1. Premessa
Chiedere o disporre che un essere umano vada in prigione significa incidere sul bene supremo di cui dispone: la libertà. Sono dunque scelte che debbono essere attentamente soppesate e che incidono in profondità sulla coscienza di chi è chiamato a farlo e che tolgono il sonno. L’estrema pericolosità della criminalità autoctona e straniera (soprattutto cinese, albanese, nigeriana) radicata nel nostro Paese impone il ricorso a tale misura, sia pure quale estrema ratio. I nostri padri costituenti hanno fissato un principio di civiltà democratica: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», che costituisce il punto di partenza per avviare percorsi reali di recupero e di accesso ai valori della socialità e della legalità, che richiedono tempo e che devono essere parametrati alla tipologia di detenuto, al grado di pericolosità, alla nazionalità dei ristretti (in larga misura stranieri) e all’essere costoro molto spesso provenienti da fasce di emarginazione della società. L’attuazione concreta si scontra con la realtà della situazione carceraria pervasa da numerose criticità, che rendono la materia estremamente complessa.
2. I problemi concreti da affrontare nel trattamento dei detenuti
Il sovraffollamento, numerosi suicidi, strutture fatiscenti, la carenza degli organici della polizia penitenziaria, l’instabilità delle figure apicali in seno agli istituti penitenziari, procedure di recupero dei detenuti inadeguate, plurime strutture carcerarie si sono trasformate in agenzie del crimine (facendo rivivere, in qualche misura e con le debite differenze, un passato lontano nel quale vari carceri erano diventati una sorta di Grand Hotel, con approvvigionamento di pesce fresco e controllo delle strutture, dai quali venivano ordinati omicidi ed estorsioni, organizzati e gestiti traffici di droga, e persino eseguiti omicidi all’interno di camere di detenzione). Agenzie che gestiscono all’interno e all’esterno attività criminose, anche di tipo organizzato, commissionando omicidi e organizzando traffici di droga e di armi, che riescono a mantenere i rapporti con l’esterno con l’impiego di telefoni cellulari (anche criptati) anche con latitanti. E, ancora, evasioni, gestione della violenza in seno alla struttura carceraria da parte di detenuti nei confronti di altri detenuti, anche permessanti, per ottenere supporto per far entrare lo stupefacente al loro rientro nella struttura, disponibilità di armi da parte di detenuti anche rudimentalmente predisposte per l’esercizio della violenza verso altri detenuti, gravi episodi di violenza sessuale di detenuti nei confronti di altri detenuti per soddisfare pulsioni, rivolte di detenuti, la possibilità dei ristretti di muoversi all’interno del carcere senza controlli soprattutto nei reparti di Media Sicurezza, collusioni e corruzioni del personale della polizia penitenziaria, assenteismo con il ricorso di medici compiacenti.
La fruizione dei permessi avviene senza un controllo effettivo delle condotte tenute dai detenuti e delle loro frequentazioni e tali spazi di libertà divengono occasioni per ritornare a delinquere con rifornimenti di stupefacenti. Al contempo, si traducono sul piano giudiziario in una prova di partecipazione al percorso di risocializzazione non risultando ciò che, invece, fanno i detenuti in libertà.
3. Lo sguardo dal territorio toscano
In Toscana vi sono quindici istituti penitenziari[1] e non vi sono detenuti ristretti sottoposti al regime del 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario. Nelle strutture di Prato, San Gimignano e Livorno vi sono detenuti in regime di Alta Sicurezza. Per quanto ho potuto verificare dall’osservatorio della Procura di Firenze (dal maggio 2022 al 10 luglio 2024 in seno Dda) e della Procura di Prato (dal 10 luglio 2024 a oggi), tali carceri sono i più problematici.
Possiamo prendere in considerazione il caso più complesso del carcere pratese “La Dogaia”, ove vi è la popolazione più numerosa, circa 600 detenuti, inseriti in tre circuiti: Media Sicurezza, Alta Sicurezza e collaboratori di giustizia.
L’avvio di attività investigative, dal luglio 2024 a oggi, ha consentito di far emergere un pervasivo tasso di illegalità, concretizzatosi in plurime e anche ravvicinate condotte criminose in un contesto di mancanza di controlli e di comportamenti collusivi di esponenti della polizia penitenziaria, dalla estrema difficoltà di assicurare la sicurezza passiva dei detenuti e, per altro verso, da un’insufficienza di personale per quanto riguarda il ruolo degli ispettori e dei sovraintendenti (ruoli caratterizzati, rispettivamente, da una carenza di organico del 47% e del 56,52%), dalla estrema difficoltà di avere interlocutori in seno alla struttura stante l’assenza e il continuo ricambio delle figure direttive (sino alla fine di giugno di quest’anno), da molteplici disagi e malattie mentali di vari detenuti, da plurimi suicidi (nel secondo semestre del 2024 se ne sono registrati due) e dalla scarsità delle possibilità di lavoro, dati che inibiscono la funzione di prevenzione speciale, la rieducazione della pena e la dignità stessa dei detenuti. Al contempo, tale situazione ha reso e rende estremamente difficoltoso l’espletamento delle indagini, anche in considerazione dell’assenza di ambienti idonei a effettuare le attività intercettive all’insaputa dei detenuti, che vengono indirizzati in determinati ambienti ogni qualvolta vi sono attività in essere, e della costatata libertà di movimento dei detenuti.
I seguenti dati consentono concretamente di comprendere la situazione:
1) il rinvenimento di 47 telefoni cellulari, ulteriori 17 IMEI risultano tuttora attive corrispondenti ad altrettanti apparecchi (12 IMEI nell’alta Sicurezza e 5 nel Reparto Media Sicurezza), e sono state individuate 21 utenze nella disponibilità di detenuti (diciotto rientranti nel circuito Alta Sicurezza e tre nel reparto media Sicurezza);
2) detenuti sono risultati avere la disponibilità di più routers per collegarsi alla rete internet;
3) più detenuti in Alta Sicurezza continuano a gestire propri profili Tik Tok;
4) sono stati sequestrati, dal luglio 2024, 27 quantitativi di droga (530 gr. di hashish, 23,49 di cocaina, 4,61 di eroina e 0,66 di anfetamine/metanfetamine), occultati in camera di sicurezza, da familiari sulla loro persona, allorché si recano ai colloqui, e all’interno di pacchi spediti;
5) due rivolte in carcere ravvicinate (la prima il 4 giugno 2025 e la seconda sabato 5 luglio 2025, con il proposito durante la stessa di sfondare i cancelli per evadere);
6) cinque evasioni dal 27 novembre 2024 al 1 luglio 2025, nelle forme della fuoriuscita dal carcere e durante la fruizione di permessi premio e di permessi di necessità, fra le quali quella del detenuto Vincenzo De Luca, evaso direttamente dal carcere “La Dogaia”, il 20 dicembre 2024, con il contributo omissivo di due appartenenti alla polizia penitenziaria[2];
7) detenuti risultano soggiornare cumulativamente presso una struttura della Caritas denominata “Casa di accoglienza Jacques Fesch” fuori da controlli, luogo, peraltro, sfruttato per l’occultamento e l’approvvigionamento di stupefacente.
8) due violenze sessuali. La prima posta in essere nel settembre 2023, in più riprese, da un detenuto di nazionalità brasiliana di trentadue anni, consistita nell’aver sodomizzato e indotto a compiere una fellatio in ore - con il ricorso alla grave minaccia di tagliargli la gola con un rasoio e alla violenza fisica, consistita nell’afferrarlo per il collo - il compagno di cella di trentatré anni di nazionalità pachistana[3]. Il secondo episodio consiste nell’aver due detenuti, rispettivamente di trentasei anni e di quarantasette anni, torturato un detenuto omossessuale, tossicodipendente alla prima esperienza carceraria, cagionandogli acute sofferenze fisiche e un trauma psichico, sottoponendolo a violenza sessuale di gruppo e cagionandogli gravi lesioni, nell’arco temporale compreso tra il 12 e il 14 gennaio 2020, all’interno della camera detentiva n. 111 della quinta sezione, ove erano ristretti[4];
9) Vasile Frumuzache - trentaduenne romeno, accusato di due femminicidi (due donne dedite al meretricio, Ana Maria Andrei e Maria Denisa Paun) - è stato aggredito nella mattina di venerdì 6 giugno nel carcere di Prato da parte di un altro detenuto, un soggetto legato alla donna scomparsa e uccisa il 1° agosto 2024, la ventisettenne romena Ana Maria Andrei, delitto confessato giovedì 5 giugno sotto interrogatorio degli inquirenti. E ciò sebbene avessi richiesto un controllo a vista di Frumuzache.
Pur regnando l’omertà all’interno della struttura, in ragione del timore di ritorsioni anche verso i propri familiari, da parte di chi gestisce la violenza in seno alla struttura, si sono registrati casi di confidenze effettuate nei confronti di detenuti verso appartenenti alla polizia penitenziari ritenuti affidabili e alcuni atteggiamenti di coraggiosa collaborazione formale di ristretti innanzi al pubblico ministero, che hanno e stanno contribuendo alle indagini.
Va, peraltro, dato atto che, a seguito di quanto accaduto, si è iniziato faticosamente un percorso di riappropriazione di questa struttura carceraria da parte dello Stato. Dagli inizi di settembre, su specifica sollecitazione rivolta al Dap, sono giunti un direttore e un comandante con la prospettiva di rimanere stabilmente in tale carcere e sono aumentati i controlli in seno alla struttura.
Quanto al carcere di San Gimignano, ubicato in provincia di Siena, sono ristretti al suo interno 314 detenuti inseriti esclusivamente nel circuito Alta Sicurezza. Anche al suo interno sono emerse gravi criticità. È stato caratterizzato da gravissime condotte di violenza istituzionale, che sono iniziate l’11 ottobre 2018, quando un detenuto tunisino veniva brutalmente picchiato da un gruppo di agenti della Polizia Penitenziaria all’interno della casa circondariale. Il pestaggio avveniva durante un trasferimento di cella forzato: il detenuto veniva gettato a terra, colpito con calci e pugni, e lasciato incosciente sul pavimento. Le indagini successive portarono alla luce un quadro inquietante, fatto di violenze sistematiche, minacce e falsi verbali[5]. Più di recente, negli anni 2020 e 2021, sono state registrate condotte minatorie da parte di un commissario capo in servizio presso il carcere di San Gimignano nella veste di comandante della casa circondariale San Gimignano, nei confronti del direttore Giuseppe Renna, reggente della casa circondariale di San Gimignano, e delle funzionarie giuridiche pedagogiche Maria Bevilacqua, Ivana Luisa Bruno (che avevano denunciato le torture avvenute nei confronti di detenuti all’interno del carcere di cui si è detto) e Rita Favente[6]. E, ancora, all’interno della struttura, un vice ispettore in servizio presso il carcere di San Gimignano, fuori dai casi consentiti dalla legge[7], fraudolentemente intercettava plurime comunicazioni e conversazioni telefoniche di detenuti (almeno nove dal 24 dicembre 2020 al 1 gennaio 2021) all’interno della struttura carceraria di San Gimignano, conservando i file audio all’interno dell’hard disk, installato nel pc della sua postazione lavorativa all’interno della struttura carceraria. Ma non solo, intercettava fraudolentemente[8] comunicazioni e conversazioni tra detenuti all’interno delle celle (almeno 156 dal 13 al 16 novembre 2020), con aperta violazione della privacy dei detenuti.
Vi è, poi, all’interno della struttura, una gestione di attività criminose in forma organizzata, con impiego di utenze telefoniche.
4. Individuazione dei rimedi
La realtà criminale che permea i casi delle strutture pratese e di San Gimignano induce a ragionare su quali possano essere i rimedi, che richiedono scelte politiche e strategie giudiziarie appropriate nella prospettiva di poter recuperare il controllo di dette strutture carcerarie toscane e, più in generale, di quelle che si trovano in condizioni similari.
Innanzitutto, vi è un’esigenza di prevedere e attuare in tempi brevi l’incremento degli istituti penitenziari, per consentire luoghi di custodia coerenti con la salvaguardia della dignità dei detenuti, e di procedere all’assunzione di altro personale.
Inoltre, vi è la necessità di stabilizzare le posizioni apicali in seno alle strutture carcerarie. È importante poter contare su un Direttore e un Comandante della struttura presente stabilmente, in modo che possano diventare punto di riferimento per i detenuti e il personale, che deve essere in numero adeguato per assicurare il monitoraggio costante di quanto avviene all’interno delle strutture penitenziarie, ivi compresi i movimenti dei detenuti ammessi alle attività lavorative, e per controllare attentamente i contenuti dei pacchi inviati ai detenuti.
L’assunzione di personale appare urgente e di vitale importanza per integrare le carenze degli organici della polizia penitenziaria per poter svolgere il lavoro in modo più appropriato. E va ricordato anche che si tratta di lavoratori che sono nella più parte dei casi schierati da parte dello Stato. Alcuni appartenenti alla polizia penitenziaria hanno persino pagato con la vita l’adempimento del loro dovere, come è accaduto per il vice brigadiere degli agenti di custodia (oggi polizia penitenziaria) in servizio all’ufficio matricola della casa circondariale dei Cavallacci di Termini Imerese, assassinato il 29 giugno 1982, su mandato di Leoluca Bagarella, e per l’agente scelto in servizio nel carcere dell'Ucciardone di Palermo Giuseppe Montalto, ucciso il 23 dicembre del 1995, in contrada Palma, frazione di Trapani, davanti gli occhi della moglie, ucciso perché aveva sequestrato un bigliettino fatto arrivare in carcere ai boss Mariano Agate, Raffaele Ganci e Giuseppe Graviano[9].
La tutela dei detenuti richiede che le camere di pernottamento non possano rimanere aperte costantemente, senza un controllo costante. Non può essere consentito il movimento indiscriminato dei detenuti all’interno della struttura, ivi compresi coloro che svolgono un’attività lavorativa all’interno dell’istituto (come l’addetto alla spesa, in gergo il “detenuto spesino”), perché favorisce la commissione di delitti, come emerge dall’esperienza investigativa.
Il reinserimento sociale per essere efficace deve necessariamente tradursi in un’opportunità lavorativa, interna ed esterna. I detenuti possono essere impiegati in molteplici attività, come ad esempio si è fatto negli uffici giudiziari di Firenze, ove sono stati coinvolti nell’informatizzazione degli atti relativi ai processi inerenti alle sette stragi del biennio 1993-94. Invero, i ristretti potrebbero essere indirizzati verso numerose attività esterne: il contabile, l’impiegato, l’operaio in cantiere e rientrare in carcere a turno finito.
La visione globale delle condotte che si verificano all’interno delle strutture, sul piano giudiziario, consente di adottare le strategie investigative più appropriate e la pronta disponibilità di adeguata strumentazione tecnica (come l’ IMSI Catcher, il cui impiego consente di individuare IMSI e IMEI dei device riservati in uso ai soggetti mediante l’analisi sul campo di celle CGM, GSM e BTS e, conseguentemente, di risalire ai telefoni impiegati) è idonea a individuare l’impiego di dispositivi di comunicazione e di impedire che i detenuti in regime di Alta Sicurezza e Media Sicurezza continuino a utilizzare in seno alle strutture carcerarie telefoni cellulari e social network. Il ricorso a soluzioni tecniche di schermatura delle strutture carcerarie è sicuramente idoneo a impedire l’impiego di telefoni cellulari criptati e il ricorso a social network.
Alla luce dell’esperienza ormai pluriennale, il delitto di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti, di cui all’art. 391 ter c. p. (punito con una pena da due a cinque anni), non funge da deterrente. Soprattutto i detenuti del circuito Alta Sicurezza patteggiano di buon grado la pena applicata che è di fatto irrisoria e continuano nel loro agire continuando la gestione delle condotte delittuose. Il legislatore potrebbe valutare l’innalzamento della pena per renderla più proporzionata alla gravità del fatto, aumentando soprattutto il massimo edittale in modo da permettere il ricorso all’intercettazione.
Per i detenuti sottoposti al regime del 41-bis, per i quali non si pone il problema del sovraffollamento, occorre pensare a soluzioni che congelino la possibilità di comunicare con il mondo criminale esterno e, quindi, di continuare a esercitare il proprio potere dal carcere, potenziando i controlli e le attività investigative preventive all’interno degli istituti.
Vi è l’esigenza del monitoraggio investigativo dei soggetti più pericolosi per impedire la ripresa di attività delittuosa e il rischio recidivante, soprattutto sul terreno della criminalità organizzata, una volta scarcerati, durante la fruizione dei permessi e della semilibertà. Vi sono stati casi clamorosi che sono lì a insegnarci quanto concreto sia tale rischio e l’esigenza del monitoraggio. Si pensi al caso di Salvatore Buzzi, condannato nuovamente dopo aver espiato la pena per gravi reati, aver dato prova di potersi reinserire, costituendo, fra l’altro, una cooperativa in carcere, e ottenuto finanche la grazia (applicata alle pene accessorie), come è emerso nel processo noto come “Mondo di Mezzo”, ovvero a quello di Antonio Gallea, condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio di Rosario Livatino, ammesso al regime di semilibertà, rientrato in posizione di comando nella sua organizzazione, la stidda.
5. Interventi sull’impianto normativo dell’Ordinamento Penitenziario
Cinquant’anni fa è stato introdotto l’ordinamento penitenziario, con la legge n. 345/75, con lo scopo principale di garantire il rispetto della dignità umana dei detenuti, il trattamento rieducativo e il loro reinserimento sociale. Pur avendo contribuito a migliorare la situazione carceraria nel cinquantennio di applicazione, credo sia giunto il momento di rivedere quell’impianto nelle fondamenta, armonizzandolo con il mutamento della realtà carceraria del Paese, il rispetto autentico della dignità del detenuto e la tutela delle garanzie collettive dei cittadini.
E così si potrebbe iniziare a ragionare sulla previsione di istituti da applicare dopo l’espiazione della pena per dare concretezza alla funzione di rieducazione della pena, che per essere effettivamente tale deve conservare una valenza punitiva e retributiva, sempre con riferimento ai comportamenti delittuosi più gravi, e sull’applicazione delle misure premiali in un momento più avanzato del percorso di espiazione della pena, nel quadro di una selezione più attenta dei delitti ai quali applicare il carcere.
La previsione per i condannati di piani di lavoro personalizzati, secondo le attitudini individuali, di programmi di lavoro, con previsione di posti riservati all’interno di pubbliche amministrazioni, sgravi tributari consistenti per le imprese che assumono lavoratori, che hanno espiato la pena e ritornati in libertà, e l’eliminazione di istituti come la liberazione anticipata, che costituisce un bonus di riduzione della pena durante l’espiazione, sostanzialmente disancorata dalla effettiva rieducazione, che viene concessa con criteri automatici.
Più in generale, il percorso di rieducazione, che non può tradursi in mere interlocuzioni con personale specializzato, non può essere ricondotto e valutato esclusivamente alla stregua del principio di rieducazione della pena, perché le condotte criminose incidono e potrebbero continuare a incidere direttamente o indirettamente su di una amplissima gamma di principi e diritti di rango costituzionale: i diritti inviolabili di tutti i cittadini[10], quali la libertà personale[11], l'uguaglianza[12], il diritto alla vita e alla sicurezza[13]; il principio per cui le prestazioni personali e patrimoniali possono essere imposte solo sulla base della legge[14] (si pensi alla imposizione del pagamento di tributi paralleli rispetto a quelli previsti dallo Stato, come il sistematico pizzo agli operatori economici); la libertà di iniziativa economica privata[15]; il diritto di proprietà nella sua funzione sociale[16], il diritto al lavoro retribuito[17].
[1] Arezzo, Mario Gozzini (Firenze), Sollicciano (Firenze), Grosseto, Livorno al quale è accorpato Gorgona (Livorno), Lucca, Massa, Massa Marittima, Pisa, Pistoia, P. De Santis (Porto Azzurro), Prato, San Gimignano (Siena), Siena e Volterra.
[2] Le risultanze investigative, sul punto, hanno indotto a contestare: al detenuto De Luca il delitto di evasione e di resistenza a pubblico ufficiale all’atto della sua successiva cattura; al comandante di reparto pro tempore in missione e dirigente di polizia penitenziario e a un assistente capo della polizia penitenziaria una condotta colposa agevolativa dell’evasione, consistente, rispettivamente, nell’aver fatto notificare al detenuto con ritardo il provvedimento di sospensione del regime di semilibertà al quale era sottoposto e nel non aver provveduto alla sua associazione alla sezione ordinaria, in violazione delle disposizioni impartite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), con nota del 2 ottobre 1998, nonché nell’aver consentito l’allontanamento del detenuto per distrazione e nell’aver lasciato aperta la porta esterna della sezione semilibertà. Tale detenuto è evaso il mattino del 20 dicembre decorso e le investigazioni intercettive immediatamente avviate, con l’ausilio del Nucleo Investigativo della Polizia Penitenziaria, hanno consentito di individuarlo e di catturarlo la sera stessa in Firenze. Dal 20 gennaio 2025, è in regime di affidamento in prova in una struttura ubicata in Vicchio in provincia di Firenze).
[3] È stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
[4] Sono risultati, infatti - alla stregua delle risultanze investigative, dopo alcuni giorni di percosse (schiaffi, pugni su braccia e spalle e ginocchiate all’addome e alla schiena) e offese verbali – comportamenti degli imputati tesi a costringerlo a praticare loro un rapporto orale, colpendolo due volte con una mensola di legno alla testa, con pugni e ginocchiate alle costole, minacciandolo di morte. Successivamente, sincerandosi che gli appartenenti alla polizia penitenziaria non si avvicinassero, in orario pomeridiano, lo costringevano ad abbassarsi i pantaloni e a subire penetrazioni anali reiterate a turno. E nei giorni seguenti continuavano ad offenderlo, colpendolo con alcune mazze di legno sulle braccia e sulle gambe e attingendolo più volte sulla testa con una pentola rovente. Indi, lo costringevano, ancora una volta, a subire rapporti sessuali (sodomizzazione) e a praticare fellatio in ore. Le condotte violente provocavano gravi lesioni alla vittima, fra le quali, la frattura composta della sesta costola destra, lividi ed ematomi su più parti del corpo, lacerazione del canale anale e seri problemi psicologici con sintomatologia perdurata per quattro mesi dai fatti. Nei confronti degli indagati è stato disposto il rinvio a giudizio, dopo l’effettuazione di incidente probatorio, ed è in fase di celebrazione avanzata il dibattimento.
[5] Nel 2021 arriva una prima svolta giudiziaria: dieci agenti vengono condannati per tortura e lesioni aggravate dopo aver scelto il rito abbreviato. Le pene vanno dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi. Nel 2023, altri cinque agenti affrontano il rito ordinario. La Corte li condanna a pene più elevate – fino a 6 anni e 6 mesi – per tortura, falso e minaccia aggravata. Un processo che fa storia: per la seconda volta in Italia, dopo il caso di Ferrara, viene riconosciuto il reato di tortura in ambito carcerario. Il 3 aprile 2025, la Corte di Appello di Firenze conferma le condanne agli agenti che avevano scelto il rito abbreviato e riduce le pene per quelli giudicati con il rito ordinario.
[6] Con la prospettazione verbale che ci sarebbero state denunce per tutti, in quanto tutti i colloqui che il direttore aveva fatto erano stati intercettati e ascoltati da tutti gli ispettori, i quali erano sul piede di guerra, anche ventilando la concreta possibilità che venisse reso pubblico il contenuto di detti dialoghi così da mettere il direttore in grave difficoltà, mediante il ricorso alla trasmissione televisiva “La Sette”, al fine di spaventare le educatrici e il Direttore, facendo sapere loro che erano “controllati” e che tutti gli ispettori sapevano chi erano i detenuti, asseriti confidenti ostili agli ispettori, con cui il Direttore aveva parlato riservatamente e, soprattutto, che cosa i detenuti avevano detto al Direttore e il Direttore a loro, in tal modo ponendo in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere il Direttore a omettere di effettuare colloqui con i detenuti con tali modalità riservate, in assenza degli ispettori coordinatori, e di creare al Direttore e alle funzionarie giuridiche pedagogiche una pressione psicologica onde condizionare il loro operato, evento che non si verificava per la ferma opposizione di Renna, il quale sporgeva denuncia il 23 marzo 2021.
[7] E, in particolare, delle disposizioni di cui agli artt. 266 e ss. c. p. p. e dell’art. 39 c. 7 u. parte del regolamento penitenziario (D.P.R. del 30 giugno 2002, n. 230) che prevede la registrazione delle conversazioni telefoniche per i detenuti ristretti per i reati indicati nell’art. 4 bis della l. 26 luglio 1975, n. 354, ma non l’ascolto degli stessi.
[8] In violazione delle disposizioni previste dagli art. 266 e ss. c.p.p. (e in particolare senza la prescritta autorizzazione dell’autorità giudiziaria e della regolamentazione concernente la conservazione dei supporti audio contenenti le registrazioni e la loro utilizzazione) dalle quali non residuano margini di discrezionalità.
[9] Similmente, l’educatore carcerario Umberto Mormile, dapprima in servizio a Parma e poi nel carcere di Opera, venne assassinato in un agguato della 'ndrangheta l’11 aprile 1990, sulla provinciale Binasco-Melegnano nei pressi di Carpiano, mentre si recava al lavoro. Da una moto Honda 600, che affiancò la sua automobile Alfa Romeo 33, venivano esplosi sei colpi di 38 special. L’omicidio venne rivendicato all'ANSA di Bologna dall'organizzazione terroristica Falange Armata Carceraria, che esordì precisamente con questo assassinio. Per questo delitto, vennero condannati in via definitiva Domenico e Antonio Papalia come mandanti e Antonio Schettini e Nino Cuzzola come esecutori materiali, entrambi rei confessi. Come movente, fu individuato il desiderio di vendetta per il rifiuto di Mormile di stilare una relazione favorevole a far ottenere un permesso di libera uscita al boss ergastolano Domenico Papalia in cambio di trenta milioni di lire, circostanza smentita in seguito dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vittorio Foschin.
[11] Articolo 13 Costituzione.
[13] Art. 10 Cost. che prevede l'obbligo dell'ordinamento italiano di conformarsi alle norme di diritto internazionale e, dunque, alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo ratificata, che li riconosce espressamente agli artt. 2 e 5, e alla Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione europea, parimenti ratificata, che li riconosce agli artt. 2 e 6.
[14] Articolo 23 Costituzione.
[15] Articolo 41 Costituzione.
Relazione svolta al convegno 50 anni di ordinamento penitenziario: a che punto siamo?, Firenze, Palazzo di Giustizia, 29 settembre 2025