Magistratura democratica
Tribuna aperta

Sulla riforma costituzionale della giustizia *

di Giovanni Verde
Professore emerito di diritto processuale civile,Università LUISS Guido Carli di Roma; già Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura

1. Una battaglia perduta e i rischi del referendum

Nella sua introduzione, Giampietro Ferri ha detto con molto realismo che l’ultima parola probabilmente spetterà ai cittadini chiamati a partecipare al referendum. In disparte le sue giuste considerazioni sul procedimento di revisione della Costituzione (un tempo una riforma del genere sarebbe stata oggetto di confronto costruttivo con l’opposizione), sulla cd. volontà popolare che si identifica in realtà con quella di una minoranza del corpo elettorale (ammesso che il programma elettorale dei partiti di maggioranza fosse tale da consentire un consapevole consenso dell’elettore sui tre punti della riforma) e sul quesito referendario che si prospetta, ritengo che la materia in questione mal si presti a scelte referendarie. Chi andrà a votare dovrà scegliere tra il suo “io” che vede nella repressione un’arma per garantire la sicurezza e soddisfare lo spirito di vendetta (che è sottostante alla richiesta di giustizia) e che, pertanto, è “giustizialista” e l’altro “io”, che si identifica in chi affronta la disavventura del processo, per il quale le garanzie non sono mai troppe. È, a ben riflettere, una divaricazione che si ritrova anche nell’animo dei nostri rappresentanti in Parlamento e che assicura alla riforma consensi trasversali.

Mi chiedo quale sia la ragione per la quale Nello Rossi ha preferito non parlare della separazione delle carriere e ha rivolto la sua attenzione soprattutto ai Consigli superiori (in particolare, al sorteggio dei loro componenti). Forse, egli condivide la mia idea che a rappresentare i rischi della separazione delle carriere non dovrebbero essere i magistrati – che per Costituzione sono soggetti alla legge (anche a quella che ne disegna la posizione e la carriera), salva la possibilità di denunciarne le eventuali incostituzionalità alla Consulta –, ma i cittadini. Ho il sospetto che, più verosimilmente, egli ritenga che la battaglia sulla separazione delle carriere sia ormai perduta. Se, come è probabile, sarà questo l’esito finale, per mio conto voglio iscrivermi tra coloro che ne vedono i pericoli senza vantaggi per i cittadini e, perciò, continuo a parlarne.

 

2. Le ragioni sottostanti alla riforma (tutto tranne il miglioramento del servizio giustizia)

Ha ragione Ennio Amodio quando ascrive agli avvocati penalisti la primogenitura ideologica della riforma. Questa riforma non ha alcunché da spartire con l’ideologia della destra, che è intimamente giustizialista. Se, tuttavia, gli avvocati pongono una questione di principio, ho l’impressione che ai politici non piaccia il potere invasivo dei pubblici ministeri, che ne mette a repentaglio la loro autonomia. Oggi, peraltro, cominciano a capire (ma sono anni che lo scrivo) che il problema non riguarda soltanto i pubblici ministeri, perché la Costituzione ha costituito la magistratura come “contropotere”, affidandole un compito di controllo che necessariamente è destinato ad entrare in conflitto con gli altri poteri. Sta di fatto che l’idea di Montesquieu secondo cui la magistratura sarebbe un potere «nullo» è una pia illusione.

In disparte tale considerazione, ho l’impressione che i politici si illudano che con la separazione delle carriere si possa mettere il guinzaglio alle Procure, si possa indirizzare la loro bulimia indagatrice sulle vicende del “quisque de populo”, lasciando indisturbato chi esercita il potere. Qualcuno, anche dell’attuale maggioranza politica, se ne sta rendendo conto e si chiede se, dopo la riforma e con un pubblico ministero presidiato da un CSM “ad hoc” che ne assicuri l’indipendenza, non si corra il rischio di essere ancora più esposti a un incontrollato potere d’indagine (e Michele Vietti, con il suo abituale acume, ha compreso il rischio, ma, pur dandomi ragione, si è dichiarato disposto a correrlo). Perché, è chiaro, questa riforma nulla ha a che vedere con una giustizia più celere e qualitativamente migliore; è una riforma dettata dalle finalità della politica, in quanto ciò che conta è avere un controllo sull’esercizio dell’azione penale (perché, ad avviso dei politici, e come quelli al potere non mancano di ricordarci ogni giorno, è un oltraggio per la democrazia e, more solito, per la sovranità del popolo che un ministro o un presidente di Regione possa essere processato e che ad un aspirante al governo di un Paese, che si è macchiato di reati, possa essere sospeso l’elettorato passivo. La loro preferenza va al modello degli Stati Uniti d’America). 

Il futuro ci darà una risposta, ma condivido e sottoscrivo appieno le preoccupazioni di Mario Patrono che con apprezzabile onestà intellettuale ha esposto le ragioni per le quali ha mutato pensiero rispetto a ciò che riteneva trenta o quaranta anni fa, chiarendo che in questo caso non siamo di fronte a un problema di mera tecnica processuale, ma al modo d’essere della nostra democrazia (e, aggiungerei, alle condizioni per la sua difesa). Il clima politico e culturale è mutato. La Costituzione nasceva sulle ceneri consegnateci da una dittatura e da lotte fratricide che molto assomigliarono a una guerra civile, così che i Costituenti si posero come imperativo la difesa della democrazia e della libertà. In quel clima, la magistratura fu costruita come il necessario contrappeso. Dopo quasi ottanta anni il passato sfuma nella nebbia del vago ricordo e il contrappeso è visto come un ingombrante appesantimento di cui ci si vuole liberare. Sfumano anche gli ideali di quegli anni memorabili, e la crisi dei partiti politici (che sono ben diversi dai grandi partiti del passato, cui ha fatto riferimento Patrono) non ne è altro che la conseguenza. C’è soltanto un punto sul quale sono in disaccordo con Patrono. È illusorio ritenere che, abrogando gli artt. 330 e 335 c.p.p., ossia le disposizioni che riconoscono al pubblico ministero il potere di indagare, si eviti che quest’ultimo – che è obbligato ad esercitare l’azione penale – non indaghi nel momento in cui abbia preso «notizia di reati» (come si legge nell’art. 55 c.p.p.). Bisognerebbe accompagnare queste modifiche con adeguate misure riguardanti lo “status” dei pubblici ministeri, come predico inutilmente da anni. 

 

3. La scelta del 1989 (il modello processuale non impone di separare le carriere)

Parlo della separazione delle carriere, perciò, come si può parlare di un gioco di intelligenza. Non sopporto che si dica che la scelta del 1989, ossia l’introduzione del rito accusatorio, impone la separazione delle carriere. L’aureo principio nemo iudex sine actore per il quale il giudice deve essere sollecitato da un terzo, perché diversamente non sarebbe imparziale, può ben convivere con un processo inquisitorio. L’accusatorietà e l’inquisitorietà contrassegnano due diverse tecniche di costruzione del processo, con le quali si indicano due strade per pervenire alla decisione: con la prima il giudice deve o dovrebbe limitarsi a condurre un corretto dibattito processuale e neppure potrebbe partecipare alla decisione affidata a un terzo (la giuria), alla quale dovrebbe limitarsi a formulare quesiti; con la seconda, invece, il giudice diventa parte attiva nella ricerca della decisione giusta (la cd. verità materiale). È una diversa maniera di concepire la giustizia e, quindi, la democrazia: secondo la prima scelta, ciò che conta è di assicurare la pace sociale, perseguendo una ragionevole soluzione delle controversie; per la seconda opzione, occorre fare ogni sforzo per pervenire a una decisione giusta, avendo cura che non si tracimi in uno Stato di polizia.

I processualisti civili da tempo hanno posto in rilievo la distinzione tra “tecnica” e “tutela”, chiarendo che la terzietà del giudice impone che a provocare il processo non sia il giudice, ma una parte, ossia che la “tutela” appartenga all’inevitabile monopolio della parte, là dove bene è possibile che il giudice partecipi alla ricerca della verità, che è problema di tecnica processuale (ed infatti in qualsiasi codice sul processo civile c’è sempre la previsione di qualche strumento istruttorio che il giudice può gestire in autonomia: si tratta di porre limiti perché il potere giudiziale non esondi). Non è, pertanto, vero che l’adozione del rito accusatorio imponga la separazione. D’altronde, parliamo di modelli, quello accusatorio e quello inquisitorio, che possono essere declinati in vari modi. Non a caso Ennio Amodio ha parlato di un rito accusatorio all’italiana. In realtà si tratta di un ibrido perché, essendo stata in Costituzione sancita l’obbligatorietà dell’azione penale, si è dovuto riconoscere al giudice di incidere su ciò che è a base della terzietà, ossia gli è stato dato il potere di stabilire se la richiesta di non agire (ossia di archiviare) possa essere accolta o di imporre al p.m. l’imputazione coatta. Per non parlare della intrusione nel dibattito processuale, che dovrebbe essere limitato all’accusa e alla difesa, delle parti private. Di ciò si dovrebbe tenere conto quando si richiamano le esperienze di altri Paesi: la comparazione con altri sistemi andrebbe fatta sempre avendo presenti le specificità che ci distinguono. 

 

4. La Costituzione. Una soluzione incostituzionale? 

Gli avvocati penalisti ravvisano una contraddizione nella nostra Costituzione perché, da un lato, essa afferma che il giudice è terzo e imparziale e, dall’altro lato, prevede un’unica organizzazione dei magistrati ordinari (giudicanti e requirenti), rendendo così il giudice contiguo all’attore del processo penale.

La verità è che i Costituenti fecero una scelta consapevole, ritenendo che in questo modo fosse meglio garantita l’eguaglianza dei cittadini e la sicurezza sociale. Lo fecero imponendo al pubblico ministero l’esercizio di una “funzione”; rendendolo responsabile della sicurezza sociale oltre che della repressione dei reati. In altri termini, ritennero che non fosse un semplice “rappresentante” dell’accusa, che veicolasse nel processo le richieste di altri (nel nostro caso quelle prospettate dalla polizia in genere), così come fa l’avvocato, che è l’intermediario delle pretese della parte, cui dà veste giuridica, ma che avesse una funzione attiva nei compiti di sicurezza e di repressione propri dello Stato. Lo misero a capo della polizia giudiziaria (che nei Paesi di tradizione anglosassone non esiste) e gli imposero l’obbligo di esercitare l’azione a mo’ di scudo, per giustificare che non gli possano essere imputati a titolo di colpa eccessi da acribia investigativa o persecutoria. Lo costruirono come parte “privilegiata”.

Fermo che, a mio avviso, questo sarebbe stato un terreno per rendere accettabile il sistema, nel quale, purtroppo, questi eccessi sono diventati incontrollabili e spesso non giustificati, e che la ricerca di soluzioni adeguate sarebbe stata possibile in base al quarto comma dell’art. 107 Cost.; fermo che i magistrati con la loro intransigente difesa di un’omologazione dello “status” del magistrato del pubblico ministero a quello del giudice hanno concorso a creare un clima favorevole alla separazione, al cittadino che andrà a votare al referendum dovrebbe essere chiarito – ma non è facile che se ne renda conto appieno – che dopo la riforma potrebbe cambiare il modo della repressione e ne potrebbe risentire la sicurezza collettiva, perché correremo un rischio alternativo: o il pubblico ministero si trasformerà in una sorta di superpoliziotto del tutto privo di controlli oppure sarà in qualche modo controllato dal potere esecutivo con buona pace del principio di eguaglianza.  

Il “trend” è questo e, purtroppo, dipendiamo da un popolo “sovrano” poco attento alle sorti della nostra democrazia e interessato soltanto all’andamento dell’economia o, peggio ancora, della propria sopravvivenza.

Ci abbiamo messo del nostro per arrivare a questo punto. Da tempo ho predicato a vuoto che il sistema poggia su equilibri instabili e delicati, per cui ho raccomandato alla magistratura moderazione e prudenza. Da tempo ho invocato la necessità, rispettando davvero la Costituzione, di scrivere disposizioni sull’ordinamento giudiziario che tenessero conto della diversità delle funzioni. Ho ancora il ricordo delle brucianti sconfitte nelle camere di consiglio della Sezione disciplinare da me presieduta al CSM tutte le volte in cui tentavo di far valere la differenza nel valutare gli illeciti disciplinari. Ed ero sempre non ascoltato dai magistrati fautori della totale assimilazione. 

   

5. Il sorteggio dei componenti dei Consigli superiori

Con l’elezione del CSM si formano aggregazioni fra magistrati sulla base di orientamenti ideali. Le aggregazioni ideali sono preferibili ad aggregazioni di altra natura (originate da interessi, da amicizie, ecc.), che con il sorteggio dei loro componenti molto probabilmente si formeranno nei due Consigli superiori. Sono quindi contrario al sorteggio, e condivido le osservazioni critiche di Nello Rossi.

Ma sarebbe il caso di occuparsi delle disposizioni di attuazione, perché anche un legislatore tecnicamente mediocre e approssimativo come il nostro dovrà pur sempre predisporle, tenendo conto, quanto ai magistrati, delle categorie, delle quote rosa, della distribuzione territoriale, di qualche requisito minimo di affidabilità e, quanto ai membri laici, delle logiche spartitorie, che presumibilmente non saranno abbandonate, come dimostra la recente e poco edificante maniera con cui sono stati eletti i giudici della Corte costituzionale. Quali che siano, saranno pessime.

Alla base dell’introduzione del sorteggio c’è il tentativo di sminuire il ruolo dei Consigli. La vicenda è singolare, perché i disegni del legislatore di ridimensionare il CSM, di “normalizzarlo” (cioè di ridurlo a strumento di semplice gestione del personale), sono stati assecondati dagli stessi magistrati, che hanno fatto credere alla pubblica opinione che la spartizione delle nomine – che c’è e che è inevitabile, per come è costruita oggi la carriera dei magistrati, nella quale mancano criteri attendibili per valutare il merito dei singoli – sia un problema che interessa i cittadini, mentre si tratta di un problema che riguarda prevalentemente o esclusivamente i magistrati. Per vero il cittadino non può essere interessato alle nomine, alle attribuzioni e agli incarichi, per il semplice fatto che non può scegliersi il giudice in un sistema in cui per assioma si sostiene che un giudice vale l’altro. Il problema delle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari interessa politici e pubblici amministratori soltanto per ciò che riguarda le Procure e si lega a quello del possibile controllo sul loro operato. 

Si tratta d’altro, e non vale neppure la pena di parlarne. C’è, però, un problema di fondo che riguarda tutti noi, se ci riflettiamo, perché questa riforma, con la previsione del sorteggio, è fatta in nome di un “idolo”: quello della trasparenza. È da riscontrare un’esasperata sopravvalutazione della “trasparenza”, perché per essere trasparenti si tende ad eliminare qualsiasi valutazione soggettiva, per il timore che colui che dovrebbe farla possa tracimare. Lo abbiamo fatto nelle Università decretando la morte dei cd. baroni, costruendo un gigante burocratico quale è l’Anvur, le cui direttive fanno sì che oggi i concorsi universitari si decidono pesando più che valutando i titoli e ricercando criteri di valutazione che sia possibile tradurre in algoritmi. Lo stiamo sperimentando nella politica con il Movimento 5 Stelle (personalmente, desidererei che i nostri rappresentanti fossero almeno sottoposti a “test d’intelligenza”). Lo facciamo nelle gare per l’affidamento degli appalti.

Ma come possiamo opporci ad una soluzione, quella del sorteggio, che sembra incontrare il favore del popolo e anche di una buona parte della magistratura (alla quale l’idea che l’uno vale l’altro è entrata nel sangue)?

 

6. Il giudizio disciplinare

Il giudizio disciplinare meriterebbe un lungo discorso. Bisognerebbe non dimenticare che esso si sviluppa inevitabilmente in una forma di giurisdizione domestica. I primi a deliberare sull’incolpazione sono gli appartenenti alla categoria ed è inevitabile che ci sia del buonismo (del quale io e Vietti abbiamo avuto esperienza diretta). Il processo giurisdizionale dinanzi alla magistratura statale subentra in una fase successiva. Così è, ad es., per il pubblico impiego in generale.

Da qualche tempo mi perseguita una domanda. Mi chiedo per quale ragione mai si è posto in dubbio che un procedimento disciplinare dei magistrati ordinari sia, già in partenza, un “processo” che si conclude con sentenza e non sia classificabile come procedimento amministrativo. E al tempo stesso mi chiedo per quale ragione i giudici amministrativi e i giudici contabili non abbiano mai aspirato ad avere un vero e proprio processo disciplinare, ma si siano accontentati di un semplice procedimento amministrativo. Il fatto è che questi ultimi hanno, in tal modo, assicurato che i rimedi fossero di competenza del giudice amministrativo e che i primi hanno evitato che ci potesse essere un’attrazione verso quest’ultimo giudice (che è, a differenza degli altri impiegati pubblici, il loro giudice). Ognuno, insomma, ha difeso la sua cittadella. 

Consapevoli che gli incolpati hanno la funzione di giudicare e che, pertanto, il procedimento disciplinare nei loro riguardi è necessariamente affidato a chi svolge le stesse funzioni, possiamo convenire sul fatto che si tratti già in partenza di un vero e proprio processo giurisdizionale. Ma potremmo fermarci qui e non aggiungere l’enfasi (come ha sottolineato Patrono) di un’alta (e costosa) Corte – oltre tutto di non facile composizione –, accentuando una differenza che si tradurrebbe in privilegio e in violazione del principio di eguaglianza. Dovremmo piuttosto pensare a un giudice “ad hoc”, a composizione mista, tratto da appartenenti a tutte le magistrature. Potremmo pensare alla composizione di collegi differenziati in relazione all’appartenenza dell’incolpato. Potremmo pensare di inserire nei collegi rappresentanti laici. Non vedrei la necessità di garantire rimedi diversi da quelli oggi in atto per un qualsiasi pubblico dipendente. Dovrebbe essere sufficiente il normale controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione (ovviamente uguale per tutti i magistrati).

Aggiungo che, accolta nel sistema la separazione delle carriere, non si vede la ragione per la quale il pubblico ministero, ridotto al rango di prosecutor (ossia di avvocato dell’accusa), dovrebbe essere giudicato per i suoi illeciti disciplinari da un’alta Corte. Sarebbe una violazione dell’eguaglianza estesa all’ennesima potenza. 

Ne parlo per amore dell’arte. Anche in questo caso ho l’impressione che oramai il dado sia tratto.

[*]

Intervento, rivisto e adattato, al Convegno telematico su La riforma costituzionale della magistratura del 4 aprile 2025, organizzato dal Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Verona. 

30/04/2025
Altri articoli di Giovanni Verde
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.
C.S.M. e Ministro della Giustizia: modello costituzionale e prospettive di riforma tra testo e contesto

Il presente contributo intende riflettere sull'impatto della riforma costituzionale Norme sull'organizzazione della giustizia e sull'istituzione della Corte di disciplina sul modello costituzionale di rapporto tra il Consiglio Superiore della Magistratura e il Ministro della Giustizia. Per farlo, si analizzerà sia il testo del disegno di legge costituzionale attualmente all'esame del Parlamento italiano, sia il suo contesto, rappresentato in ultima analisi dallo “Stato costituzionale in trasformazione”.

15/04/2025