Le lettrici e i lettori possono ascoltare le canzoni citate nel dialogo cliccando sui relativi titoli
Dario Lunardon: Una premessa: sono due volte in difficoltà.
La prima perché sono qui a sostituire Michele (Mimmo) Passione, che per improvvise ragioni personali non ha potuto esserci, e mi sento come il giovane (ma non lo sono) collega di studio che viene chiamato dal dominus la sera prima di un delicato processo e deve preparare in poche ore la discussione della causa, per cui la prima tentazione è quella di chiedere clemenza, a Voi che mi ascoltate e al Sostituto Procuratore Generale Marco Patarnello con cui sto per dialogare.
La seconda, che prescinde dal tempo che mi è stato dato per riflettere prima di questo incontro, è che questo dialogo mi e ci obbliga a misurarci con due temi tutt’altro che agevoli: Fabrizio De Andrè e il carcere. Per cui, forse, avrei potuto saperlo anche un anno fa, ma non credo che il maggior tempo a disposizione mi avrebbe posto al riparo da questa seconda, duplice, ragione di difficoltà.
Fabrizio De Andrè è uno dei più grandi, se non il più grande, dei nostri cantautori; la sua grandezza, oltre a ragioni di natura per così dire strettamente musicale, sta nei testi delle sue canzoni, vere e proprie poesie che si misurano a fondo con l’umanità tutta, celebrando la dignità dell’essere umano.
L’altro tema è il carcere: un mondo enigmatico e complesso, difficile da capire (e anche soltanto da osservare) anche per chi come noi lo frequenta e ha quotidianamente a che fare con le persone che ci entrano e ci rimangono.
Forse, però, ad essere altrettanto in difficoltà, e in una posizione ben più scomoda della mia, c’è Lei, Procuratore, che qui il potere rappresenta.
Quel «potere troppe volte / delegato ad altre mani, / sganciato e restituitoci / dai tuoi aeroplani» a cui Il bombarolo (1973), viene a restituire «un po’ del suo terrore», a conferma che nelle canzoni di De André il potere non gode certo di buona considerazione (e del resto il titolo di questa serata è proprio «Non ci sono poteri buoni»).
Ora è ben vero che anche Matteo Salvini afferma di amare De Andrè – il che conferma che la poesia può essere interpretata in molti modi (anche se bisognerebbe non fare mai torto a chi la scrive) – ma qual è o quale è stato il suo rapporto con Faber e le sue canzoni? Cosa ha pensato quando le è stato chiesto di parlare questa sera e mettere il suo nome sotto le parole «non ci sono poteri buoni»?
Marco Patarnello: Quanto a scomodità della posizione non avrei dubbi. Ascolto De André da sempre e lo ascolterò per sempre. Sono quelle cose che sai che andranno così. Gli anni passano e la memoria incespica, ma c’è stata un’epoca remota in cui potevo cantarne quasi tutte le canzoni. Una volta che hai conosciuto e amato De Andrè -e magari dopo diventi anche giudice- diventa una specie di tarlo dal quale non sai separarti: tanto per far capire, qualche anno addietro la Scuola della magistratura mi chiese di tenere una lezione sull’etica[1] ed uno dei cinque cardini di quella lezione lo affidai alla riflessione intorno a Sogno numero 2, straordinaria metafora del potere che ruota intorno al giudice.
Cosa ho pensato quando mi è stato chiesto di partecipare a questa serata sul potere? Che sarebbe stata una meravigliosa pazzia essere sul banco degli imputati avendo per Corte d’assise avvocati ed amanti di Fabrizio De Andrè. Mi seducono le pazzie. Non a caso, quando in terza liceo dovevo scegliere cosa avrei voluto fare “da grande” ero incerto fra il giudice e lo psicanalista. In estrema sintesi? Di Faber mi resta la sensazione dolce e amara che la vita è in larga parte una narrazione. E che anche il processo -e chi lo racconta, come un giudice- deve accettare, o almeno avere consapevolezza, di proporre solo una narrazione, per quanto la più rigorosa possibile; non la verità. Mi resta la consapevolezza che la giustizia in senso filosofico e assoluto non è umana e che se lo fosse sarebbe essenzialmente compassione verso la nostra dolorosa condizione di uomini.
Ora, lei mi chiede del potere, ma il Potere è un’espressione che può significare molte cose diverse. Incarcerare un uomo e decidere della sua sorte è potere. Tanto potere. Ma non è l’unica forma di potere che si esercita dentro o intorno al carcere. Dirigere un traffico di cocaina o disporre di armi in cella o fare uccidere il direttore che ti ha fatto perquisire al rientro dal processo è una forma di potere.
Non voglio eludere la domanda e non proverò qui a distinguere fra poteri cattivi e poteri buoni, voglio solo dire che non si può fare a meno del potere, di quello che spesso chiamiamo in termini un po’ spregiativi “potere costituito”. Senza il potere come comunemente lo intendiamo non c’è la libertà, c’è la sopraffazione. Se ci riflettiamo in termini filosofici possiamo anche pensare che cambi poco, che in fondo il potere costituito sostituisca solo alcune regole ad altre regole; se, invece, ci riflettiamo in termini pratici, concreti, questo poco ci ha portato qui stasera, sul palcoscenico con Aurora Matteucci che ci dirige a discutere di giustizia, amore, vita e morte e non alla corte del più forzuto e tirannico dei presenti, a fare i giullari. Tanto più che né io né lei siamo forzuti!
Tornando alla domanda, per me il potere di incarcerare si esercita avendo ben chiaro che sei un uomo e hai davanti un uomo.
Dario Lunardon: Prima di parlare o tornare a palare di carcere, vorrei fare un passo indietro.
Credo sia una constatazione che possiamo condividere, quella secondo cui il diritto e il processo penale sono la massima espressione di forza consentita in tempo di pace in uno Stato democratico.
Quantomeno nell’ambito del diritto penale è naturale associare diritto e sanzione, cosicché diviene altrettanto naturale associare diritto e potere.
Nella rappresentazione tradizionale la giustizia, intesa come applicazione del diritto, è come una dea bendata, che governa una bilancia a bracci uguali e una spada che incombe sulla testa di chi è chiamato a risponderne.
Questa giustizia formale è molto distante dal mondo di Faber, come traspare dal testo di una sua bellissima canzone, Khorakhané (1996): «Ora alzatevi spose bambine / che è venuto il tempo di andare / con le vene celesti dei polsi / anche oggi si va a caritare / E se questo vuol dire rubare / questo filo di pane tra miseria e sfortuna / allo specchio di questa kampina / ai miei occhi limpidi come un addio / Lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca / il punto di vista di Dio».
Ma la giustizia può essere anche qualche cosa di diverso.
C’è un bel libro di un filosofo del diritto, il Prof. Tommaso Greco, che si intitola Curare il mondo con Simone Weil (Laterza, 2023), che propone un’idea affatto diversa di giustizia: non più una dea bendata, ma una giustizia che si toglie la benda dagli occhi – perché quel simbolo «a cui si legano l’imparzialità e l’incorruttibilità di colui che decide rischia di diventare un ostacolo in quanto ci impedisce di vedere proprio quelle situazioni che richiedono un intervento riparatore e salvifico» – , che non usa la bilancia – perché «la bilancia presuppone che ci sia qualcosa da pesare e misurare; non si fa qualcosa in risposta a ciò che l’altro ha commesso o compiuto; si fa qualcosa per l’altro» – né la spada – «l’idea che la spada possa simboleggiare un atto di giustizia viene meno allorché si pone in primo piano la relazione tra noi e l’altro».
Scrive ancora il Prof. Greco: «se ci si vuole comportare secondo giustizia, ci si ferma, ci si sbilancia, ci si abbassa». È una giustizia che non fa più rima con sanzione ma con compassione, intesa come comunanza di sofferenza, se non addirittura con “carità”.
Questa idea di giustizia è molto più vicina alle canzoni di De André, non trova?
Marco Patarnello: Trovo, ma non credo sia un obiettivo raggiungibile. Facciamo un passo indietro. La distanza fra giustizia e diritto ha tormentato già Sofocle, o forse prima ancora Omero. Io sono solo un giudice e potrei dire che al cappone non si può chiedere anche di festeggiare il Natale.
Scherzi a parte, Giustizia e Diritto dovrebbero stare insieme. Diciamo che cercare di tenerle insieme è l’aspirazione di ogni giudice, utilizzando l’umanità, l’intelligenza e anche la fantasia di cui dispone. Ma -se passiamo dal godimento della poesia alla frustrazione della realtà- dobbiamo constatare che si tratta di una tensione, una direzione, come obiettivo è irraggiungibile.
Per avvicinarci alla sua brutale domanda, ricorderei che noi -giudici e avvocati- italiani, in questo “tendere” siamo facilitati dalla nostra Costituzione, che assomiglia molto ad un testo di pura giustizia e infatti l’art. 3, comma 2, della Carta ricorda molto i bracci diversi della bilancia di cui lei parlava: abbiamo lo strumento del giudizio incidentale di costituzionalità, ala potente per avvicinarci il più possibile al sole.
Ma raddrizzare una società e renderla giusta non è cosa che si possa fare solo con commi e toghe. Si rischia addirittura di peggiorare le cose, quando si pone troppa distanza fra la regola e la realtà, la società: la comunità dei colti e dei giusti, ammesso e non concesso che esista (ma tale si sente quella dei giuristi) non deve collocarsi in un mondo separato.
In questo tendere, possiamo -anzi, dobbiamo- utilizzare qualche strumento, qualche accortezza, che ci consenta di restare umani.
Dario Lunardon: Io l’ho provocata e voglio continuare a farlo. Torniamo a parlare di carcere, però lo facciamo ancora una volta con uno sguardo “alto”, prima di scendere con i piedi a terra e misurarci con la realtà.
È “giusto” rinchiudere chi ha commesso un errore?
Quando mi capita di interrogarmi su questo tema, penso spesso a quel che scriveva Luigi Ferrajoli: «il diritto penale, per quanto circondato da limiti e garanzie, conserva sempre un’intrinseca brutalità … la pena, comunque la si giustifichi e circoscriva, è infatti una seconda violenza che si aggiunge al delitto e che è programmata e messa in atto da una collettività organizzata contro un individuo singolo».
Non corriamo il rischio di pensare al carcere come un’istituzione insopprimibile e quasi nell’ordine naturale delle cose?
Per molti anni, oltre ai delinquenti, abbiamo rinchiuso anche i “matti” e gli “anormali”, o almeno chi pensavamo tali: gli omosessuali, le adultere, le ninfomani… personaggi che ben possono popolare le canzoni del nostro Faber.
Li abbiamo rinchiusi pensando fosse giusto farlo, finché un medico italiano, Franco Basaglia – spesso tacciato con scherno come “il filosofo” da molti suoi colleghi dell’epoca – non ha provato (e ci è riuscito!) ad aprire le porte dei manicomi, per poi chiuderle definitivamente.
Dobbiamo per forza accettare l’idea di rinchiudere e “carcerare il prossimo” (che è il titolo di questo nostro dialogo) come unica soluzione o possiamo provare a sognare un mondo senza carcere?
Marco Patarnello: Lei non fa domande, lei vuole la resa dei conti finale; anzi, la resa incondizionata! E la vuole pure in pochi minuti! Mi autodenuncio: non ho tutte queste risposte.
Però. Quando guardiamo la nostra faccia allo specchio abbiamo uno sguardo indulgente, ma è pur sempre meglio che non guardarla affatto. Per questo io mi sono dato come regola quella di cercare di metterci sempre la faccia e cerco di farlo anche stasera: se devo sognare è diverso, ma quando sono sveglio non sono uno che abolirebbe il carcere.
Ho conosciuto anche un carcere utile, un carcere da difendere. Un carcere con agenti penitenziari che ti conoscono e ti riconoscono, con educatori preparati e generosi, con direttori con un’umanità straordinaria e un’apertura mentale rara, carceri con scuola, università, lavoro, servizio sanitario. Stupirà anche sapere che c’è qualcuno che in carcere -in questo carcere, quello senza niente - ha comunque più di ciò che ha fuori: c’è anche chi dal carcere non vuole uscire, perché fuori non ha nulla e quando dico nulla intendo esattamente nulla e nessuno. È una sensazione che io e lei non possiamo nemmeno immaginare con uno sforzo di fantasia.
Io ce l’ho in mente il carcere che vorrei e sono certo che potrebbe essere realizzato, basterebbe volerlo. Lo Stato attraverso il carcere può entrare nelle dinamiche sociali e svolgere un ruolo. Come nella scuola o nelle università. Si tratta di capire che ruolo vuole svolgere. Se quello del carceriere che gode nel togliere l’aria ai detenuti, o quello di chi cerca di riconoscere chi ha davanti e si chiede se dargli un’altra opportunità, costruendone i presupposti.
Ma qui il discorso ci porterebbe lontano. Qui i commi c’entrano fino ad un certo punto. Come dicevo, puoi scrivere delle buone regole, ma sei ancora lontano dal fare una società giusta. Immaginare un mondo senza carcere oggi è un sogno e il sogno va bene per le poesie. Amare le poesie è ciò che ti tiene vivi, ma governare la società con la poesia non è di questo mondo. A inseguire un mondo astratto ci si perde quello reale. Non so se un giorno l’essere umano si libererà dalla brutalità della propria condizione d’origine. Non intendo escluderlo. Però, le faccio una domanda io: un mondo dove tutti gli uomini sono così maturi e risolti da non essere necessarie le regole, dove ognuno si comporta naturalmente bene o al massimo si rende necessario un rimprovero, che magari arriva anche prima che sia stato commesso l’errore, siamo così sicuri che non possa rivelarsi un incubo? Liberare l’uomo dalle proprie debolezze, dalle proprie fragilità, dalla propria cattiveria, oltre che dalle proprie miserie materiali, prima ancora che morali, potrebbe rivelarsi meno affascinante di quanto crederemmo.
Detto questo, le risparmio le ovvietà: sono felice almeno quanto lei quando ci sono le condizioni per fare uscire dal carcere un detenuto, anche solo per collocarlo in una soluzione alternativa.
Dario Lunardon: Ecco, lei mi ha giustamente riportato con i piedi per terra.
Del resto, la canzone da cui abbiamo preso le mosse, La ballata del Miché (1961), parla di un tema di drammatica attualità: sono tanti, troppi, i detenuti che ogni anno, ogni mese, ogni settimana vengono trovati «con una corda al collo» «impiccati a un chiodo» perché non sopportano la condizione carceraria.
La nostra Costituzione (art. 27) dice che la pena deve «tendere alla rieducazione del condannato» ma appare una norma-manifesto, una previsione che può indicare la rotta, la cui meta però è sempre molto, troppo, lontana.
La portata precettiva di questa norma sembra ormai relegata agli interventi di sartoria costituzionale della Corte costituzionale, mentre nella quotidianità è un’utopia.
Chiunque di noi frequenta le carceri italiane sa quanto quel poco di attività rieducativa che viene fatto, è spesso destinato ad un numero ridotto di persone, forse addirittura a quelle che meno ne avrebbero bisogno.
Le carceri sono da tempo diventate «un ospizio dei poveri e una discarica sociale» lì – per citare sempre Faber – «ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano / quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano / se tu penserai e giudicherai da buon borghese / li condannerai a cinquemila anni più le spese» (La città vecchia, 1965).
Vi finiscono oggi più che mai spesso stranieri senza alcun titolo di soggiorno, che appena rimessi in libertà vengono portati nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR), per essere poi rispediti nelle loro terre di provenienza, a dispetto di ogni finalità rieducativa.
Chissà cosa canterebbe oggi Fabrizio De André, di queste persone, che sono davvero gli ultimi degli ultimi.
Marco Patarnello: Lei giustamente mi indica i cento buchi del colabrodo: i buchi sono tutti reali, ma io sono solo un giudice.
Indubbiamente, se cerchi il carcere dei ricchi non lo trovi; i ricchi non stanno quasi mai in carcere e comunque mai troppo a lungo e in ogni caso stare in carcere da ricchi o da potenti non è affatto come starci da diseredati e ultimi: se lo abbandoni a se stesso il carcere riproduce le ingiustizie della società, moltiplicate. Se lo abbandoni, nel carcere non comanda lo Stato o magari comanda la parte peggiore di esso. Quello che vediamo, invece, è il carcere dei poveri e ci insegna un mare di roba. Ci insegna anche che in questo carcere il suicidio sembra una soluzione, talvolta l’unica soluzione. E -come sa- non solo per i detenuti. Il carcere oggi è un’emergenza che avrebbe bisogno di risposte immediate e all’altezza. In questo trovo che le parole di De Andrè siano le uniche pertinenti: «Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti» (La canzone del maggio, 1973). Su questo terreno nessuno di noi è innocente, fintanto che non si fa tutto quello che si deve per fermare questo stillicidio di morte.
Detto questo, se misuriamo la distanza fra ciò che sarebbe giusto e ciò che è, ci scoraggeremmo senza rimedio e le confesso che alla mia età è un pericolo concreto. Perciò mi permetto di suggerire di guardare la strada da fare solo per capire la direzione, non per capire se arriveremo anche noi sino alla fine.
Non le nascondo che il carcere a me ha insegnato a cimentarmi continuamente con una prova, quella di cercare di reggere lo sguardo di chi hai di fronte: quando non riesci a farlo vuol dire che qualcosa non torna. E accade, accade.
Il carcere non è un posto facile. Non lo è in nessuna versione, ma può essere un posto terribile, se gestito con disumanità. La disumanità può uccidere anche chi la pratica o comunque chi apparentemente la gestisce. La solitudine assoluta uccide. Oggi il carcere rischia di essere il luogo dell’abbandono, ma questo non è una necessità è una scelta. Una scelta che lo Stato non ha il diritto di permettersi. Da una discarica non nasce niente, da una scuola nascono i fior. Si vuole che il carcere sia un luogo altro. Invece alla società, alla comunità va fatto capire che il carcere siamo noi, appartiene interamente alla comunità e coloro che ne sono contenuti sono uomini e donne in tutto uguali a noi.
Dario Lunardon: Restiamo alle parole di Faber, visto che ha parafrasato anche lei una bellissima canzone, Via del Campo (1967).
Ne La città vecchia che ricordavo prima, al giudizio del “buon borghese”, si contrappone quello di chi queste persone «le capirà, le cercherà fino in fondo» rendendosi conto che «se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo».
Sono parole che sono al tempo stesso uno straordinario riconoscimento della dignità dell’essere umano, uno dei temi classici della poetica di De Andrè, ma anche uno sguardo verso il futuro, un messaggio di speranza.
La speranza viene da tante storie di redenzione: penso allo straordinario percorso della giustizia riparativa e alla bellissima esperienza italiana del Libro dell’incontro (che quest’anno compie dieci anni) che documenta il dialogo tra le vittime e i responsabili della lotta armata degli anni settanta. Non c’è più grande attuazione dell’utopia costituzionale della rieducazione di queste storie.
Del resto, per tornare alle parole di Simone Weil utilizzate dal Prof. Greco, «infliggere la punizione è dichiarare di avere fede che al fondo dell’essere colpevole c’è un seme di bene puro. Punire senza questa fede significa fare il male per il male».
Eppure, abbiamo un sistema che tollera ancora l’ergastolo.
Trent’anni fa si discuteva apertamente, ed anche con un certo sostegno parlamentare, di progetti di legge che disegnavano l’abolizione dell’ergastolo.
Oggi abbiamo un legislatore che anziché investire sulla strada della rieducazione vuole introdurre un reato (il femminicidio) che prevede la pena esemplare dell’ergastolo “automatico”.
Cosa è accaduto? Quando finirà questa pena?
Marco Patarnello: Probabilmente non le piacerà ciò che ora dico. Uccidere è essenzialmente esercizio di potere su una persona. La chiave di lettura raramente si allontana da questa cifra, un po’ elementare. Pur non essendo credente, credo che si tratti di un gesto in un certo senso “sacro” o -dovrei dire- sacrilego. Ha in sé tutta la forza, la drammaticità delle cose irreversibili. Ci sono eventi che cambiano irreversibilmente la vita. La nascita di un figlio è fra questi. Uccidere una persona è certamente fra questi. Esercitare potere verso chi è più debole ed esposto è ancora più grave.
Ora, lei con il tema dell’ergastolo ed il Libro dell’Incontro mi pone una questione enorme. Ho amato molto il Libro dell’Incontro e l’ho regalato a molti fra i magistrati che hanno fatto il tirocinio con me. Ma non dimentico che esistono cose che ti possono cambiare irrimediabilmente la vita.
Quindi, pur essendo pienamente consapevole di dare una risposta sgradevole, forse addirittura arida, non credo che la chiave sia quella di eliminare l’ergastolo o almeno non nel senso che comunemente si assegna a questo traguardo. E ricordo che, se lasciamo da parte il capitolo dell’ergastolo ostativo -che ci aprirebbe un tema troppo complesso per una serata con Faber- oggi l’ergastolo è essenzialmente un nome: le possibilità di uscire definitivamente dalla pena ci sono e anche in materia di terrorismo questo è avvenuto e ancora avviene, ben al di fuori del Libro dell’Incontro. E spesso senza neppure che le pagine in cui questo genere di eventi si collocavano (tanto a sinistra quanto a destra) siano state chiarite: potrei fare molti esempi ed alcuni anche sgradevoli.
Detto questo, però, ciò non significa che lascerei le cose come stanno. Io credo che si potrebbe immaginare una pena rivalutabile, con l’individuazione di uno step cronologico consistente, all’esito del quale riproporre una nuova drammatizzazione del bilancio umano di quella vicenda, qualcosa che assomigli -o che ricordi- una sorta di bilancio di vita intorno a quella vicenda. Dunque, qualcosa di più profondo e complesso della semplice riflessione sul percorso del detenuto. In quella sede, ripensare a se, come e quanto proseguire.
Venendo al tema della giustizia riparativa, però, non ritengo che il Libro dell’Incontro ne possa costituire il paradigma. Esperienze come quelle descritte nel Libro dell’Incontro non si possono stabilire o costruire a tavolino e richiedono condizioni straordinarie e protagonisti fuori dal comune, come quelli del libro. Si tratta di una possibilità straordinaria al ricorrere di circostanze assai rare. Ci si deve lavorare, ogni qual volta sia possibile, ma non credo possa costituire la chiave attorno a cui costruire la soluzione.
La giustizia riparativa del quotidiano e del cd UEPE è una cosa diversa, se vuole ne parliamo, ma le anticipo che 100mila esecuzioni penali esterne oggi non sono qualcosa di troppo diverso dall’affidare ciascuno a se stesso. Comunque non intendo disconoscere che anche il carcere, oggi, assomiglia molto all’affidare ciascuno a se stesso, in assenza di concretezze rieducative.
Solo due parole inevitabilmente frettolose -e forse anche noiose- sulla proposta di introdurre il reato autonomo di femminicidio, a cui faceva riferimento. Ho già detto cosa penso rispetto alla enormità di questo genere di condotte. Però rispetto alla proposta formulata io vedo sullo sfondo alcuni problemi specifici e troverei più convincente ottenere un identico risultato penale utilizzando lo strumento delle circostanze aggravanti. Il diritto penale ha esigenze di tassatività, di precisione e di rispetto di principi costituzionali che possono entrare in tensione. Lo stesso concetto di donna (o di uomo) non è più così preciso e non solo sul piano culturale, anche sul piano giuridico. Affiancare all’art. 575 un articolo 577bis pone problemi anche di carattere costituzionale e se una parte di questi può essere risolta attraverso gli strumenti comuni di interpretazione o può essere migliorata nell’iter parlamentare, altri di questi profili possono risultare più delicati e difficili da risolvere. Sento, infatti, di qualche riflessione nel percorso parlamentare. Usare anche il diritto per fare promozione sociale e culturale è una scelta comprensibile e piuttosto ricorrente: ha molti aspetti positivi e in linea di massima poche ricadute negative. Quando la si fa col diritto penale, però, le cose si complicano e il bilancio può essere stridente. Quindi sono cauto nel giudizio sull’introduzione di questo reato autonomo, almeno per come sembrerebbe delinearsi finora.
Ma vorrei concludere questa intensa serata e questo nostro scambio con un ultimo riferimento a Faber, rievocando ancora una volta Nella mia ora di libertà, poesia bellissima e feroce. De Andrè incalza ogni articolazione del potere e dice ai giudici «Uomini e donne di tribunale se fossi stato al vostro posto….. ma al vostro posto non ci so stare»; ecco, invoco, infine, la vostra clemenza: non dimenticate che anche stare da questa parte della scrivania -se fatto con coscienza- ha la sua parte di dolore, ma qualcuno ci deve stare….
…Non vi ho convinto, vero?