Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Cinquant’anni di legge penitenziaria: tra testimonianza e memoria *

di Francesco Maisto
già Presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna

1. Se svolgessi ancora la funzione di giudice mi porrei solo il problema della qualificazione della mia narrazione in termini di testimonianza, mentre oggi la memoria è complessa perché vive tra necessità politica, obbligo giuridico e fondamento morale. Potrei essere un testimone diretto o indiretto, oppure l’uno e l’altro, ma sempre un testimone. E dunque, depongo manifestando una scienza diretta dei fatti solo a decorrere dalle prime applicazioni della legge del 1975, ma non posso dirmi ignaro della preparazione e, en passant, non citare persone informate dei fatti, oggi non più utilmente esaminabili. La mia memoria si fonda prevalentemente sulle parole, sulle chiacchierate fraterne, sugli scritti di due cari amici e colleghi: Igino Cappelli e Sandro Margara. 

Scegliendo un percorso eccentrico per la formazione dell’epoca degli uditori giudiziari negli anni ‘70, seguii Igino come Giudice di sorveglianza e scoprii che «Eppure c'è un giudice, uno solo di quelli del tribunale, con il compito di «sorvegliare» quei luoghi. Funzione, quando non ignorata dagli altri “operatori di giustizia”, generalmente considerata una sorta di sinecura». Scelsi di fare il giudice non ingessato nella toga e non immobilizzato sullo scranno per toccare con mano l’umanità carcerata. 

Era il settembre del 1975 quando scrissi la bozza, come uditore giudiziario, del primo permesso di necessità di uscita dal carcere di una persona avanti negli anni per partecipare al battesimo del nipote. Ho vissuto questa lunga storia di fedeltà e di tradimenti altalenanti alla nostra Costituzione.

Quella della legge penitenziaria del 1975 è una storia travagliata e spezzata, percorsa da indirizzi diversi e spesso contrastanti, che si sovrappongono, e che si cerca spesso di contrastarla.

La mia memoria individuale si è sviluppata all’interno di quadri sociali, e questo aspetto va tenuto presente, soprattutto per chi, in tarda età, crede come me, talvolta, di ricordare scene autenticamente vissute che poi si rivelano frutto di rielaborazioni successive. 

Dopo l’ultima tragica vicenda milanese del detenuto De Maria (un caso di omicidio-suicidio), caratterizzata da critiche alla legge, ma soprattutto cercando il capro espiatorio nel magistrato di sorveglianza che concesse il permesso, mi sembra appropriato il ricordo di un pensiero del 1999 di Sandro Margara in Giustizia? Repetita non iuvant: «L’attacco a tutto campo contro la Magistratura può fare sembrare fuori tempo la riflessione che cerco di fare. Considero, però, questo uno dei rischi a cui ci si deve sottrarre. Pensare essenzialmente a difendere la stessa nostra esistenza da chi ci vuole riportare ai silenzi e alle gerarchie da cui siamo partiti, può fare mettere in seconda linea i percorsi specifici che abbiamo attuato in questi anni e la riflessione sugli stessi. Non credo, quindi, che ci dobbiamo impedire di riflettere e di pensare le singole esperienze fatte, il loro significato e come proseguire»

Da neofiti dei PC, Sandro ed io talvolta abbiamo fatto confusione sull’appartenenza di alcuni file, ed io, lo confesso, ne trassi giovamento, come, ad esempio, nel ricordare le scansioni temporali ed i titoli di capitoli di una storia della legge del 1975: «un dibattito spento, un dibattito acceso; il nuovo che avanza; il nuovo che arretra; il disgelo; si riprende il filo: la legge Gozzini; la storia contraddittoria più recente: dai decreti legge del 1991-92 alla legge Simeone-Saraceni; l’esplosione della penalità: tossicodipendenti; gli immigrati; la riforma nel carcere non riformato: vino nuovo e otri vecchi».

Alla memoria, collettiva o individuale, rimane qualcosa di quella natura che Platone nel Filebo immaginò come di una tavoletta cerata su cui il tempo scrive i suoi messaggi.

 

2. Dall’esame diacronico della legge del 1975 risultano ben 122 modifiche tra leggi, decreti legge non convertiti e sentenze della Corte Costituzionale. Un abito rattoppato in cui balza evidente il disarmonico sovrapporsi di interventi eterogenei rispetto all’armocromia dell’originario tessuto e dei successivi inserti di ispirazione costituzionale. E’ una storia di fedeltà e di tradimenti della nostra Costituzione, in particolare del principio personalistico, della visione del detenuto e del condannato come pur sempre persona titolare di diritti e di doveri, del principio rieducativo. Eppure fin dal 1972 la Corte si diffondeva sul principio rieducativo, poi declinato in modo multiforme.

 

3. Ma andiamo con ordine in cinque tappe. Le scansioni temporali ed i titoli di capitoli di una storia della legge del 1975 secondo quella “Memoria della galera” sono:

A) La legge di Riforma del 26 luglio del 1975

Dai primi anni '50, di legislatura in legislatura, tra Camera e Senato, ancora si trascinava il pigro lavoro parlamentare su un progetto governativo di riforma carceraria lasciato nel «ripostiglio delle cose dimenticate dalla politica…una discrasia storica con effetto paradossale»(M. Pavarini). Nel Diario del giudice di sorveglianza. Gli avanzi della giustizia, Igino Cappelli annotava: «Alla riforma carceraria tocca di vedere la luce quasi contemporaneamente alia famigerata legge Reale sull'ordine pubblico (maggio 1975). Avanza strisciante un clima di restaurazione, e non ancora il partito armato ha colpito a morte. Eppure si deve operare. Tante le cose da fare: sollecitare la realizzazione delle strutture mancanti, individuare e usare gli spazi interpretativi praticabili tra norma e norma, tentare di superare le contraddizioni e le insufficienze più vistose, preparare magari successivi emendamenti alla legge. La quale ha abrogate le certezze del vecchio regolamento fascista. Ma si appanna e si confonde alla vista l'immagine del nuovo «nemico» da battere. Un autoritarismo di tipo nuovo? Un nuovo paternalismo in veste democratica? Finalmente una legge, e non un semplice Regolamento. Alcuni diritti e alcuni interessi legittimi dei detenuti».

Per primo Luigi Ferrajoli nel 1974 qualificò la legge ed il carcere prefigurato come «correzionalismo istituzionalizzato». Comunque, di fatto, la stessa legge ha ricostruito la soggettività dei detenuti e l’ha posta al centro del messaggio normativo.

Questa fase fu segnata dall’esperienza dei permessi su cui, pur con le restrizioni della legge, tuttavia rimanevano spazi interpretativi per concederli. Erano previsti i permessi (d’uscita) solo «per gravi e accertati motivi». Ma, evidenziava Cappelli: «La “ramazza” non funziona nella maniera drastica e totalitaria auspicata dai patrioti del Tempo, ma viene pure usata, in modo a volte casuale, sempre “esemplare”». E’ il caso di Vincenzo Accattatis, spazzato dalla funzione di giudice di sorveglianza di Pisa. Applicata la Costituzione ed interpretata la legge, «Letto e disapplicato il regio decreto …». Altri tre di questi, presi “a campione” secondo collaudate tecniche di intimidazione generale (Baldi di Siena, Terranova di Reggio Emilia, Galassi di Ancona), colpiti in sede disciplinare e addirittura inquisiti penalmente: hanno dato «licenza di evadere». Questo slogan, continuamente ripetuto da fonti di informazione non sempre informate, capace di creare allarme sociale e turbamento nella pubblica opinione, e il segnale della «strategia delle evasioni», fondata sulla deliberata confusione tra due categorie umane, penitenziarie, criminologiche del tutto distinte: i pericolosi delinquenti evasi con la violenza e i non rientrati dai permessi.

La formula riduzione della pena per buona condotta venne prevista per tutti i detenuti, a prescindere dal reato per cui erano stati condannati; le misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale e semi-libertà) furono previste anche per i recidivi (la gran parte della popolazione detenuta era recidiva e, senza la miniriforma, non ne avrebbe fruito), mentre restarono escluse per i delitti di rapina e estorsione aggravata e di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione. Si sperimentò la progressione trattamentale e la forza di valori   che trovano sintesi nell’enunciazione di un vero e proprio dovere di offrire a tutti una possibilità di ascolto e di aiuto finalizzato innanzitutto a contrastare gli effetti deterioranti della carcerazione. «La socializzazione della marginalità nello stato sociale si cementa oramai sull’imperativo del to care, del farsi carico della problematicità sociale in termini oramai solo o prevalentemente assistenziali» (Pavarini).

B) La miniriforma gelata dalla controriforma

Il clima stava cambiando, i permessi ai detenuti cominciavano a essere sotto tiro con la falsa giustificazione delle evasioni delle quali invece il CSM accertò un numero irrilevante. Il vecchio carcere del 1977.

E ci fu chiaro, da allora in poi, che l’ordinamento penitenziario è sempre il primo ad essere mortificato quando emergono le inadeguatezze della politica criminale e della giustizia penale. 

Le prime avvisaglie ci furono ai primi di luglio 1977 e pochi giorni dopo, la restrizione della norma sui permessi divenne legge. La novità più significativa della Riforma era finita. Ma non bastava: la consegna per il carcere era ormai: «ordine, ordine». E ordine fu, con un’operazione che fu condotta dal generale Dalla Chiesa, e che passò attraverso due momenti essenziali: la creazione delle carceri di massima sicurezza, immediatamente riempite con i detenuti considerati più pericolosi; la chiusura degli spazi collettivi che si erano aperti in carcere dalla fine degli anni Sessanta, per cui ormai lo spazio di vita normale e continuativo diventava la cella (contro la legge di Riforma), salve le limitatissime ore d’aria e le possibilità dei pochi detenuti ammessi al lavoro intramurario a vantaggio dell’Amministrazione. 

Aumentarono le proteste individuali e collettive. Ho visto detenuti allo stremo per gli scioperi della fame; ho visto bocche cucite con ago e filo, materassi a fuoco, salto dei banconi dei colloqui per reclamare affettività e le rivolte…e a San Vittore, “barricamenti”, suicidi, impiccamenti. Ricordo gli squilli notturni del telefono fisso per accorrere in risposta alle proteste individuali o collettive, per le “trattative” con le rappresentanze dei carcerati. Ricordo i documenti ed i proclami sulla gravità della condizione carceraria. Ho visto il carcere “sottosopra”, il contrario di quello che esigeva la Legge, di diritti e di doveri. Tra il 1981 e il 1982 si consumarono nelle carceri una serie di delitti, alcuni dei quali raccapriccianti ad opera di killers. Tra la criminalità organizzata e i detenuti politici si formava, dopo una iniziale diffidenza, un reciproco rispetto: l’unione dei «dannati della terra». E poi il famigerato 23 settembre nero 1982 di S. Vittore con il brutale pestaggio, di ben sei ore, di decine di feriti e 137 trasferimenti in altre carceri, dopo gli scioperi della fame dei tre detenuti quasi in fin di vita, trasferiti da Milano proprio a Parma, dove ebbe inizio il movimento di Mario Tommasini «Liberarsi dalla necessità del carcere» quale si contrapponeva il movimento «Vivere liberazione di ogni carcere l’estinzione».

Erano gli anni di piombo. E tali furono le carceri di massima sicurezza, anche per la successiva applicazione dell’art. 90 della Legge penitenziaria perfino ad personam, quindi, illegali. Il Foro italiano del novembre del 1983 pubblicava «Documenti per una riflessione sugli Istituti di massima sicurezza» a cura di Giuseppe La Greca con commenti di miei ordini di servizio massimati: «Nel caso di applicazione nei confronti di alcune detenute del regime differenziato previsto dall’art.90 L. 354/75, va disposto il ripristino delle ordinarie regole di trattamento, ove sia accertata l’insussistenza di elementi che giustifichino la discriminazione». Diceva Sandro «definisci i peggiori e costoro saranno all’altezza della tua definizione. Anche l’ordine, l’ordine repressivo, è una specie di tunnel, nel quale si entra e non si sa come e quando uscirne».

Noi magistrati di sorveglianza dimostrammo di saper camminare sul fili della lama, stando in mezzo, ma con la Costituzione e la legge Penitenziaria, nonostante gli omicidi di colleghi ed amici come Emilio Alessandrini e Guido Galli. Guido quel giorno in Università Statale faceva lezione sui diritti ed i doveri dei detenuti.  

Si moltiplicarono i procedimenti disciplinari à la carte, ad iniziativa del Ministro di Giustizia, anche per la «vigilanza occhiuta», secondo il capo di incolpazione nei miei confronti semplicemente perché avevo rilevato la somministrazione ai detenuti di farmaci scaduti. In quelle occasioni era forte il legame per la consapevolezza dell’importanza della funzione e della missione, pur nella fragilità del gruppo antesignano del CONAMS. La diversità delle nostre scelte associative non intaccava l’unità del gruppo. Insieme lottavano Mario Canepa, Alessandro Margara e Giancarlo Zappa per indicarne alcuni che più si esponevano. 

La giurisprudenza di merito della sorveglianza tuttavia cominciava a far capolino nelle riviste giuridiche, quando ancora non c’era Italgiure e simili e la Rassegna penitenziaria e criminologica veniva pubblicata raramente. Ricordo i primi provvedimenti motivati e non sul semplice modulino cartaceo, con argomentazioni di sapore costituzionale in Il Foro italiano, 1981, II, 525; 1982, II, 288; 1984, II, 555. Dopo la Costituzione e la legge penitenziaria avevamo la luce della sola sentenza n. 204/1974 della Corte Costituzionale. A distanza di anni l’impostazione costituzionale, la ritrovammo espressa in altre sentenze, nelle quali era costante il richiamo ai princìpi e agli strumenti della flessibilità della esecuzione della pena (282/1989, 125/1992, 306/1993, 68/1995, 186/1995, 173/1997, 445/1997, 137/1999, fino alla n. 78/2007).

C) Il carcere della speranza

Nell’ottobre del 1986, venne varata la legge 663 che diventava il naturale completamento della riforma del 1975. Mentre quella escludeva i condannati per taluni titoli di reato (rapina, estorsione, associazione mafiosa, banda armata) dalle misure alternative, la Gozzini rimosse quei limiti affermando il principio che stabilire a priori preclusioni di natura oggettiva ostacola di fatto il percorso rieducativo in base all’articolo 27 della Costituzione.

La legge Gozzini rappresentò l’inizio di una storia diversa di costruzione e di speranza, di un modo nuovo di fare il nostro lavoro avendo a disposizione strumenti più idonei per attuare le funzioni costituzionali della pena, per realizzare  percorsi graduali, progressivi, dalla liberazione anticipata semestrale di riconoscimento e di incoraggiamento, ai permessi premio di assaggio, alla semilibertà, insomma di inserimento sociale dei tanti esclusi, percorsi alternativi alla cruda carcerazione, per tentare di innervare le carceri nella società, insomma per costruire il carcere della speranza nella dialettica sociale. Una svolta, e finalmente un senso, rispetto al carcere della violenza, dell’assoluto sopruso, della repressione, dell’omicidio quasi quotidiano. Parlare ancora oggi della legge Gozzini solo come il frutto di una intuizione romantica significa non coglierne la strategia sottostante, di contrasto diversificato della criminalità, tagliando in orizzontale legami delinquenziali non ancora strutturati di detenuti “comuni” e “politici”, utilizzando misure alternative, anche graduali, perfino per reati gravi e giurisdizionalizzando il regime di massima sicurezza già previsto dall’art. 90.

La pacificazione interna ed esterna alle strutture penitenziarie fu anche opera dell’allora Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, Nicolò Amato, che personalmente pose le basi per la costituzione delle Aree Omogenee di ristretti per fatti politici che con la riflessione e col dialogo, talora aspro, con la società portarono a ricucire una delle ferite più vaste e profonde della storia dell’Italia repubblicana con buona pace di chi qualificò quella un’attività trattamentale. 

Tanti ottennero misure alternative e non tradirono la fiducia, pur conservando personalità e dignità. All’efficacia individuale delle misure si univa l’effetto benefico complessivo sulle condizioni detentive e sul sistema penitenziario, in forza della riduzione di circa 5.000 presenze ogni anno, nell’arco di qualche anno, fino alle controriforme del 1990.

La nostra giurisprudenza non fu messa alle corde nell’interpretazione della legge penitenziaria caratterizzata da formule elaborate per la criminalità comune, e nell’applicazione ai casi concreti rappresentativi di criminalità politica. Riuscimmo a declinare secondo la legge penitenziaria i casi di pentitismo, di dissociazione e di abbandono della lotta armata. E quella capacità interpretativa e di discernimento delle formule della legge le dimostrammo anche rispetto ai successivi fenomeni di corruzione pubblica. 

D) Il grande internamento

Nel 1990 allo scoccare dell’ennesima emergenza, si decise che bisognava combattere fermamente la criminalità organizzata, come se questa fosse nata in quei giorni. «E non solo il contenitore penitenziario vede crescere esponenzialmente la sua clientela, ma è il paradigma segregativo in sé che incontra una nuova vitalità, lasciando al alcuni immaginare un possibile parallelismo con le politiche del “grande internamento” sette-ottocentesco…» (Pavarini).

Gozzini disse che il vino nuovo fu versato negli otri vecchi. Quel vino era già fortemente annacquato e che gli otri erano fra l’altro non solo vecchi, ma anche fortemente lesionati dagli anni di sommosse e di confusione.

Non è ironia la mia, non potrei mai farla su un fenomeno così drammatico come è la mafia, ma la constatazione di una legislazione contraddittoria.

L’inadeguatezza della politica criminale si scaricava ancora una volta, cercando il capro espiatorio nel sistema delle misure alternative e dei benefici penitenziari.

Basta l’ordine cronologico di ben 7 provvedimenti, di cui 2 deflattivi e 5 repressivi, adottati dal Governo/Parlamento nel giro di un anno circa:

- 24 ottobre 1989, in vigore del nuovo codice di procedura penale 

- 12 aprile 1990, dpr. n. 75 concessione di amnistia 

- 13 novembre 1990, D.L. n. 324 contenente provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata, tra cui divieto di concessione di misure alternative, del lavoro esterno e dei permessi premio alle persone condannate per reati di criminalità organizzata, terrorismo, traffico di ingente quantitativo di droga. Decreto decaduto per mancata conversione 

- 22 dicembre 1990, dpr. n. 39 concessione di un indulto nella misura non superiore a due anni per le pene detentive 

- 12 gennaio 1991, D.L. n. 5 che introduce l’art. 4 bis nell’ordinamento penitenziario. Decreto decaduto per mancata conversione 

- 13 marzo 1991 D.L. n. 76, sullo stesso tema dei precedenti, ma contenente diverse misure. Decaduto per mancata conversione 

- 13 maggio 1991, D.L. n. 152, quarto, e ultimo, decreto legge, che conferma l’introduzione dell’art. 4 bis, ma sdoppiando in due categorie i reati limitanti l’accesso alle misure alternative; decreto che viene convertito nella legge il 12 luglio 1991, n. 203.

Ricordo il clima di incertezza che coinvolse tutti noi, magistrati, operatori,  detenuti per i continui cambiamenti della normativa, con cadenza bimestrale, con la conseguenza di dovere lavorare adattandosi a disposizioni differenti rispetto a quelle applicate sino al giorno prima, passando da una legge, la Gozzini, che aveva dato la possibilità a tutti i detenuti di essere ammessi alle misure alternative, a un’altra che invece, le negava tout court per talune categorie di reati salvo, poi, dare nuove disposizioni nel successivo provvedimento. Qualche detenuto appena uscito in permesso, temendo il peggio e pensando che, magari, quella potesse essere l’ultima volta, si diede alla latitanza; molti altri iniziarono lo sciopero della fame. Forse la ferita più grave fu inferta alla fiducia che i detenuti avevano riposto in quella legalità che con i reati avevano in passato violata, e che stavano imparando a rispettare. Fu anche una “regressione trattamentale”.

Erano gli anni della Falange armata e dell’omicidio di Umberto Mormile, educatore nel carcere di Opera.

E) Il 23 maggio 1992, la strage di Capaci e, 57 giorni dopo, il 19 luglio 1992 l’attentato di via D’Amelio, a Palermo

Il Paese ammutolì. E le due stragi ebbero ripercussioni anche sul carcere. Già l’8 giugno 1992 col decreto 302, convertito in legge in appena ventiquattro ore, il Parlamento aveva modificato per la quinta volta l’art. 4 bis sancendo, seccamente, che i condannati per mafia, sequestro di persona, traffico ingente di droga potevano essere ammessi alle misure alternative solo se avessero collaborato con la giustizia. Negli anni successivi la Corte Costituzionale dichiarerà incostituzionale buona parte di quei decreti.

Margara rimase a capo del DAP dal settembre del 1997 al 1° aprile del 1999. La sua lettera delle cd. dimissioni indicava sinteticamente il clima politico e la deriva carceraria: «Ma ormai montava il clima della cattiva politica, di quella che vede la deriva dei frammenti spezzati delle idee di solidarietà, di attenzione alle varie aree del disagio sociale riassunte nel carcere, che tutte le raccoglie; della cattiva politica che procede alla rottamazione di quelle idee in cambio di un modello nuovo di zecca di città, senza barboni e con galere fiammanti, piene di delinquenti di tutte le dimensioni (ma, quando in galera sono tanti, non si sbaglia: la pezzatura largamente prevalente è quella piccola). Ricordare o dimenticare New York? Non quella ovviamente di Frank Sinatra, ma quella di Rudolph Giuliani».

In quegli anni emerse un dissenso profondo nel gruppo. Scrisse Margara: «E’ significativo, a mio avviso, che questa funzione abbia unito in passato persone appartenenti a gruppi diversi, ed oggi divida persone anche appartenenti allo stesso gruppo. E’ possibile, per non dire certo, che io non sia in numerosa compagnia, ma devo aggiungere che le linee diverse non sono univoche. Mentre Maccora e Monteleone, nella relazione già citata, tornano al giudice di sorveglianza garante della legalità del carcere (l’illusione della rieducazione dell’uomo è fallita, ma quella della rieducazione del carcere non cessa di risorgere attraverso le maglie sempre più strette dello stesso), Lino Monteverde vuole un giudice terzo, ben fuori dal carcere e dai suoi coinvolgimenti, garante essenzialmente della legalità della esecuzione della pena. Dunque, anche qui disaccordo, disaccordo ad ampio raggio». Come dire che il fondamento e la garanzia della terzietà sia l’estraneità alle vicende carcerarie del detenuto. Insomma: un giudice fuori e sopra, non un giudice dentro e a fianco.    

 

4. Il passato prossimo è noto a più: la tragedia del carcere di S. Maria Capua Vetere, i processi per tortura, la sentenza n. 10 della Corte Costituzionale.

Il presente. Oggi dobbiamo misurare il margine di umanità o disumanità del castigo, per usare la felice espressione più volte utilizzata da Massimo Pavarini.

Basta ricordare le note ricadute del cd. Decreto sicurezza, di questo fenomeno di incontinenza sicuritaria sul sistema carcerario. 

Dal momento in cui si è insediato il governo si conta un aumento di oltre 7000 detenuti.

Focus sulla nuova disciplina in materia di liberazione anticipata (art. 5 dl n.94/2024, conv. in l. n. 112/2024) posta a fondamento delle prime eccezioni di illegittimità costituzionale, sollevate dai magistrati di sorveglianza, dell’art. 69-bis l. n. 354/1975, come modificato dall’art. 5 dl n. 92/2024, convertito in l. n. 112/2024, per la violazione degli artt. 3 e 27 Cost., «nella parte in cui si subordina la richiesta del beneficio della liberazione anticipata alla possibilità di rientrare nei limiti di pena per accedere a misure alternative (90 giorni anteriori) o di ottenere nello stesso termine la scarcerazione.

Un vero e proprio imbuto che impedisce il normale deflusso dal carcere.

La prepotenza istituzionale. La Consulta ha per altro già riconosciuto in passato come il meccanismo del differimento obbligatorio della pena ex art. 146 cod. pen. nei confronti della donna incinta o madre di prole di età inferiore ad un anno abbia un preciso e solido fondamento costituzionale negli art. 27 co. 3, sotto il profilo del senso di umanità, e dell’art. 31 Cost., che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo e che il legislatore sia stato mosso dall’esigenza di evitare che «l’inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare a compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico» (cfr. ord. Corte Cost. 145/2009).

Sull’introduzione dell’art. 415-bis, sull’introduzione del reato autonomo di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, che sanziona con pene molto elevate le condotte di chi vi partecipa. La norma fa riferimento anche a «condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza».

Viviamo una fase storica di «contesto condizionante»; scriveva infatti Igino Cappelli in Gli avanzi della giustizia: «…il carcere poteva (può) cambiare solo nel senso delle linee generali di tendenza prevalenti nella società, e dunque in peggio. Né si poteva pretendere che proprio la galera fosse un’isola di legalità e di decenza, se poi le sue vittime (Angioni, Aletta, Antonia Bernardini) sono troppe volte le vittime della giustizia».

L’applicazione della legge penitenziaria è ancora lontana dai principi enucleati in modo esemplare dalla Sentenza n. 149 del 2018 della Corte Costituzionale: «…l’assunto – sotteso allo stesso art. 27, terzo comma, Cost. – secondo cui la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società».

Ed ancora oggi la Corte Costituzionale con la sentenza n. 139/2025 ribadisce la funzione rieducativa delle pene come «graduale reinserimento nella società…occasioni di ripensamento critico del proprio passato ed eventualmente di riconciliazione con la vittima».

Tanto affinché la memoria non sia l'omaggio che il vizio rende alla virtù, il rito di un giorno di ricordo per vivere smemorati gli altri trecentosessantaquattro. Questa storia continua e ci sarò perché sento il dovere morale di misurare il margine che resta tra umanità e disumanità dei castighi e di contribuire a contrastarla.

[*]

Il testo riprende la relazione svolta al convegno organizzato da CONAMS (Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza) a Firenze il 16 e 17 maggio 2025

10/10/2025
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