I libri belli sono quelli che, una volta aperti, non sai dove ti portano. Capita con L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere, uscito in questi primi giorni di giugno 2025 e provvisto della rara qualità di non essere facilmente racchiudibile in un recinto letterario specifico. Si tratta dell’ultima fatica di Donatella Stasio, sebbene l’espressione “fatica” suoni stonata. Pagina dopo pagina, si capisce che la scrittura erompe fluida da una passione civile urgente: raccontare e misurare la democrazia a partire dalle marginalità, dai diritti dei fragili che, osserva in maniera acuminata la scrittrice, non sono diritti fragili.
Dopo l’ultimo libro scritto a quattro mani con Giuliano Amato, dedicato alla Corte costituzionale nella società, Donatella Stasio fa uscire i diritti dai palazzi delle istituzioni, li rappresenta per come si manifestano (o scompaiono) nelle relazioni umane, li rimette sulla terra tirandoli giù dal cielo delle pronunce delle Corti.
Gli angoli di mondo su cui si propone di indagare sono le periferie urbane e le prigioni. Un binomio indissolubile, visto che il carcere, non solo a livello metaforico, è sempre oltre i bordi della città e che, alla lettera, è colmo di periferie sociali ed esistenziali.
La scelta del libro – qui sta il bello di cui si è detto – non è quella di percorrere i sentieri già battuti dalla saggistica, ma di sperimentare una contaminazione tra l’esplorazione dell’universo detentivo e la storia di una persona che ci è finita dentro e ne è uscita, di un reduce appunto. Saggio e racconto si mischiano, così come giornalismo di inchiesta e narrazione biografica, introspezione e analisi scientifica.
Il protagonista assoluto è Gianluca, nato da genitori operai, «lavoratori onesti ma poveri, come povero è oggi il lavoro di larga parte degli italiani» (p. 159), ma figlio, soprattutto, di una periferia degradata di una grande città di metà anni Settanta. A sei anni perde il padre e, a quel punto, la madre Luigia, operaia scelta della FIAR, è costretta a farsi in quattro per nutrire lui e i suoi fratelli. Non riesce, però, a trasmettere al figlio la corrente calda dell’amore, della cura, dell’affetto. Non è una colpa, Luigia è forse simile a Vincenzina della canzone di Enzo Jannacci e ha soltanto «guardato la fabbrica come se non c’è altro che fabbrica». Del resto, non ci poteva essere altro che fabbrica, se si voleva sopravvivere. Fatto sta che il vuoto affettivo è stato colmato dalla periferia e l’educazione sentimentale di Gianluca l’hanno scritta la strada e la cocaina, i bordelli e i codici criminali. Anche l’amore si era ridotto a consumo, pretesa di corpi senza affetti.
Il passaggio in carcere è arrivato presto, Gianluca in prigione ci è finito già da minorenne, per poi attraversarla da adulto nelle sue dimensioni più arcigne – gli ex istituti di massima sicurezza di Busto Arsizio e Fossombrone – e in quelle che, invece, hanno preso sul serio la finalità costituzionale di risocializzare.
All’eccellenza di Bollate sono dedicate forse le pagine più toccanti del libro, la cui lettura è lenitiva in questi giorni del 2025 che seguono di poco il tragico fallimento del reinserimento di un detenuto di quel carcere. Il “salto nel vuoto” di quel condannato, che una volta uscito di prigione è tornato a uccidere per poi precipitarsi dalle terrazze del Duomo di Milano, non può cancellare i tanti autori di reato che, come Gianluca, Bollate ha rimesso al mondo, restituendo loro un progetto di vita che li sottraesse alla pericolosa derelizione del reduce.
Nelle parole di Gianluca e Donatella, Bollate diventa il pezzo di una biografia di successo. Siamo abituati a leggere, riguardo a scrittori, filosofi e scienziati famosi, di anni decisivi per la loro formazione. Ognuno ha avuto i suoi periodi decisivi, sono quelli trascorsi in qualche prestigiosa università o istituto di cultura. Ognuno ha avuto i suoi anni decisivi, raramente sono quelli del carcere. È bello e raro leggere che per Gianluca, uno che “ce l’ha fatta”, sono stati decisivi gli anni di Bollate. È lì che ha scoperto i suoi talenti, dipinto le sale comuni, fatto teatro, studiato, giocato a calcio, conseguito una specializzazione professionale prestigiosa. Soprattutto, come testimonia Roberto Bezzi, ha imparato «l’abc della relazione affettiva, dello stare con gli altri» (p. 130) e ha capito cosa vuol dire sostituire il pensiero critico all’ubbidienza cieca, al “rigare dritto” cantato da Johnny Cash nei suoi celebri Prison Concerts a Folsom e San Quentin. La differenza tra un carcere che produce libertà, conforme alla riforma che quest’anno compie cinquant’anni, e il carcere incapacitante sta tutta nelle magnifiche parole di Gianluca, che ora tocca svelare: «Ci sono due modi diversi di viaggiare: o fai il turista in modo passivo, ti affidi alle agenzie di viaggi, vai nei villaggi vacanze, ti fai portare e non fai niente, perché fanno tutto gli altri e tu di adegui; oppure fai li turista vero, attivo, scegli tu dove andare, con chi andare e come andarci, il viaggio diventa un’esplorazione, l’occasione per conoscere luoghi e persone. Ecco, Busto e Fossombrone sono state carcerazioni passive, Bollate è stato un vero viaggio» (p. 84).
Non avevo mai pensato al carcere come viaggio, ma è forse la metafora più significativa che ho letto negli ultimi anni. Del resto, la tensione alla rieducazione è qualcosa di dinamico, non di statico.
Di questo avrebbe bisogno il Paese, di penalità penitenziaria e alternativa che possa essere itinerario verso la libertà responsabile, dunque verso la costruzione di una società sicura. Al contrario, il modello che le politiche dominanti pretendono di imporre è quello dell’asfissia dei detenuti, della chiusura, della segregazione e della deportazione. Nel continuo parallelismo tra carcere e società, Donatella Stasio osserva che si tratta di un esperimento biopolitico che ormai esonda dal muro di cinta della penalità penitenziaria per invadere la città, imponendo repressione del dissenso e della cultura critica, vincoli alle scelte degli individui sulla loro vita e sul loro corpo, catene. Una presa totale sulle persone che è il segno peculiare di un autoritarismo di ritorno, capace di saldare le pretese egemoniche del sovranismo e del neoliberismo.
In questo progetto di controllo un ruolo essenziale lo ricoprono la desertificazione e la manipolazione degli affetti. È un tema centrale del libro, ne costituisce il filo prezioso da seguire e riannodare. Si tratta di una riflessione a tutto tondo politica, che traccia una prospettiva originale e importante per il carcere e per la democrazia.
Partiamo dal carcere. Il vuoto affettivo da cui sembra prendere le mosse la vita di “criminale vero” di Gianluca non ha trovato risposte compensative in famiglia, nella società, nella politica. Il tramonto della Prima Repubblica, iniziato verso la metà degli anni Ottanta, procede di pari passo con l’inabissamento delle risposte collettive e pubbliche ai problemi individuali e privati. Per Gianluca e per quelli come lui sono rimaste solo le briciole dello stato sociale e di quei fermenti politici che, per molti ragazzi delle generazioni precedenti, avevano funzionato come camera di compensazione di traumi e dolori, prima ancora che come ascensore sociale.
Anche il carcere ha offerto risposte diametralmente opposte a quelle che sarebbero servite a Gianluca: «ibernazione affettiva» invece di scongelamento dei problemi relazionali. L’amore è rimasto intrappolato per un qualche motivo nella vita in libertà e il carcere ha chiuso quella gabbia a doppia mandata, incurante del fatto che a ogni giro di chiave si è inoculato il veleno del risentimento.
C’è stata, per la fortuna e la salvezza di Gianluca, l’eccezione di Bollate, ma è un’eccezione che conferma la regola dell’istituzione totale di costruire la pena “per via di levare” come la scultura di Michelangelo, di rendere più difficili i contatti umani autentici e paritari, di isolare la persona condannata e de-umanizzarla.
Simbolo per eccellenza di questa spersonalizzazione è stato, sino alla pronuncia della Corte costituzionale 10 del 2024 che lo ha abolito, il divieto per i detenuti e le detenute di poter svolgere, all’interno del carcere, colloqui intimi con i propri partner liberi.
Del valore copernicano di quella pronuncia della Consulta, la trama del libro sembra cogliere la giusta portata. La possibilità per i detenuti e le detenute di avere rapporti intimi e sessuali con il partner, in ambiente sottratto al controllo a vista della polizia penitenziaria, è molto di più di un’ulteriore facoltà che si aggiunge alla teoria di diritti che rendono la pena detentiva più umana: è un riconoscimento che mina le fondamenta del carcere disciplinare e che semina, dentro al carcere stesso, il terreno germinativo di una penalità che è l’opposto del carcere moderno, una sorta di anti-carcere.
Ad oggi, nei fatti, non siamo mai veramente fuoriusciti da quel modello panottico che funziona come «un mezzo di rendersi padroni di tutto ciò che può avvenire ad un certo numero di uomini» (J. Bentham, tr. it., 1818). Il carcere è ancora soprattutto sorveglianza, esposizione in ogni momento della giornata alla possibilità di essere sotto lo sguardo del controllore. Ma è solo nella sottrazione alla vista che la persona può ricomporre la sua autonomia, la sua soggettività, il suo spazio relazionale. Il riparo dalla sorveglianza continua, nel carcere come nella società, libera le relazioni dall’ossessione di corrispondere all’occhio del custode, di manipolarsi per manipolarlo. Lo sdoganamento dell’affettività in carcere, reso possibile dalla Corte costituzionale, rappresenta l’esatto opposto della macchietta dipinta da chi ha lanciato strali contro la pronuncia: non si tratta di ridurre l’essere umano alle sue pulsioni sessuali, ma di ricostruire l’interezza della persona concedendogli un momento relazionale autentico, una pausa dai riflettori del potere.
Come detto, il libro ha il prezioso e raro merito di sottolineare che la valenza liberatoria dell’affettività può essere un ricostituente per la democrazia, oltre che via di trasformazione del carcere. L’attenzione di chi parla di diritto e politica, di norma, è rivolta al carattere formale della democrazia: istituzioni, bilanciamenti, regole per formare le maggioranze, meccanismi elettorali. Altrettanto frequente, anche in chiave polemica, è la considerazione per i profili sostanziali che devono accompagnare la declinazione istituzionale: non c’è democrazia compiuta se non ci sono diritti per tutti. Più raro è veder porre l’accento sulla dimensione affettiva della democrazia e della politica. Nell’Anti-Edipo - Capitalismo e schizofrenia, frutto del “focolaio magico” del Sessantotto, Gilles Deleuze e Félix Guattari esaltavano il carattere rivoluzionario del desiderio, costruttivo di relazioni sociali: «Non c’è che desiderio e socialità, e nient’altro» (tr.it. 1975, p. 32).
Ecco, L’amore in gabbia lancia un monito urgente sulla necessità di una politica che torni a occuparsi di desiderio, di come sia possibile costruirlo al di fuori dei riflettori della società del controllo e al di fuori dell’immaginario colonizzato dal patriarcato e dal capitalismo; in sostanza, di come tornare a offrire risposte sociali e condivise, basate su relazioni non asimmetriche, ai desideri delle persone.
Un libro necessario, dunque, per riflettere su un grande vuoto che, come le caverne carsiche, si mantiene da troppo tempo inesplorato sotto i palazzi di una politica che è diventata solo metodo e ha perso la capacità di connettersi con i bisogni profondi delle esistenze.
E poi c’è il gusto di perdersi nella vita di Gianluca, fatta di amicizie, amori, dolori, strappi, rinascite. Sarà una storia che non fa la Storia, per richiamare il titolo del libro di Carlo Greppi (i libri, tra loro, si parlano sempre), ma forse no, perché ogni storia di lotta, in qualche modo, fa Storia e getta un seme per tutte e tutti.