e ricco, che costituisce una solida base di conoscenza e di valutazione della riforma, utile per i magistrati e gli studiosi di diritto, ma anche, in prospettiva, per un pubblico colto ma non specialista, che voglia comprendere le caratteristiche, i limiti e le insidie del mutamento proposto. 

Ed è sempre da questo retroterra di pensieri e di analisi critiche che potranno scaturire i messaggi semplici – ma non scorretti o, peggio, ingannevoli – da comunicare ai cittadini nel corso della eventuale campagna del referendum confermativo, per far comprendere la reale posta in gioco e i pericoli di una cattiva riforma. 

 

3. Le perduranti incognite

A un lettore attento non sfugge che sono molte le lacune del testo approvato dal Senato e le incognite che da esse discendono sul disegno finale del governo della magistratura. 

Come è noto, sarà la legge ordinaria a stabilire il “numero” dei componenti togati dei due Consigli e le “procedure” da adottare per il sorteggio. 

Spetterà dunque al Parlamento dare risposta ai numerosi interrogativi posti da un metodo di provvista dei Consigli “cieco”, perché affidato al caso. 

Sarà garantita – e in che termini? – una qualche parità di genere tra i consiglieri togati? 

E ancora: sarà possibile realizzare una composizione del Consiglio che nella sua componente togata rispecchi i diversi territori del Paese, con tutte le loro innegabili peculiarità, o si rischieranno tutti i potenziali squilibri derivanti dall’estrazione a sorte dei togati? 

Le incognite riguardanti i consiglieri togati crescono quando si volge lo sguardo ai meccanismi di scelta dei consiglieri laici. 

Nulla è detto nel testo approvato dalle Camere sulle dimensioni dell’elenco di professori ordinari e di avvocati compilato dal Parlamento in seduta comune dal quale dovranno essere estratti a sorte i componenti laici dei due Consigli superiori. 

È evidente che prevedere per legge ordinaria un elenco ristretto di professori e avvocati sorteggiabili significherebbe alterare, per i soli membri laici, la logica del sorteggio, accentuando l’asimmetria tra togati e laici già derivante dal sorteggio “secco” adottato per i primi e “temperato” voluto per i secondi. 

Vi è poi il silenzio del Legislatore costituente sulle maggioranze parlamentari necessarie per l’approvazione dell’elenco dei sorteggiabili compilato dal Parlamento e sulle modalità delle votazioni (per singoli nomi o a pacchetto?). 

Se per tale approvazione non fosse prevista, nella legge ordinaria, una maggioranza qualificata, la componente laica dei Consigli potrebbe essere interamente determinata dalla maggioranza di governo, con un gravissimo vulnus agli equilibri istituzionali e all’indipendenza della magistratura. 

Un rischio, questo, che avrebbe potuto essere definitivamente scongiurato solo dalla previsione, nel testo di revisione costituzionale, di maggioranze qualificate per l’elezione dei componenti laici del Consiglio superiore. 

Quando, poi, si passa all’esame delle norme riguardanti l’assetto della giurisdizione disciplinare si constata che, anche in quest’ambito, non mancano i silenzi e i vuoti. 

In primo luogo, resta immutata la previsione dell’art. 107 Cost., che assegna al Ministro della giustizia l’iniziativa disciplinare, mentre nulla si dice sull’attribuzione a un altro organo, interno alla giurisdizione, di un potere di iniziativa disciplinare concorrente con quello del Ministro, come avviene nell’attuale ordinamento per la Procura generale presso la Corte di cassazione. 

Anche qui le domande non sono poche e, a volte, risultano inquietanti. 

Il legislatore ordinario sceglierà di riservare al Ministro della giustizia l’esclusività dell’iniziativa disciplinare o affiancherà all’organo politico organismi tecnici di nuovo conio, investiti del potere – parallelo e concorrente – di esercitare l’azione disciplinare nei confronti di giudici e pubblici ministeri? 

E quali saranno le garanzie di indipendenza e di autorevolezza tecnica di tali organi che li mettano nella condizione di costituire, come è avvenuto sino ad ora per la Procura generale, un valido complemento all’iniziativa ministeriale, normalmente più attenta ai casi e alle questioni di rilievo politico o mediatico? 

Infine, ma non certo da ultimo, si porrà il tema del diritto a ricorrere per cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione avverso le sentenze rese nel duplice giudizio di merito dinanzi all’Alta Corte disciplinare. 

Questione certamente non facile e da discutere e analizzare con cura, ma sulla cui soluzione dovrà pesare sia l’indiscussa natura giurisdizionale del giudizio disciplinare e delle decisioni in esso emesse (che sono a tutti gli effetti “sentenze”), sia la formulazione perentoria dell’art. 111, sesto comma, Cost., che ammette «sempre» il ricorso in Cassazione per violazione di legge avverso le «sentenze».

 

4. Il primo corollario: il destino del pubblico ministero

In attesa degli ulteriori passaggi – in sede parlamentare e referendaria – della normativa riformatrice, non è azzardato immaginare il futuro, volgendo lo sguardo al complesso di conseguenze che potrebbero scaturire dalla definitiva entrata in vigore del testo approvato dalle Camere. 

È evidente che, con l’approvazione definitiva della riforma, si sarebbe di fronte a una vera e propria mutazione genetica dell’ordinamento giurisdizionale, destinata a incidere non solo sulle “carriere” e sul “governo” della magistratura, ma anche sull’intera “organizzazione giudiziaria” e sull’“associazionismo” dei magistrati oltre che sulla loro “giurisdizione disciplinare”. 

Limitiamoci qui solo ad alcune sintetiche notazioni sulla cascata di corollari potenzialmente scaturente dalla “validazione” del teorema riformatore. 

Il primo di essi riguarda il destino del pubblico ministero. 

Se è vero che nel testo del ddl di revisione costituzionale non è intaccata l’autonomia dall’Esecutivo del corpo dei pubblici ministeri, è legittimo temere che, una volta approvata la riforma, la sorte dei magistrati dell’accusa sarà subito al centro di forti tensioni. 

Duemila “samurai senza padrone”, dotati di un organo di governo di rilievo costituzionale, daranno vita a un autonomo potere di accusa dello Stato che non ha né precedenti né eguali in altri ordinamenti liberaldemocratici e rischierà di dar vita a squilibri istituzionali e a reazioni miranti a limitarne l’azione e la libertà di manovra. 

E infatti gli attuali sostenitori della riforma si dividono già tra farisei e parresiasti. 

I primi sono prodighi di messaggi genericamente rassicuranti sull’indipendenza futura del pubblico ministero, talvolta conditi da irrilevanti, e perciò patetici, impegni personali, mentre i parresiasti non esitano a smascherare l’ipocrisia dei loro colleghi parlamentari, invocando apertamente – come fa il Senatore Marcello Pera – «una politica criminale determinata univocamente da un organo di vertice» contrapposta al caos in cui «ciascun pubblico ministero, se non ciascuna Procura, è libera di fare ciò che crede, di perseguire i reati che crede, di fare la politica criminale che crede». 

È chiaro che – nel disegnare l’allarmante alternativa tra il caos e il controllo di un “organo di vertice” sui pubblici ministeri e sull’esercizio dell’azione penale – i parresiasti fanno leva su di una grave inadempienza istituzionale: la mancata adozione di una legge del Parlamento sui “criteri di priorità”, diretta a garantire l’efficace ed uniforme esercizio dell’azione penale previsto dalla legge delega n. 134 del 27 settembre 2021. 

Ma è anche su questi interessati “vuoti” istituzionali, oltre che sui casi spinosi e controversi che nella giurisdizione non mancano mai, che si potrà imbastire una campagna di aggressione e di discredito sul corpo separato e “irresponsabile” dei pubblici ministeri, mirante a ricondurli nella sfera di responsabilità dell’Esecutivo.

 

5. Una cascata di ulteriori effetti collaterali della riforma

Al primo corollario si affianca poi una miriade di effetti collaterali dell’intervento di revisione costituzionale. 

Proviamo ad elencarli. 

 Venendo meno l’investitura democratica e la rappresentatività dei membri togati, non più eletti ma sorteggiati, sarebbero minori la legittimazione e il peso istituzionale dei due organi di governo autonomo che sostituirebbero il Consiglio superiore unitario. 

E i primi a rimarcare il deficit di rappresentatività sarebbero proprio gli esponenti delle forze politiche che hanno voluto il sorteggio come metodo di provvista dei Consigli. 

Inoltre, la minore forza istituzionale dei due Consigli separati e dimidiati potrebbe recare con sé una diminuita capacità di difesa dell’autonomia e dell’indipendenza delle magistrature

Già oggi la relativa debolezza istituzionale del Consiglio superiore, frutto di una pluriennale e incessante campagna di stampa denigratoria, si è tradotta nella minore propensione a promuovere “pratiche a tutela” dei magistrati, anche quando sono oggetto di durissimi attacchi e di vere e proprie intimidazioni da parte della politica. 

Nei Consigli dei sorteggiati le timidezze potrebbero essere ancora maggiori, tanto sulla tutela dell’indipendenza quanto sulla meditata e rigorosa difesa della libertà di manifestazione del pensiero di giudici e pubblici ministeri. 

Al minore impegno per la salvaguardia dell’indipendenza potrebbe poi fare da pendant una ridotta attitudine dei Consigli scaturiti dalla casualità del sorteggio, a promuovere l’innovazione istituzionale.

Nella vulgata ossessivamente riproposta dalla stampa di destra, la storia del Consiglio superiore viene rappresentata come una ininterrotta sequela di operazioni corporative, clientelari e correntizie. 

Non è così. Al contrario, sono state molte le innovazioni istituzionali promosse dal Csm al fine di rendere più corretta e trasparente l’amministrazione della giurisdizione. 

Si pensi, a solo titolo di esempio, alla pubblicità del giudizio disciplinare (prima adottata dal Consiglio e poi recepita dal legislatore) o alla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla sezione disciplinare del Csm, che ha reso possibile la difesa del magistrato incolpato da parte di avvocati del libero foro. 

E ancora all’impegno per l’applicazione, negli uffici giudicanti, del cd. sistema tabellare, posto a garanzia dell’indipendenza interna dei magistrati e dell’imparzialità dei giudizi, o alla complessa operazione del decentramento amministrativo del circuito del governo autonomo, dapprima attuata in via amministrativa dal Csm e poi tradotta in legge. 

Gli esempi potrebbero continuare, ricordando l’attuazione di iniziative di formazione dei magistrati che si è conclusa con il passaggio di testimone alla Scuola superiore della magistratura e le molteplici iniziative di dialogo e di collaborazione con le altre istituzioni operanti nel mondo della giustizia. 

I Consigli dei sorteggiati – nel cui momento genetico sarebbero assenti programmi, proposte, confronti su diverse idee dell’organizzazione giudiziaria – saranno ancora capaci di muoversi proficuamente su questi piani decisivi per un governo efficace e lungimirante della magistratura?

O ripiegheranno sul piccolo cabotaggio, divenendo modesti uffici di gestione del personale? 

Più in generale, i nuovi Consigli incontrerebbero crescenti difficoltà nella realizzazione di una loro fondamentale funzione: l’esercizio di una consapevole e responsabile discrezionalità nelle scelte da compiere in tema di organizzazione giudiziaria e di nomina dei dirigenti degli uffici. 

E ciò avvalorando e accentuando tendenze negative già ora in atto. 

Si noti che la prima reazione del Csm indebolito dallo scandalo “Palamara” è stata quella di introdurre, per la nomina dei dirigenti, un sistema particolarmente stringente di regole e punteggi, che ha prodotto due discutibili effetti: accrescere il potere del giudice amministrativo, che ha avuto più spazio nel rilevare contrasti tra singole regole e le scelte effettuate dal Csm, e indicare con precisione ai magistrati “carrieristi” l’itinerario da percorrere per scalare i gradi della carriera. 

Alla meditata valutazione discrezionale di percorsi professionali complessi – fondamentale prerogativa del Csm – si sono, così, troppo spesso sostituiti conteggi di titoli formali e sommatorie di incarichi ricoperti, secondo la logica di una carriera burocratica che peraltro trova un’eco profonda nella mentalità e nella cultura del giudice amministrativo. 

Sotto altro profilo, l’opzione del sorteggio per la provvista dei due Consigli superiori sarebbe destinata a riverberare i suoi effetti su tutto il circuito del governo autonomo delle magistrature. 

È infatti difficile ipotizzare che, ove i Csm venissero formati per sorteggio, potrebbero rimanere in vita consigli giudiziari operanti nelle corti d’appello e un Consiglio direttivo della Corte di cassazione “eletti” dai magistrati. 

In forza dell’elezione, tali organismi risulterebbero effettivamente più legittimati dei Consigli superiori, di cui sono organi ausiliari. 

Con ogni probabilità, il sorteggio diverrebbe il metodo di provvista generale di tutti gli organismi che compongono il circuito di amministrazione della giurisdizione, esercitando su larga scala il suo effetto di depotenziamento istituzionale. 

Infine, non c’è dubbio che la riforma – recidendo il legame storico tra associazionismo dei magistrati e governo autonomo della magistratura realizzato attraverso le elezioni del Csm – abbia l’obiettivo di frammentare e atomizzare la magistratura e di privare di vigore la sua vivace realtà associativa. 

Interrogarsi sul futuro di un associazionismo “dissociato” – per effetto del sorteggio – dall’amministrazione della giurisdizione apre un inedito campo di problemi che è prematuro affrontare oggi, mentre la vicenda legislativa della riforma è ancora in itinere ed è incerto l’esito dell’eventuale referendum confermativo. 

Ma si può dire sin d’ora che sono malriposte le speranze di chi pensa di infliggere – con la separazione delle carriere e con il sorteggio – un colpo duro e decisivo all’associazionismo dei magistrati, che dalla sua storia e dalle sue radici ideali saprà comunque trarre la linfa necessaria a vivere anche in un mutato ambiente istituzionale.

 

Nello Rossi

Luglio 2025

 

 

[*]

Il testo è l'editoriale al n. 1-2/2025 di Questione giustizia trimestrale dedicato alla riforma costituzionale della magistratura

23/07/2025
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Con l’approvazione in Senato del testo del ddl costituzionale “Meloni-Nordio” sull’ordinamento giurisdizionale, l’itinerario della riforma costituzionale della magistratura sembra segnato. 
A meno di incidenti di percorso e di improbabili ripensamenti della maggioranza di governo, la doppia spoletta Camera/Senato prevista dall’art. 138 della Costituzione si concluderà nel corso del 2025 o all’inizio del 2026 e si giungerà, nella primavera del 2026, al referendum confermativo. 
Un referendum voluto da quanti si sono dichiarati contrari alla revisione costituzionale, ma invocato anche da coloro che hanno intenzione di suggellare la “riforma” con il successo ottenuto in una campagna referendaria da vivere come un’ordalia. 
Sono molte le lacune del testo approvato dal Senato e le “incognite” sull’impianto finale del governo della magistratura: il “numero” dei componenti togati dei due Consigli; le “procedure” da adottare per il loro sorteggio; le modalità di votazione in Parlamento dell’elenco dei membri laici dei due Consigli e le maggioranze richieste; l’assetto della giustizia disciplinare dei magistrati e l’esclusività o meno, in capo al Ministro della giustizia, del potere di iniziativa disciplinare. 
Imponente è poi la cascata di corollari scaturenti dalla “validazione” del teorema riformatore. 
L’incertezza sul destino ultimo del pubblico ministero, sul quale già si dividono, nelle fila della destra, farisei e parresiasti; la diminuita legittimazione e forza istituzionale dei Consigli separati e sorteggiati; gli effetti riflessi della scelta del sorteggio per la provvista dei Csm sui Consigli giudiziari e su tutto il circuito di governo autonomo della magistratura: ecco solo alcuni degli aspetti dell’ordinamento della magistratura che verranno rimessi in discussione dalla revisione costituzionale. 
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23/07/2025
Il no alla separazione delle carriere con parole semplici: un tentativo

La foglia di fico della separazione delle carriere, perseguita per via costituzionale, cela l’autentico obiettivo della riforma: l’indebolimento dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici nel loro ruolo di interpreti della legge, in termini conformi a Costituzione e trattati internazionali. Tuttavia, un’analisi delle ragioni a favore della separazione delle carriere ne svela incongruenze e ipocrisie e, persino, un certo anacronismo argomentativo, alla luce delle progressive riforme che hanno cambiato il volto e il ruolo delle indagini preliminari. Mentre l’analisi prospettica dei pericoli sottesi alla separazione delle carriere, dovrebbe mettere sull’allerta i cultori del diritto penale liberale, molti dei quali appaiono accecati dall’ideologia separatista e sordi ai rumori del tempo presente che impongono di inquadrare anche questa riforma nel contesto più generale della progressiva verticalizzazione dei rapporti tra istituzioni democratiche, insofferente ai bilanciamenti dei poteri che fondano la Carta costituzionale.

30/06/2025
Csm separati e formati per sorteggio. Una riforma per scompaginare il governo autonomo

L’iter della riforma costituzionale della magistratura procede verso l’approvazione definitiva, in doppia lettura, del disegno di legge di revisione costituzionale entro il 2025 e lo svolgimento del prevedibile referendum confermativo nel 2026.
Per quanto indesiderabile e foriera di conseguenze negative per le garanzie dei cittadini, la formale e definitiva separazione delle carriere, nei fatti già realizzata, avrebbe potuto essere sancita anche con una legge ordinaria. Ma le mire della maggioranza di governo si sono rivelate ben più vaste e ambiziose di questo risultato, mostrando di avere come ultimo e decisivo bersaglio la disarticolazione e il depotenziamento del modello di governo autonomo della magistratura, voluto dai Costituenti a garanzia “forte” dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati.
La realizzazione di questo obiettivo viene affidata al ripudio del metodo democratico e al ricorso alla sorte per la formazione dei due Consigli superiori separati e dell’Alta Corte, il nuovo giudice disciplinare dei magistrati ordinari. Con una totale inversione di segno rispetto alla Costituzione del 1947, si rinuncia alla selezione derivante dalle elezioni in nome della casualità, si rifiuta il discernimento in favore della cecità di un’estrazione a sorte, si sceglie di cancellare il sistema fondato sulla rappresentanza, ritenuto inutile e dannoso, per far emergere casualmente dal corpo della magistratura i soggetti destinati ad amministrarla. Sostituire il caso all’elezione dei “governanti”, spezzando il nesso democratico tra amministratori  e amministrati, significa porre in essere una enorme rottura culturale, politica e istituzionale con l’esperienza storica del governo autonomo della magistratura e con l’equilibrio tra i poteri disegnato nella Costituzione. Ed è forte il rischio che negli organismi del governo autonomo, nati dal caso e formati in base al principio  per cui  “l’uno vale l’altro”, rivivrà una concezione della magistratura come corpo indistinto di funzionari, portatori di elementari interessi di status e di carriera, cui ciascuno di essi può attendere in nome e per conto degli altri senza bisogno di scelte o investiture rappresentative.
I cittadini sbaglierebbero a ritenere che l’involuzione corporativa e burocratica determinata dal sorteggio sia un affare interno della magistratura. Consigli superiori sminuiti dall’estrazione a sorte dei loro membri sarebbero più deboli e condizionabili nella difesa dell’indipendenza della magistratura. E di questa minore indipendenza pagherebbero il prezzo i ceti più deboli e le persone prive di potere e di ricchezza. 

10/06/2025