Magistratura democratica
Magistratura e società

Un romanzo d’impronta sciasciana come riscrittura di sé, della cronaca e della Storia

di Massimo Naro
professore di teologia nella Pontificia Facoltà teologica della Sicilia

L’articolo propone una lettura critica di un suggestivo romanzo, L’inferno non prevarrà, d’impronta sciasciana, firmato per i tipi Rubbettino da Andrea Apollonio, giovane magistrato presso la procura di Patti, ormai alla sua seconda prova letteraria. Nelle pagine dell’Autore vengono rintracciate quattro implicite tesi: quella giuridica, quella culturale, quella teologica, quella letteraria

Il romanzo di Andrea Apollonio si può leggere in tre modi, quasi a ritroso: a partire dalla quarta di copertina, a partire dall’esergo, a partire dal titolo. Ma si può e si deve, nondimeno, rileggere alla maniera consueta: progressivamente, dall’inizio alla fine, pagina per pagina.

 

1. Nella quarta di copertina – che ospita un breve stralcio tratto dal testo – è messa in evidenza la tesi giuridica del libro: la cosiddetta borghesia mafiosa è «il cuore nero della mafia». Non si riduce a quella che sui giornali viene definita «zona grigia», espressione con la quale di solito si indicano coloro che fiancheggiano la mafia, oppure le fanno da scudo sociale, senza per ciò stesso essere “tecnicamente” affiliati a una qualche cosca. La borghesia mafiosa è mafia a tutti gli effetti, pur senza coppola di traverso, senza vistosi tatuaggi sull’avanbraccio, semmai con giacca e cravatta, camicia fresca di bucato e polsini inamidati. È la mafia dei colletti bianchi. La zona grigia, invece, non esiste se non nel senso che rappresenta una mortale anemia etica: è un fatto interiore a ciascuno di noi, quando non sappiamo «discernere tra bene e male». Di fatto, la mafia è sempre «nera come la pece». Vale a dire che è appartenenza concreta, anche quando sembra fermarsi sul limite evanescente della connivenza, della collusione, dell’omertà, della mentalità condivisa e diffusa. Insomma, anche quando si comincia appena a scendere la china valoriale mettendo il piede sul primo scalino, il deficit of civicness lo chiamava qualche decina d’anni fa il sociologo Robert Putnam.

Più precisamente, per Apollonio, la borghesia mafiosa è un «fatto storico». È conseguenza di un mutamento epocale dell’ambiente sociale, verificatosi nel Meridione d’Italia e – in particolare, data la trama del romanzo – in Sicilia: è il modo storico in cui la modernità, in quei pezzi del Paese, ha scalzato tardivamente il medioevo. L’avverbio è da sottolineare: è dal fatto che la modernità si è sostituita (o è succeduta) al medioevo tardivamente, che è sortito il fenomeno mafioso con tutte le sue varie e cangianti sfaccettature. In questa prospettiva ermeneutica, che mi permetto di far valere a riguardo del romanzo di Apollonio, la mafia fin dagli inizi è stato un fenomeno borghese: i gabelloti subentrano ai feudatari, senza tuttavia passare attraverso, né tantomeno innescare, lo sgretolamento moderno del latifondo, che così non viene abolito ma preso in consegna dai campieri.

La mafia borghese, di cui racconta Apollonio, altro non è che quella dei gabelloti 2.0. Nelle pagine del romanzo l’insistenza sulla mafia borghese si salda, difatti, con l’attenzione critica nei confronti della mafia dei Nebrodi. La quale è ancor oggi mafia dei campi, benché si tratti ormai di quelli che l’Autore considera i campi – o i pascoli – di carta, cioè delimitati sulle mappe catastali e censiti nei moduli utili a richiedere finanziamenti agricoli milionari per colture solo fittiziamente dichiarate, come si spiegano a vicenda il giovane magistrato protagonista del racconto e il maresciallo dei carabinieri suo fidato collaboratore: «—Dieci milioni. Il traffico di droga, le estorsioni, l’usura, la prostituzione, sono tutte attività che rendono molto meno. —Dieci milioni solo sui terreni di Alzapietra. E può scommetterci che anche in altri posti sui Nebrodi si fa la stessa cosa. […] —La mafia ha cambiato volto. Oggi preferisce non sporcarsi le mani sulla strada, ma andare da un notaio compiacente per la stipula di una compravendita o dell’affitto di un terreno. Le estorsioni non rendono più come un tempo, il traffico di droga si è fatto rischioso, l’usura vede fioccare le prime denunce, la lupara riposta nella bacheca dei ricordi di famiglia. Invece, basta inoltrare la domanda per i contributi e arrivano tanti soldi. La mafia si nasconde dietro facce sempre più pulite, sempre più insospettabili» (pp. 127-128).

 

2. L’esergo, per l’esattezza il primo dei due eserghi che introducono al romanzo, riproduce una pagina di Italo Calvino, ricavata da Il mare dell’oggettività. Quest’ultima espressione è un refrain ricorrente nel romanzo di Apollonio. Dichiara la tesi culturale del romanzo: viviamo in quella che alcuni studiosi chiamano postmodernità, cioè in un tempo in cui la modernità è entrata in crisi, assieme al suo campione, che è l’io, il soggetto personale, surclassato dalle cose. La postmodernità è il tempo in cui – per dirla con Martin Heidegger – il pensiero calcolante (il pensiero utilitaristico, tornacontistico, funzionale) si sostituisce al pensiero meditante (il pensiero gratuito e grazioso, che accoglie l’essere e l’esistenza come una grazia e non come qualcosa di cui servirsi, a cui prendere le misure). Il mare dell’oggettività sommerge il soggetto umano e gli toglie ogni prerogativa soggettuale: lo cosifica, lo sottopone cioè alle leggi di una oggettività che non lascia spazio alla creatività personale, all’interpretazione, all’iniziativa, alla responsabilità.

 

3. Il titolo – L’inferno non prevarrà – riecheggia il motto latino che campeggia sotto la testata de L’Osservatore Romano: «Non praevalebunt», non prevarranno. Citazione tratta dal vangelo secondo Matteo, che riporta le parole rivolte da Gesù all’apostolo Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa». È quella che potremmo considerare la tesi teologica implicitamente sottesa al romanzo: come ha annotato Northrop Frye in The great code, la letteratura è sempre riscrittura della Scrittura, nel senso che dalla Bibbia ricava le sue idee principali, le sue migliori ispirazioni, le sue più vere intuizioni, i suoi simboli, le sue metafore.

La riscrittura biblica più importante, nel romanzo di Apollonio, è a p. 15 e viene più volte ripresa in seguito: il protagonista, dott. Salvatori, ha studiato in seminario, ma poi la sua vocazione «si è tramutata in qualcosa d’altro», ossia nella professione della magistratura (Lutero, ragionando sul termine paolino klésis, in greco chiamata, avrebbe detto che in ogni caso vocazione e professione si riecheggiano a vicenda, così come in tedesco effettivamente accade: Berufung, vocazione, è apparentata con Beruf, professione). Ma dagli studi fatti in seminario riaffiora a un certo punto il detto di san Paolo: Veritatem facientes in caritate, «la verità va forgiata nella carità, nella misericordia». Qui il messaggio biblico induce a riscrivere il binomio classico giustizia e verità nel binomio giustizia e misericordia, dato che la verità è inclusa nella carità. Per Salvatori (per Apollonio), purtroppo «non sempre la giustizia coincide con la verità» (p. 79). La giustizia è sottoposta a una critica serrata, fino a lasciar intendere che c’è giustizia e giustizia: c’è la giustizia codificata nella legge, nella norma giuridica, nel procedimento legale; e c’è la giustizia vera, quella che coincide con la verità. E quando la giustizia coincide con la verità, allora la questione diventa teologica, giacché chiama in causa proprio Dio, che è verità, giustizia, misericordia. Un colloquio tra Salvatori e il suo procuratore capo è a tal proposito emblematico (cf. pp. 118-120).

 

4. Rileggere pagina per pagina il romanzo di Apollonio aiuta, infine, a registrarne la tesi letteraria: la letteratura praticata come autobiografia, cioè come riscrittura di sé. Significative le pagine in cui è riprodotto un articolo di giornale che annuncia il ritrovamento in casa di Rosario Livatino, ucciso dalla mafia agrigentina, di un brano di Porte aperte, dattiloscritto dallo stesso “giudice ragazzino”, il quale si immedesimava nel ritratto che Leonardo Sciascia faceva del suo eroe, il “piccolo giudice”, piccolo per dire il contrario, cioè per misurarne la grandezza: «per le cose tanto più forti di lui che aveva serenamente affrontato» (p. 135). Il giudice Salvatori rimane colpito dall’articolo, perché si immedesima a sua volta in Livatino. Ma nel personaggio di Salvatori è lecito scorgere l’Autore che ne racconta la vicenda.

Il rimando a Sciascia permette di apprezzare l’esercizio letterario di Apollonio, che si contestualizza nel panorama siciliano, non solo perché – lui pugliese – si ritrova a lavorare in Sicilia, ma anche e soprattutto perché da scrittore fa di tutto per ambientarsi dentro uno scenario letterario affollato di autori di prima grandezza, da Vittorini a De Roberto, da Lucio Piccolo a Pirandello e allo stesso Maestro di Racalmuto. Pirandello e Sciascia, in particolare, sono scelti come i rappresentanti del «pensiero siciliano» di cui Apollonio si fa interprete. In realtà, il pensiero siciliano non differisce da quello che Franco Cassano, anche lui pugliese, ha definito il «pensiero meridiano», antioggettivo e meditante, di «tenace concetto» ebbe a scrivere proprio Sciascia, descrivendo il protagonista del suo Morte dell’inquisitore.

27/04/2024
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