Magistratura democratica
Magistratura e società

Cinque generazioni

di Alberto Maritati
già Procuratore Nazionale Antimafia aggiunto e Senatore della Repubblica

Recensione al libro di Francesco Buffa (Amazon KDP, 2025)

Il libro Cinque Generazioni di Buffa ripercorre la vita di cinque generazioni di italiani dalla fine dell’Ottocento ad oggi. Si narra, in modo avvincente, di sei componenti di una stessa famiglia, che si sono succeduti negli anni; sin dalle prime pagine, è però evidente che il riferimento familiare è solo un pretesto per richiamare vicende di interesse generale che hanno riguardato tutti noi e che hanno visto i più grandi cambiamenti sociali della storia italiana: dall’emigrazione dei nostri avi a fine ottocento all’odierna immigrazione degli extracomunitari; dagli anni della patria e delle guerre di trincea all’età dell’Europa unita e dell’ONU; dai nostri tempi nei quali il lavoro era tutto, a quelli odierni, ove si lavora per vivere e non viceversa; si passa attraverso anni nei quali si è costruita la repubblica democratica italiana (e la si è difesa con impegno e coraggio contro fenomeni criminali nuovi, di stampo mafioso e con manifestazioni assai efferate) e si arriva agli anni della quarta rivoluzione industriale, dominati dall’intelligenza artificiale e dalla ricchezza smaterializzata. In questi anni è molto cambiata la società italiana, ma anche il modo di pensare delle persone e di relazionarsi con gli altri, come il libro ben evidenzia.

A narrare varie vicende nella loro dimensione diacronica, con l’aiuto di alcune foto e di dettagliati ed efficaci flash storici e sociali (anche con richiami a testi letterari e ad opere musicali e cinematografiche),  è l’ultimo arrivato in famiglia, che ricostruisce faticosamente e con pazienza le tracce di un passato che non c’è più (e che è davvero difficile recuperare quando passano decenni) e giunge fino ai tempi odierni, sottolineando (anche riportando immaginate riflessioni personali degli esponenti di ciascuna generazione) le grandi differenze tra le varie generazioni succedutesi.

Sono fatti che nelle famiglie italiane si ricordano e, pur con i limiti della memoria e del tempo, si raccontano e si tramandano: ciascuno di noi vi si riconoscerà e potrà rivivere sensazioni di un passato più o meno prossimo e ritrovarsi nelle immagini del presente, sovente immedesimandosi nelle considerazioni dell’autore.

Nell’ambito di questa ampia cornice storiografia e sociologica, i fatti richiamati sono tanti e, pure quando sembrerebbero legati ad uno intimo spazio familiare, mi riportano con la memoria in un contesto in cui ero coinvolto (per via del comune svolgimento delle funzioni giudiziarie con il mio caro amico e già collega magistrato Mario Buffa, cui il libro dedica un capitolo) ed in un periodo in cui la Magistratura, in conformità del nuovo assetto costituzionale, andava assumendo una dimensione ed un ruolo radicalmente diverso da quello vigente nella monarchia e del fascismo. 

Siamo entrambi entrati, io e Mario, a fare parte dell’ordine giudiziario nella metà degli anni Sessanta, con idee certo molto chiare, ma poco consapevoli forse della reale portata culturale e sociale che il nostro ruolo poteva e doveva avere, a vent’anni dalla promulgazione della Costituzione repubblicana. Non ci occorse però molto tempo per comprenderlo.   

La prima volta che sentii parlare di Mario fu nell’ambito di una riunione organizzata presso il tribunale di Bari per noi giovani uditori giudiziari, in attesa di prendere le funzioni. A farmi il suo nome fu Luigi De Marco, magistrato illuminato, vero e proprio mentore e maestro per me e i tanti colleghi che hanno avuto la fortuna di frequentarlo. Erano gli anni in cui certa magistratura si distingueva per il richiamo costante all’applicazione del dettato costituzionale nell’interpretazione quotidiana del diritto, e Luigi mi informò che presso il tribunale di Lecce tra quelli impegnati in tal senso avrei trovato un giovane collega calabrese, trasferitosi da poco, con il quale prendere contatto per portare avanti e condividere in maniera proficua questa idea di giustizia e questo modo di intendere il lavoro del magistrato. Mi disse tutto questo regalandomi una copia della Costituzione, sul cui risvolto mi appuntai il nome di Mario Buffa.

All’epoca Mario svolgeva funzioni civili, settore in cui più diede prova delle sue qualità, qualità che, quale profondo conoscitore del diritto non solo nelle materie civilistiche, gli consentirono di raggiungere il riconoscimento del più alto livello delle funzioni giudiziarie, ma anche di rappresentare, per le nuove generazioni di magistrati, un importante punto di riferimento. 

Dopo il nostro primo incontro, fin da subito, tra noi si instaurò una forte intesa e l’amicizia e la cooperazione che ne scaturì hanno segnato profondamente i miei ricordi della vita trascorsa in magistratura.

Uno fra tanti, particolarmente significativo, fu il nostro impegno per la formazione del gruppo di Magistratura Democratica, che all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati portava avanti le istanze in cui entrambi credevamo, e che si distingueva da quelli già presenti (Magistratura indipendente, di impostazione moderata e Unione Magistrati Italiani, erede di una cultura giuridica non lontana da idee di stampo monarchico-fascista) per l’impegno nel trasferire nella pratica giudiziaria i precetti costituzionali, che ancora faticavano ad essere recepiti dalla legislazione ordinaria e quindi dalla giurisprudenza. 

Fu per noi tutti un periodo straordinario. 

La nostra idea di fondare le decisioni giudiziarie nel rispetto dei principi costituzionali di libertà ed uguaglianza ci portava frequentemente, nella interpretazione delle norme, a scegliere l’opzione che maggiormente tutelava i settori più deboli e le fasce storicamente socialmente svantaggiate, sia nel settore civile che in quello penale, così come nelle controversie di natura lavoristica, famigliare, commerciale e agraria. 

Venivamo tacciati di essere “giudici comunisti” per via delle sentenze con cui condannavamo i datori di lavoro a corrispondere il più equo salario nel rispetto dell’articolo 36 della Costituzione; oppure per garantire una eguale retribuzione per i braccianti agricoli e le donne impiegate nel medesimo ruolo di lavoratrici della terra, o anche per contenere le pene “iperboliche” che la consolidata giurisprudenza irrogava agli autori di reati contro il patrimonio a fronte di una quasi impossibilità di accertare e sanzionare i reati dei “colletti bianchi”.  

Furono anni di intensi confronti talvolta sfociati in aspri dibattiti con quella parte di magistrati che non condividevano il nostro approccio.

Il nostro impegno ha riguardato anche l’aspetto organizzativo degli uffici e, a questo proposito, ricordo come riuscimmo, insieme a Mario, a far passare il principio che l’assegnazione dei fascicoli dovesse seguire un criterio di rotazione automatica (in ossequio alla regola costituzionale del “giudice naturale” precostituito per legge), per evitare ciò che invece succedeva al tempo, cioè che fosse il capo dell’ufficio ad assegnare un particolare fascicolo ad un magistrato di sua scelta, e le ragioni di tale scelta non sempre rispondevano a criteri di trasparenza e obiettività, incidendo negativamente sull’esercizio effettivo della funzione giudiziaria, che la Costituzione richiede sia fondata sull’autonomia e sull’indipendenza.

Tanti ricordi si affastellano nella mente, impossibile riportarli tutti. 

Un altro momento significativo per noi fu in occasione del referendum abrogativo della legge sul divorzio che si tenne nel 1974. Decidemmo di stilare un incisivo manifesto con cui esprimevamo le ragioni per cui i magistrati del distretto di Lecce avrebbero votato contro l’abrogazione della legge. Fu sottoscritto da ventidue magistrati (non tutti di MD) e affisso sui muri della Città. Il clamore che ne scaturì fu enorme e le minacce di procedimento disciplinare terrorizzarono i più timidi, che ovviamente presero poi le distanze dalla corrente di MD. 

E ancora: ottenemmo con molto coraggio e determinazione che nelle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario, allora sempre caratterizzate da un rito inutile ed eccessivamente retorico, fossero autorizzati a prendere la parola, dopo la relazione del Procuratore Generale, anche i magistrati delle varie correnti della ANM. Poi divenne una regola tuttora vigente, ma all’epoca fummo tacciati di essere rivoluzionari collegati ai partiti della sinistra. Nulla di più infondato. A proposito di questa accusa, mi preme ricordare ciò che accadde in occasione del congresso nazionale che Magistratura democratica tenne a Rimini, in un periodo in cui era già deflagrata la fase del terrorismo con tutte le implicazioni che quel fenomeno determinò nel settore giudiziario. In quella sede fu votato un documento finale con cui, coerentemente con l’impostazione “garantista” del pensiero del nostro gruppo, fu enunciato il principio secondo cui tutte le garanzie previste dal codice penale dovessero essere rispettate a prescindere dalla gravità e natura dei reati, quindi anche con riferimento ai delitti commessi dai terroristi. Come sempre per noi si trattava di applicare un principio costituzionale, che tuttavia in quel contesto fece adirare più di ogni altro il Partito Comunista Italiano, che chiese con forza al ministro democristiano Bonifacio di esercitare l’azione disciplinare a carico di tutti i magistrati che avevano votato quel documento. Il Ministro si astenne correttamente dall’esercitare un’azione di censura verso un’opinione che noi magistrati “democratici” avevamo manifestato pubblicamente, ancora una volta in osservanza di un principio di libertà riconosciuto e garantito dalla Costituzione e come sempre in assoluta indipendenza.   

È importante sottolineare che, come magistrati, noi ci riunivamo periodicamente per confrontarci su idee e per approfondire la nostra cultura, sia professionale che sociale. Ma accanto a questo nacque, dalla stima e dalla fiducia reciproche, anche un rapporto di amicizia sincero e inattaccabile, destinato a durare nel tempo, che – inevitabilmente – unì i nostri due nuclei familiari a cominciare dalle rispettive fedeli compagne di vita, Maria Teresa e Rosamaria. Il libro declina le generazioni attraverso i componenti maschi della famiglia, per scelta legata essenzialmente al patronimico, ma in più punti si intravede in modo evidente che, come spesso accade, le colonne portanti della famiglia sono le donne. Mi piace ricordare che negli incontri, spesso anche quelli in occasione delle famose assemblee di MD che si svolgevano nelle varie città, venivano coinvolte le rispettive famiglie e fu quello il clima in cui tutti siamo cresciuti e ci siamo arricchiti culturalmente. 

La passione per il nostro lavoro ed il fervore delle questioni sociali e culturali che animavano quegli anni hanno quindi di certo influenzato anche la crescita dei nostri figli, che ebbero modo di conoscersi e di frequentarsi, sviluppando un legame personale che li avrebbe tenuti uniti anche quando, anni dopo, hanno seguito, ognuno a suo modo, le nostre orme, diventando a loro volta magistrati (Francesco e Alcide), avvocato (Stefania) o funzionario di  cancelleria (Adele), tutti, insomma, impegnati nel mondo giudiziario.

Il nostro fu un rapporto di lavoro e di amicizia intenso e sempre vissuto con tensione ideale, che scaturiva dall’avere assunto come bussola del nostro vivere e lavorare la Costituzione della Repubblica. E poi c’è tutto il nostro impegno di una vita, forte e costante, contro le mafie, sul fronte giudiziario come nella politica e, naturalmente, nell’insegnamento della rule of law nella società civile. Ma questo è un altro discorso, che meriterebbe trattazione in altra sede. Il libro vi dedica ampio spazio, ricordando tanti fatti di grande interesse, specie nell’ambito di un maxi-processo: tutti avvenimenti e vicende che non troverete mai su Google. 

Questo fu per noi essere magistrati e cittadini democratici. I nostri figli magistrati, Francesco ed Alcide, ci hanno poi dato il piacere e l’orgoglio di vedere, ancora oggi, camminare sulle loro gambe e vivere nei loro provvedimenti i principi e gli ideali di giustizia costituzionale (sempre con al centro il principio di uguaglianza sostanziale) per i quali abbiamo vissuto e lavorato Mario ed io. Entrambi hanno poi ricevuto e portato (anche con maggior efficacia rispetto ai loro genitori) il testimone ideale nella vita associativa della magistratura aderendo alla corrente progressista di Magistratura Democratica, alla cui fondazione ebbero la fortuna di partecipare i “giovani” Mario ed Alberto.

In una realtà ormai del tutto mutata, toccherà poi ai loro figli, e poi ancora ai loro discendenti -e ciò a prescindere dalle attività lavorative che svolgeranno nella vita-, portare gli ideali di rispetto del prossimo e di solidarietà che hanno nei loro cromosomi. E così il testimone passerà, di generazione in generazione.

07/06/2025
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