Magistratura democratica
Tribuna aperta

La riforma costituzionale della magistratura *

di Michele Vietti
avvocato, già vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura

Tra i diversi profili coinvolti dall’attuale progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario, la questione della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri si impone come uno dei nodi più rilevanti e strutturalmente significativi.

Si tratta di un tema attorno al quale si sono ormai cristallizzate due rappresentazioni contrapposte, frequentemente alimentate da prospettive ideologiche o da esigenze di autodifesa dell’assetto vigente. Proprio per questo, risulta particolarmente utile tornarvi con uno sguardo il più possibile lucido e disincantato, nella prospettiva di un’analisi critica fondata su ragioni strutturali e non su appartenenze preconcette.

Assumo come mie le parole di Giovanni Conso, pronunciate nel 2009 durante un congresso dell’Unione delle Camere penali. In quell’occasione, Conso riconosceva di aver inizialmente guardato con scetticismo alla prospettiva della separazione delle carriere per via del legame con la propria formazione e con le tradizioni dell’ordinamento. Tuttavia, concludeva il proprio intervento affermando di considerare ormai tale riforma «ineluttabile, proprio ineluttabile»[1].

Tali considerazioni sembrano trovare un’eco in una riflessione altrettanto incisiva di Giovanni Falcone, frequentemente richiamata in relazione a questi temi e, anche in questo contesto, meritevole di essere evocata.

Falcone sottolineava come un autentico sistema accusatorio richieda che il pubblico ministero assuma pienamente il ruolo di parte processuale. Con estrema chiarezza, aggiungeva che, nel dibattimento, il pubblico ministero non deve intrattenere alcun legame, alcuna “parentela” con il giudice, e non può continuare a configurarsi, come di fatto ancora accade, quale sorta di “paragiudice”[2].

Anch’io, come Conso, mi considero un “pentito” su questo tema. Per lungo tempo ho pensato che la questione potesse essere elusa, ridimensionata, marginalizzata. Anch’io ho utilizzato – lo confesso – l’argomento che oggi molti magistrati ancora invocano, e che si ritrova anche nel recente parere del Consiglio superiore della magistratura: ossia il dato secondo cui la percentuale di magistrati che effettivamente cambiano funzione da requirente a giudicante (o viceversa) è talmente bassa da non giustificare un intervento normativo, tanto meno di rango costituzionale[3].

È vero: quel dato si attesta su percentuali quasi irrilevanti e, come tale, preso isolatamente, non avrebbe la forza per motivare una riforma strutturale.

Ma è proprio questo l’errore. Perché una cosa è il numero dei cambi di funzione, altra – ben diversa – è la questione del ruolo radicalmente differente che giudici e pubblici ministeri oggi rivestono, soprattutto nel contesto del processo penale, che definiamo “nuovo” ma che tale non è più.

Nel modello attuale, segnato da tratti di debolezza strutturale e da una configurazione ibrida, la parità tra le parti rimane più una dichiarazione di principio che una realtà effettiva.

Il pubblico ministero, infatti, riveste il ruolo di capo della polizia giudiziaria, dispone di strumenti investigativi decisivi – tra cui le intercettazioni, oggi fulcro della ricerca della prova – e si presenta al dibattimento in una posizione di oggettiva supremazia rispetto alla difesa. Una supremazia che stride con l’idea di un processo equo, imperniato sulla contrapposizione tra parti in condizione di parità e sulla formazione della prova nel contraddittorio, come sancito dall’art. 111 della Costituzione.

Si è spesso detto che questa unità di carriere dei giudici e dei pm è giustificata dalla “cultura della giurisdizione”, eppure, oggi più che mai, io ritengo preferibile un’altra cultura: la cultura del limite. Una magistratura che riconosca e abbracci il principio del limite può forse garantire meglio l’equilibrio tra i poteri, la fiducia del cittadino e, soprattutto, la terzietà del giudice.

Non è solo una questione di frequentazioni o di uffici condivisi. È una questione di formazione comune, di mentalità condivisa, di struttura organizzativa e psicologica che finisce con il rendere il pubblico ministero e il giudice appartenenti alla medesima corporazione. Questo genera, inevitabilmente, un deficit di terzietà.

In una democrazia liberale – quale aspiriamo ad essere – il potere giurisdizionale deve costituire, fino in fondo, un presidio dei diritti di libertà dei cittadini, anche e soprattutto di fronte alle autorità pubbliche.

Tra queste rientrano l’azione del pubblico ministero e gli atti della polizia giudiziaria, che a quest’ultimo è gerarchicamente subordinata. Il giudice, investito del compito di controllare la legittimità e la fondatezza dell’azione penale, non può appartenere alla medesima organizzazione istituzionale del pubblico ministero, che di quell’azione è il promotore.

Non è logicamente ammissibile che il controllore e il controllato coincidano: giudice e pubblico ministero non possono condividere identici meccanismi di reclutamento e avanzamento, né essere sottoposti allo stesso organo di governo disciplinare.

Il nodo problematico del nostro sistema risiede precisamente in questo: manca quella distanza strutturale, quella “inimicizia” fisiologica (intesa in senso politico-istituzionale) che costituisce la condizione necessaria per una dialettica autentica e per il corretto funzionamento di un sistema democratico maturo.

In un ordinamento complesso e pluralista, l’equilibrio nasce dal conflitto regolato, non dalla contiguità organica. Ed è per questo che le funzioni dell’accusa e quelle della decisione sono radicalmente incompatibili, e non possono essere ricondotte a varianti di una medesima funzione pubblica.

Non è solo una questione di competenze distinte: è una divergenza costituzionale e istituzionale. Il giudice è terzo e imparziale; il pubblico ministero è parte. Il giudice è soggetto soltanto alla legge e agisce secondo un principio di legalità pieno e rigido; il pubblico ministero esercita l’azione penale, e lo fa nell’ambito di un potere che, pur doveroso, implica margini ineliminabili di discrezionalità. Il giudice è chiamato a sovrintendere al contraddittorio; il pubblico ministero vi partecipa, al pari della difesa, come parte attiva.

Alla luce di tutto questo, risulta improponibile che due soggetti processuali così irriducibilmente diversi nella funzione, nella posizione costituzionale, nella natura istituzionale, possano essere riuniti all’interno di una stessa organizzazione ordinamentale.

Può comprendersi, sul piano storico-istituzionale, il compromesso operato in sede costituente. È evidente che la configurazione originaria del pubblico ministero accanto al giudice fu una forzatura, motivata dal condivisibile intento di affrancare l’intero ordine giudiziario – e dunque anche l’organo requirente – da ogni forma di soggezione al potere politico. Si optò, in quella fase, per una equiparazione strutturale e una omologazione funzionale tra le due figure, coerente con la logica delle garanzie propria di quel contesto.

Tuttavia, quel tempo è finito. Le condizioni che giustificavano quella scelta si sono progressivamente dissolte, e il contrappeso istituzionale ipotizzato allora ha perso efficacia. La riforma dell’art. 111 Cost. ha inferto il colpo definitivo a un equilibrio già fragile; la sola riforma processuale "Vassalli", pur significativa, aveva mantenuto in vita quel sistema con crescente difficoltà. Ma oggi non basta più, occorre prendere atto di un mutamento ormai irreversibile.

E dunque si deve riconoscere che questa parte della riforma costituzionale appare non solo opportuna, ma necessaria. Se davvero si vuole che il processo penale sia luogo di garanzie effettive, il primo passo è ammettere che la separazione delle carriere non rappresenta più una battaglia ideologica, ma una scelta di sistema.

Inoltre, questa configurazione italiana – che vede giudici e pubblici ministeri appartenere a un’unica carriera, in un ordinamento “onnivoro” – è, nel panorama occidentale, una singolarità anomala.

Infatti, un ulteriore elemento, spesso trascurato nel dibattito sulla separazione delle carriere, riguarda il quadro europeo.

Non si può ignorare che, più volte, a livello sovranazionale siano state espresse indicazioni a favore di una distinzione tra le funzioni requirenti e giudicanti.

Già nel 1996, una risoluzione del Parlamento europeo in materia di diritti umani sottolineava l’esigenza di garantire l’imparzialità del giudice attraverso la separazione tra coloro che svolgono attività d’indagine e coloro che sono chiamati a giudicare, al fine di assicurare un processo equo[4].

Successivamente, nel 2000, il Consiglio d’Europa ha ribadito questo orientamento con una raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri affinché lo status giuridico, la competenza e il ruolo procedurale del pubblico ministero fossero disciplinati in modo da escludere ogni dubbio sulla terzietà e imparzialità del giudice[5].

Tali posizioni evidenziano come, anche in ambito europeo, la mancata distinzione tra le due funzioni possa costituire un fattore di incertezza rispetto all’equilibrio tra le parti nel processo penale.

Ciò premesso, non si può nascondere il rischio che la riforma, pur animata da un intento di riequilibrio, possa produrre effetti non voluti.

Si apre infatti la possibilità che, anziché limitare il potere del pubblico ministero, si finisca per rafforzarlo, separandolo dal contesto dell’unità della giurisdizione ma senza ridefinirne realmente competenze e modalità di responsabilità.

Il problema principale diventa allora comprendere a chi risponderà il pubblico ministero e secondo quali regole. Invocare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale non basta.

Se si intende costruire un sistema coerente, occorre intervenire sulla discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, sottrarre al pubblico ministero il controllo diretto della polizia giudiziaria e ridefinirne il ruolo in termini di effettivo “avvocato dell’accusa”, che agisca sulla base delle risultanze fornite da organi investigativi indipendenti.

In assenza di una riforma complessiva in questa direzione, il rischio è che si operi una trasformazione incompleta, fondata più su semplificazioni narrative che su una visione organica.

È stato anche sostenuto che non sia opportuno intervenire sulla magistratura in una fase storica in cui la politica appare indebolita e la funzione giudiziaria tende ad assumere un ruolo di supplenza.

Questo argomento merita un’attenta considerazione, ma non può tradursi in una paralisi riformatrice. Occorre lavorare per rafforzare la politica, senza per questo sottrarla al controllo di legalità.

Tuttavia, va nettamente respinta ogni impostazione che affidi alla magistratura – e in particolare alla magistratura requirente – il compito di sostituirsi alla politica nella gestione di questioni sociali ed economiche. La tutela della legalità è un dovere imprescindibile, ma non può sfociare in un’egemonia surrogatoria che comprometta l’equilibrio tra i poteri dello Stato.

Uno degli obiettivi centrali dell’attuale stagione riformatrice dovrebbe essere il recupero pieno e consapevole della responsabilità politica nella direzione del governo dei processi sociali.

È necessario affermarlo con chiarezza e determinazione: la guida dei fenomeni collettivi non rientra tra le funzioni proprie della magistratura. A quest’ultima spetta la tutela delle responsabilità individuali, non l’interpretazione sistemica delle dinamiche sociali. Non è compito dei magistrati farsi interpreti generali del disagio pubblico, né assumere, simbolicamente, il ruolo di “cavalieri” chiamati a risolvere tutte le contraddizioni della società.

Ciò detto, siamo perfettamente consapevoli che oggi le decisioni giurisdizionali producono effetti che si riverberano in modo profondo e, talvolta, imprevedibile sugli equilibri economici, sociali, sulla sicurezza collettiva, sulla tutela dei diritti e delle garanzie fondamentali. Ed è proprio per questa ragione che non possiamo rinunciare a un giudice che coltivi con rigore la cultura del limite.

Merita consenso anche la proposta di istituire un’Alta Corte disciplinare.

Tale convinzione si fonda, oltre che su valutazioni di ordine sistematico, su una riflessione maturata attraverso l’esperienza diretta nella giurisdizione disciplinare.

Si deve infatti riconoscere che la Sezione disciplinare del Csm, pur avendo assolto compiti delicati in una fase complessa, non ha saputo offrire nel tempo una prova complessivamente soddisfacente.

Ciò non toglie che l’attività complessiva svolta dai Consigli superiori della magistratura, nelle diverse esperienze maturate, abbia rappresentato una risposta sostanzialmente coerente alla funzione costituzionale di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario. Pur con fisiologici limiti e imperfezioni, tale funzione è stata esercitata in modo essenziale per la tenuta del sistema democratico.

Diverso è, però, il giudizio che si impone in relazione all’attività disciplinare, la cui gestione ha mostrato numerose criticità.

Tentativi di consolidare un orientamento giurisprudenziale più rigoroso, in particolare su aspetti spesso ritenuti secondari, come i ritardi, sono stati successivamente superati da impostazioni decisamente più indulgenti. Questo arretramento ha contribuito a determinare una perdita di credibilità tale da rendere inevitabile il trasferimento della funzione disciplinare a un organismo terzo.

Resta ovviamente incerto se il nuovo assetto sarà in grado di offrire risultati migliori. Ogni riforma porta con sé margini di incertezza, ma ciò non esime dalla responsabilità di intervenire quando l’esperienza evidenzia limiti strutturali non più eludibili.

La composizione della nuova Alta Corte, in particolare la modifica dell’equilibrio numerico tra componenti togati e laici, potrà dar luogo a qualche perplessità. Tuttavia, ciò non incide sul giudizio negativo nei confronti dell’assetto attuale.

Al di là delle problematiche legate all’incompatibilità e all’esercizio della funzione giurisdizionale da parte di soggetti contestualmente investiti di compiti amministrativi, la riforma parziale dell’organo consiliare su questo punto non ha risolto in modo adeguato tali tensioni, limitandosi a introdurre incompatibilità circoscritte alla partecipazione a determinate commissioni.

Permane, in effetti, una contraddizione evidente tra il ruolo dell’amministratore-gestore e quello del giudice disciplinare, che si limita a un mutamento formale di funzione senza reale separazione sostanziale.

In questa prospettiva, l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare appare come un’opportunità meritevole di essere sperimentata.

Sennonché, va rilevato che se si ritiene necessario istituire un giudice disciplinare dotato di particolare autorevolezza e indipendenza, non si comprende perché tale esigenza debba riguardare esclusivamente la magistratura ordinaria, lasciando del tutto immutato il regime disciplinare delle magistrature amministrative e contabili.

Coerenza istituzionale vorrebbe che, laddove si introduce un nuovo modello, lo si estenda all’intero ordinamento, evitando soluzioni parziali che generano asimmetrie difficilmente giustificabili.

Si pone, inoltre, una questione tutt’altro che marginale sotto il profilo sistematico e potenzialmente costituzionale, in merito al regime delle impugnazioni avverso le decisioni dell’Alta Corte.

La nuova formulazione dell’art. 105, comma 7, prevede infatti che l’impugnazione, anche per motivi di merito, possa essere proposta esclusivamente davanti alla stessa Alta Corte in diversa composizione, escludendo espressamente la possibilità di ricorso in Cassazione[6].

Una tale previsione solleva interrogativi rilevanti circa il rispetto delle garanzie fondamentali del giusto processo e segna un evidente scostamento rispetto all’assetto attuale, che contempla la possibilità di ricorrere in Cassazione avverso le decisioni disciplinari.

Non può escludersi, pertanto, che la soluzione possa sollevare profili di dubbia legittimità costituzionale, in particolare alla luce dei principi del doppio grado di giurisdizione e delle garanzie di imparzialità e terzietà che devono presidiare il giudizio disciplinare.

Nel quadro complessivo della riforma, merita altresì una critica netta l’ipotesi di introdurre il sorteggio quale criterio di selezione dei componenti del Consiglio superiore della magistratura, sia nella sua formulazione “pura” riferita ai membri togati, sia nella versione “temperata” proposta per i membri laici.

Esso rappresenta, anzitutto, un segnale di profonda sfiducia nei confronti della magistratura stessa e, in particolare, di coloro che aspirano a ricoprire ruoli di alta responsabilità istituzionale. Non si tratta di incarichi marginali o puramente tecnici: il Consiglio è “superiore” non per convenzione lessicale, ma perché l’ordinamento gli attribuisce un compito di primaria rilevanza, ovvero il governo autonomo di uno dei tre poteri dello Stato. 

I suoi componenti sono chiamati ad assumere decisioni che incidono direttamente sull’equilibrio dell’intero sistema giudiziario. Non si tratta dunque di attività burocratiche, ma di funzioni di governo nel senso più pieno del termine.

Affidare la selezione per un incarico di tale portata a un meccanismo casuale, privo di qualsivoglia criterio di investitura, rappresenta una forma di svilimento istituzionale. Il sorteggio, per sua natura, prescinde da ogni valutazione di merito, di competenza, di rappresentatività. Trasmette un messaggio distorto: che l’idoneità al governo della magistratura non necessiti di una scelta consapevole, ma possa dipendere dal caso, come se fosse il risultato di una lotteria.

Un simile approccio non solo sottovaluta la dignità della funzione, ma rischia anche di compromettere la qualità delle decisioni, soprattutto in un ambito che richiede equilibrio, preparazione e sensibilità istituzionale.

L’esperienza concreta insegna – e io ne sono testimone – che il ruolo di componente del Consiglio superiore è tra i più impegnativi e delicati che si possano assumere all’interno delle istituzioni repubblicane. Richiede un bagaglio non solo tecnico, ma anche culturale e umano, maturato attraverso un confronto serio e plurale con i problemi della giustizia.

Immaginare che un ruolo di tale rilievo possa essere ricoperto da soggetti designati sulla base di congiunture fortuite e criteri aleatori appare in evidente contraddizione con le esigenze di qualità e di responsabilità che devono informare il governo autonomo della magistratura. 

È difficile rinvenire una giustificazione razionale a un simile modello. Non è chiaro se l’adozione di questa soluzione sia frutto di una riflessione organica, di una determinata visione politica o, piuttosto, il risultato di una reazione istintiva contro le degenerazioni del correntismo.

In riferimento a quest’ultimo profilo, non si intende tuttavia aderire alla retorica, spesso ricorrente, che demonizza in blocco il fenomeno dell’associazionismo giudiziario.

È indubbio che le correnti abbiano manifestato nel tempo molteplici limiti, e che tali limiti si siano forse accentuati negli ultimi anni.

Tuttavia, non si può seriamente ritenere che esse possano essere eliminate per via normativa.

La loro esistenza è legata a dinamiche fisiologiche proprie di ogni società. Laddove si producano aggregazioni umane strutturate, sorgono inevitabilmente affinità elettive, sensibilità comuni, orientamenti condivisi che conducono alla formazione di gruppi coesi. È un dato strutturale, non contingente.

È certamente auspicabile che tali aggregazioni si orientino verso l’elaborazione di proposte in tema di politica giudiziaria, piuttosto che verso pratiche spartitorie, ma sarebbe ingenuo pensare che la selezione dei componenti attraverso criteri impersonali od opachi possa neutralizzare del tutto la dimensione associativa.

Se non si manifesteranno attraverso aggregazioni culturali esplicite – un tempo si sarebbe detto "ideologiche" –, emergeranno comunque forme alternative di coesione fondate su legami di amicizia, interessi personali, relazioni informali o appartenenze territoriali. In alcuni casi, queste ultime si sono rivelate nei fatti ancor più forti e trasversali rispetto alle stesse correnti organizzate.

Il rischio, dunque, è che si finisca per sostituire una dinamica strutturata, e in parte regolata, con logiche meno trasparenti e potenzialmente più opache.

Comunque, quale che ne sia la matrice, rimane il dato sostanziale: il sorteggio non appare in grado di garantire una selezione adeguata dei soggetti chiamati a esercitare funzioni di governo della magistratura. 

Le sfide legate alla composizione dell’organo di autogoverno impongono criteri di selezione più rigorosi, coerenti e orientati alla qualità. 

 


 
[1] «Per quanto riguarda il nuovo ordinamento giudiziario, per quanto riguarda la separazione delle carriere faccio una confessione, io inizialmente ero contrario, ero contrario un po' perché legato alle tradizioni, al proprio vivere, alla propria mentalità che si era via via estrinsecata, al sacrificio di molti giudici, al sacrificio di molti magistrati, dei pm. Adesso ormai devo dirlo, ritengo che sia ineluttabile, non dico da oggi a domani ma ineluttabile, proprio ineluttabile. (…) Il processo deve garantire il contraddittorio, deve essere un processo accusatorio e non più inquisitorio, parità di parti, terzietà del giudice. E terzietà del giudice ha convinto anche me. Questo argomento è l'argomento più forte, sì anche la parità tra le parti, ma soprattutto la terzietà. Come fa un giudice, come può essere veramente terzo un giudice che ha uno stretto legame di origine anche di battaglie comuni, di precedenti, di maestri, eccetera, quindi in buonissima fede, bellezza di sentimenti, a continuare a convivere avendo come parte, quando ci vuole la parità delle parti? Quindi terzietà vuol dire anche rispetto della parità di parte». Così G. Conso, Professore emerito di Diritto processuale penale, già Guardasigilli e presidente della Corte costituzionale, in un intervento al Congresso dell’UCPI, Torino, 2009 (cfr. https://documenti.camera.it/_dati/leg18/lavori/stampati/pdf/18PDL0001170.pdf, p. 4).

[2] «Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di “paragiudice”. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il PM sotto il controllo dell'esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del PM con questioni istituzionali totalmente distinte». Così G. Falcone, intervistato da Mario Pirani, in La Repubblica, 3 ottobre 1991.

[3] Csm, parere sul disegno di legge costituzionale recante «Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare», delibera 8 gennaio 2025.

[4] Parlamento europeo, Relazione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea (1996), A4-0112/1997, 16 gennaio 1997, pt. 60: «ricorda che l’indipendenza della magistratura costituisce uno dei pilastri dello Stato di diritto e il fondamento stesso di una protezione efficace dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti i cittadini e, in particolare, di coloro che devono comparire in giudizio; ritiene che sia altresì necessario assicurare la terzietà del giudice giudicante attraverso la separazione delle carriere di magistrato inquirente e di magistrato giudicante, al fine di garantire un processo equo».

[5] Consiglio d’Europa, Comitato dei Ministri, raccomandazione (2000)19 sul ruolo del pubblico ministero nel sistema di giustizia penale, adottata il 6 ottobre 2000, par. 17: «Gli Stati prendono provvedimenti affinché lo status giuridico, la competenza ed il ruolo procedurale dei Pubblici ministeri siano stabiliti dalla legge in modo tale che non vi possano essere dubbi fondati sull’indipendenza e l’imparzialità dei giudici».

[6] L’art. 4 del disegno di legge costituzionale n. 1917, approvato in prima deliberazione dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025, modifica l’articolo 105 della Costituzione. Il nuovo comma 7 prevede: «Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata».

[*]

Il testo riproduce, con qualche modifica e adattamento, l’intervento al Convegno telematico su La riforma costituzionale della magistratura del 4 aprile 2025, organizzato dal Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Verona.

22/05/2025
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