1. Introduzione
Mi sono chiesto da dove iniziare per parlare del cielo di Gaza oggi.
La prima ipotesi è certamente quella di partire dai fatti del 7 ottobre 2023, dagli atti terroristici e inenarrabili commessi da Hamas contro persone inermi, con una violenza ostentata che non ha giustificazione e che intenzionalmente rischiava di scatenare la vendetta nei confronti dell'intero popolo di Gaza. Oppure potremmo partire dalla gestione, se mi si perdona il termine così freddo, degli ostaggi trattenuti nei tunnel e nelle case di Gaza, una gestione cinica, crudele, disumana.
E noi sappiamo che l’attacco alla popolazione di Gaza ha trovato nel 7 ottobre un momento scatenante, ma ha radici ben più profonde e lontane nel tempo (profilo che Julini richiama con chiarezza nella introduzione al volume).
Potremmo, allora, partire dalla estensione continua degli insediamenti in Cisgiordania, quella che il presidente Mattarella ha definito l'erosione dei territori palestinesi, o dalle continue violenze che i coloni commettono contro gli abitanti, le loro case, le infrastrutture e lo stesso territorio Ad esempio dando fuoco ai campi e agli oliveti. Un esempio di politiche strutturali, incoraggiate dal Governo israeliano (che oggi scopre di non poter controllare la violenza dei coloni), che mirano a spezzare il collegamento fra il territorio e il popolo che lo abita, con lo scopo di rendere impossibile la instaurazione di un governo indipendente e di uno stato autonomo.
Oppure potremmo partire dalla deliberazione con cui la Corte internazionale di giustizia nel luglio 2024 ha (inutilmente) ordinato al Governo israeliano di cessare le condotte illegali e criminose nei confronti della popolazione di Gaza, potendosi ipotizzare in termini generali non solo crimini di guerra e crimini contro l'umanità, che sono stati poi riconosciuti nei provvedimenti cautelari della Corte penale internazionale, ma anche condotte di genocidio che sono ancora sotto esame.
Potremmo, ancora, partire dalle numerose e risalenti risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (nel complesso, oltre alla fondamentale risoluzione 181 del 1987, che fissava carattere e confini della presenza degli ebrei nel territorio palestinese, le risoluzioni adottate finora ammontano ad alcune centinaia) e in particolare da quelle che, anch’esse inascoltate, riconoscono l'illegalità dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi con evidenti e molteplici violazioni del diritto internazionale[1].
Forse potremmo partire anche dalla stagione di terrore che negli anni ’90 e all’inizio del nuovo secolo insanguinò Gerusalemme e Israele con attentati dinamitardi che vigliaccamente colpirono i mezzi di trasporto e le zone di riunione delle persone, ingenerando in tutti gli israeliani il timore che loro stessi o i loro cari potessero non fare ritorno a casa dalle occupazioni quotidiane. O, forse, dalla condizione di migliaia di palestinesi in stato di detenzione amministrativa in centri ove le condizioni di custodia sono durissime, senza una vera difesa, senza il diritto a una accusa formale e a un processo, senza un termine di scarcerazione sicuro.
Potremmo, in alternativa, partire dalle parole del professor Sergio della Pergola, secondo cui la reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre rappresenta «una reazione militare più che proporzionale» (intervista a La Stampa del 19 novembre 2024) e «essere antisionisti o anti israeliani significa essere contro lo Stato degli ebrei e quindi di fatto essere antisemiti» (l’Avvenire del 23 maggio scorso),
Oppure dalle parole del giornalista Gideon Levi, collaboratore del quotidiano Haaretz, secondo cui ci sono tre ragioni che consentono a molti israeliani di non vergognarsi di quanto accade a Gaza: la convinzione di essere “il popolo eletto”; il sentirsi, benché nazione occupante, le “vittime” della situazione, anzi l'unica vera vittima; la sistematica de- umanizzazione dei palestinesi, la cui vita non vale niente (credo non possa dimenticarsi che l’allora ministro Yoav Gallant ha parlato il 9/10/23 di «animali umani»).
Un’ultima ipotesi è quella di partire dalla dolorosa bellezza dei versi e delle preghiere del patriarca Michel Sabbah, che accompagnano il racconto di Capovilla e Tusset e aprono squarci di futuro su una terra e una popolazione intrappolate in questo conflitto senza fine e senza umanità.
2. Una breve parentesi
Mi chiedo se posizioni come quelle del Prof. Della Pergola siano consapevoli delle conseguenze che il ragionamento esposto comporta per il popolo di Israele. Se, per dirla con il Pres. Isaac Herzog, tutti i palestinesi sono colpevoli dell’atto terroristico del 7 ottobre («E’ un’intera nazione (Palestinese) a essere responsabile … (i civili) avrebbero potuto insorgere, avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio che ha preso il controllo di Gaza con un colpo di Stato» - 13/10/23); se i bambini di Gaza possono morire a decine di migliaia perché i loro genitori sono colpevoli di complicità indiretta con coloro che hanno preso il potere con un colpo di stato (ipotesi invero assolutamente discutibile, ma non è questo il punto) e controllano la Striscia; se … e si potrebbe continuare, allora siamo probabilmente autorizzati a volgere lo sguardo oltre confine e a chiederci cosa dovranno pensare un giorno di loro stessi i soldati che sparano su civili indifesi in fila per una ciotola di cibo, distruggono, con i caterpillar quando non sono bastate le bombe, le case palestinesi, distruggono le scuole, gli ospedali, ma anche le linee elettriche, le condotte dell’acqua, i giardini pubblici, e cosa dovranno pensare coloro che appoggiano il governo israeliano in quest’interminabile azione di sterminio di una intera popolazione. Sono anch’essi complici al pari delle donne e dei bambini palestinesi? E, nello stesso tempo, credo sia inevitabile chiedersi cosa possono pensare di quei soldati e dell’intera popolazione israeliana coloro che in tutto il mondo assistono all’aggressione prolungata, progressiva e scientifica di un’intera popolazione che si caratterizza solo per essere “altro” da quegli ebrei che affermano di possedere lo Stato d’Israele e di avere pieno diritto alla terra promessa dal loro Dio.
Mi vengono in mente le parole «un giorno tutti diranno di essere stati contro tutto questo» (One Day, Everyone Will Have Always Been Against This) che lo scrittore Omar el Akkad pronunciò già nel 2023 e che ora danno il titolo al libro appena pubblicato che denuncia tutta l’ipocrisia del mondo occidentale, a cui personalmente sommo l’identica ipocrisia di quei Paesi del mondo arabo che alle stereotipate frasi di condanna non hanno fatto e non fanno seguire alcuna azione concreta.
Se chi condanna le azioni di Hamas (e prima ancora i crimini dell’Isil) non può essere per questo tacciato di islamofobia, non vedo perché criticare il governo israeliano per specifici atti e crimini può diventare una critica all’ebraismo in quanto tale; può diventarlo solo per coloro che hanno scelto di identificare l’appartenenza religiosa all’appartenenza statuale: Israele come Stato dei (soli) ebrei. Non è così per me. Il fatto che il fondamentalismo religioso di alcuni leader israeliani sia in grado di condizionare le politiche statali (cosa che avviene peraltro in altre forme di teocrazia, a partire dall’Iran) e che la Costituzione israeliana sia stata modificata per riferirsi al solo ebraismo non soni per me ragioni sufficienti per identificare tutti gli abitanti di Israele (credenti o meno) con gli atti del loro governo, così come non identifico affatto gli iraniani con le azioni del loro governo o tutti i palestinesi con le azioni di Hamas. E certamente non appare possibile qualificare come antisemite le parole piene di dolore di Anna Foa, David Grossman, Noah o Gad Lerner. Ho letto moltissimi capolavori della letteratura israeliana, ammiro la cultura e la sapienza che essi esprimono; ho letto e ascoltato le voci delle persone internate nei campi e visitato Auschwitz; ho visitato Israele e amato Gerusalemme, e non mi sognerei mai di assumere posizioni antisemite. Il problema lo hanno causato e lo causano coloro che sostengono che le critiche allo Stato di Israele sono inevitabilmente antisemite, con una identificazione ideologica tra religione, ebraismo e nazione che rappresenta una forzatura e diventa ricatto e minaccia verso il diritto, che io rivendico, di dire che quello che lo Stato di Israele sta facendo a Gaza è altrettanto criminoso di quello che i terroristi di Hamas hanno fatto il 7 ottobre. E il solo fatto che mi sia sentito in dovere di scrivere queste precisazioni dice molto.
3. Un libro appassionato e doloroso
Qualunque degli approcci sopra descritti al punto 1 noi scegliessimo, ci troveremmo a fare i conti con il libro di don Nandino Capovilla e Betta Tusset, che li ricomprende e affronta in maniera sistematica, insieme precisa e appassionata, fornendo fatti dettagliati e collegandoli fra loro fino a renderli un materiale prezioso anche per i tecnici del diritto (con l’avvertenza che l’analisi contenta nel volume si ferma all’estate 2024 e non ricomprende i fatti successivi, che peraltro ne confermano tutta la validità[2]).
La sistematicità dell’analisi che il libro passo dopo passo conduce è il riflesso della sistematicità che caratterizza il progetto israeliano di occupazione dei territori, fatto di discriminazione della popolazione, di compressione dei diritti individuali e di violazione delle norme di diritto internazionale.
Sappiamo bene che violazioni gravi e strutturali dei diritti fondamentali sono commesse in altri Paesi, dalla Turchia all’Iran alla Cina, per citare solo pochi esempi, ma il quadro che il nostro libro propone mi ha profondamente colpito, anche perché nei miei pensieri alberga in sottofondo la consapevolezza che la fine delle violenze armate a Gaza, quando avverrà, lascerà aperte e irrisolte tutte le ferite che il volume accuratamente illustra.
Sotto il cielo di Gaza ci racconta molto di più della rabbiosa e crudele risposta ai fatti del 7 ottobre e ci parla di politiche sistematiche che da decenni, seguendo l’ordine dei capitoli, tolgono alle persone palestinesi il diritto alla casa, alla terra e al lavoro, alla libertà di spostarsi, al cibo, all’acqua, all’istruzione e alla tutela dei minori, alla salute e alla stessa vita.
E’ un libro appassionato, amaro e doloroso e insieme necessario, che personalmente sono riuscito a leggere a piccoli morsi, tanto è il senso di ingiustizia che ogni pagina trasmette.
Parlo di un senso insopportabile di ingiustizia perché le diverse forme di compressione dei diritti dei palestinesi non sono frutto solo di azioni violente o abusive (per quanto spesso tollerate o addirittura sostenute dalle autorità), ma anche di disposizioni di legge e di precise scelte amministrative, tutte premesse che il libro esamina con puntualità. Come ci ricordano le pagine del volume, ognuna delle politiche messe in campo da Israele a Gaza e nella West Bank viola norme specifiche della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del diritto internazionale.
E’ il caso di segnalare qui un aspetto importante: così come nei confronti del diritto internazionale, anche per il diritto interno sembrano esistere in Israele basi legali e sistemiche differenti: esiste il diritto che si applica agli ebrei (sia esso lo Stato o i suoi cittadini) e un diritto diverso che si applica ai non ebrei, cittadini o meno dello Stato. Sembra, cioè esistere, per lo Stato di Israele e per i suoi cittadini ebrei un diritto di eccezione auto-legittimante, che non deve confrontarsi né con il diritto internazionale né con organismi sovraordinati in quanto organi di garanzia, che non sono riconosciuti legittimi perché ritenuti non imparziali, con il che il discorso viene facilmente liquidato come irrilevante a fronte di “minacce esistenziali” da rimuovere.
4. Quando ti tolgono la casa
Un esempio di tutto questo lo troviamo nel primo capitolo, «Quando ti tolgono la casa». Mentre circa il 90% delle domande di nuova costruzione o di ampliamento presentate da palestinesi sono respinte, il 60-70% delle domande di persone israeliane vengono accolte. A ciò si aggiunga che dopo l’introduzione dell’emendamento n.116 (noto come “kaminitiz”) alla legge urbanistica, i proprietari di case non autorizzate, o semplicemente sopraelevate, sono spinti a demolirle loro stessi, per evitare che alle già pesanti nuove sanzioni si aggiungano costi enormi derivanti dal rimborso delle spese per i mezzi impiegati dalle autorità nella demolizione e per il servizio di sicurezza che accompagna l’operazione. Come se ciò non bastasse, sono stati abbreviati moltissimo i tempi di intervento, ridotti a sole 96 ore (legge militare n. 1797) per ostacolare la possibilità dei proprietari di presentare ricorsi e vanificare quella che viene definita la «intifada legale». Tutto ciò, ovviamente, colpisce essenzialmente le persone palestinesi.
Altrettanta sistematicità può essere riscontrata nelle pratiche che, dopo la oramai nota legalizzazione dell’espropriazione delle proprietà degli “assenti” (cioè dei palestinesi che erano stati espulsi e costretti ad andarsene in precedenti operazioni), hanno come finalità l’espropriazione e la demolizione di proprietà private per asserite esigenze pubbliche. Trasformando in area pubblica quella che era nella legittima proprietà di persone palestinesi, viene resa possibile l’acquisizione e la demolizione di strutture produttive e abitazioni che vi insistono, persino senza prevedere alcun indennizzo.
Il senso di tutto questo, ci dicono gli Autori, lo troviamo nella risposta che il rappresentante dell’autorità militare competente per la gestione civile dei territori occupati, il COGAT, ha dato in Parlamento a chi chiedeva come si intendesse «fermare l’espansione palestinese». La risposta è stata che si sta facendo tutto il possibile per limitarla. In altre parole, il governo è impegnato a contenere l’espansione della presenza dei palestinesi nei “loro” territori ove legittimamente vivono, si tratti di Gaza o della Cisgiordania e a favorire, per contro, gli insediamenti illegali dei cittadini ebraici, in particolare i più oltranzisti. Come, lasciatemi aggiungere, è avvenuto di recente nella località di Khallet al Dabaa, i cui abitanti, secondo notizie di stampa, sono stati costretti a lasciare le case e, allontanati anche i giornalisti, verrà occupata da nuovi coloni.
Qualcosa, forse, sembra muoversi se è vero che a distanza di molti anni dagli esposti presentati dall’associazione Peace Now (che nel 2017 ha pubblicato uno studio sui meccanismi che sostengono la creazione di insediamenti illegali), la Corte Suprema d’Israele nel febbraio 2025 ha ordinato alla polizia di indagare sulle costruzioni e sulle complicità amministrative legate a due insediamenti realizzati a Gerusalemme Est. La storia dirà quale sarà l’esito di queste indagini, ma nel frattempo abbiamo notizia di decisioni della stessa Corte che legittimano l’espropriazione di ulteriori abitazioni palestinesi a Gerusalemme Est.
5. Quando ti tolgono le libertà di andare e di avere un tetto
«Quando ti tolgono la libertà di andare» e «Quando ti tolgono qualsiasi tetto» sono il titolo dei capitoli che esaminano le politiche di segregazione e di frammentazione perseguite scientificamente in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e le politiche di sfollamento forzato e continuo in atto a Gaza.
5.1. La costruzione del lunghissimo muro, che la Corte di Giustizia ha definito un’opera illegale e che, ovviamente, assieme alle circostanti aree di sicurezza insiste solamente sul territorio palestinese, è solo un aspetto dei pesantissimi ostacoli frapposti ai palestinesi per spostarsi sul loro territorio, lavorare i loro campi, raggiungere il posto di lavoro, visitare le famiglie: a pag.43 si elencano i posti di blocco permanenti, quelli volanti, i cancelli stradali, i blocchi sulle strade, i cumuli di terra e le barriere create con i mezzi meccanici e che occludono le strade, le trincee e i fossati invalicabili, le recinzioni che circondano gli insediamenti illegali, la chiusura ai palestinesi di strade che solo i coloni possono utilizzare. I tempi lunghissimi di passaggio ai check point, i sistemi di riconoscimento facciale, i comportamenti dei soldati … tutto è pensato, realizzato e utilizzato per umiliare e ostacolare, senza rispetto neppure per le esigenze sanitarie, talvolta urgenti, dei palestinesi che si debbono spostare.
Un secondo aspetto merita attenzione per la lucidità con cui la politica di segregazione è stata pensata e attuata: i muri, le recinzioni e i divieti privano i palestinesi dell’accesso ai terreni più fertili e alle sorgenti di acqua, risorse che restano acquisite al territorio controllato da Israele (e dai coloni).
5.2. Drammatico è il capitolo che cerca di descrivere i continui sfollamenti da una zona all’altra di Gaza, accompagnati e seguiti dalla distruzione di case, strade, infrastrutture (senza dimenticare che sfollamenti forzati stanno aumento anche in Cisgiordania). Centinaia di migliaia di persone costrette a raccogliere in fretta le poche cose trasportabili e mettersi in marcia a piedi o con mezzi di fortuna per raggiungere aree sempre più inospitali, sovraffollate, senza ripari adeguati e senza servizi. Tutto questo viola non solo l’art.13 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, ma, ci ricordano gli autori, specifiche disposizioni del Diritto umanitario (vedi pag.49 e 50). E tutto questo a me ricorda le “marce della morte” che hanno contrassegnato altre marce forzate, parte integrante di storie di violenza e razzismo, dallo sterminio dei nativi di America a quello degli Armeni, nonché la marcia forzata che, come ci racconta Edith Bruck, i militari tedeschi imposero alle donne internate nei campi che dovevano essere abbandonati per trasferirle verso altri più interni ai territori controllati.
6. Quando ti tolgono il pane e l’acqua
«Quando ti tolgono il pane» e «Quando ti tolgono l’acqua» sono i due documentatissimi capitoli dedicati alla crisi alimentare, divenuta preoccupante già dal 2007 e progressivamente peggiorata, fino a precipitare dopo il pogrom del 7 ottobre. I fatti esaminati si fermano al luglio 2024 e, forse, gli autori non pensavano che la situazione potesse deteriorarsi fino ai livelli disumani cui assistiamo in questi giorni. Resta il fatto, che viene richiamato a pag.73, che nelle contestazioni mosse ai vertici israeliani dalla CPI si indicano la privazione di cibo e acqua come strumento di guerra.
6.1. E’ vero che già il 29 febbraio 2024 ebbe luogo il “massacro della farina” (con 112 morti e 750 feriti per i colpi sparati dall’IdF), ma nel 2025 il lungo blocco totale degli ingressi di aiuto si è parzialmente interrotto soltanto dietro pressioni internazionali (a cui il governo israeliano ha dovuto in parte accondiscendere), ripetendo però gli errori fatti in passato e dando luogo a nuove stragi di persone disperate che accorrono e si accalcano presso i centri di distribuzione, mal gestiti dalla società privata GhF che il governo ha incaricato di distribuire gli aiuti pur di non avvalersi dell’esperienza e della capacità degli organismi internazionali, visti ormai, nel clima di paranoia generale, come compiacenti nei confronti di Hamas. A questo dobbiamo aggiungere la distruzione delle coltivazioni e la causata inservibilità dei terreni agricoli, condotte intenzionali che certamente non possono avere obiettivi militari e che violano l’art.54 del Protocollo 12/8/49 alla Convenzione di Ginevra (si veda, di questa, l’art.55), oltre a porsi contro numerosi strumenti di diritto internazionale, compresa la Dichiarazione di Roma del 1996 e tutte le politiche ONU sulla lotta alla povertà. Le condizioni in cui lavorano UNRWA e OCHA sono descritte con chiarezza alle pagg.64-67 del volume, e a quelle rinvio, ricordando solo che a livello internazionale si parla di situazione di “fame” non quando vi è penuria di cibo ma quando, come nel caso di Gaza, mancano contestualmente acqua, cibo, igiene, sanità, nutrizione (cioè alimenti realmente nutrienti)[3].
6.2. Le pagine dedicate alla crisi idrica (e del sistema fognario) sono altrettanto chiare e dolorose e documentano la sistematica violazione del Protocollo addizionale IV alla Convenzione di Ginevra del 1977 e, più in generale del diritto umanitario consuetudinario in tema di acceso all’acqua potabile[4]. Mi permetto di osservare che il diritto a condizioni di vita igieniche comprende anche il diritto a vivere in un ambiente salubre, e tale non può essere una piccola area territoriale abitata da oltre due milioni di persone, contaminata dalla presenza dei residui di decine di migliaia di ordigni, da un numero certamente altissimo di cadaveri intrappolati sotto gli edifici bombardati, dal fumo dei fuochi accesi per riscaldarsi e cucinare, dagli scarichi e dagli scarti di migliaia di mezzi militari, da liquami non più smaltiti, dal ristagno incontrollato della acque piovane.
7. «Quando non tutelano i tuoi figli» e «Quando ti tolgono l’istruzione».
Sono due capitoli che assumono un grande valore nel contesto del lavoro di Capovilla e Tusset perché guardano al futuro della popolazione di Gaza. E sono anche fra i più difficili da leggere.
Sugli oltre due milioni di abitanti, Gaza aveva oltre 600 mila minori in età scolare. Se consideriamo anche le “guerre” che Gaza ha conosciuto negli anni 2010-2014, tutti loro hanno conosciuto privazioni e violenze inaudite, la perdita di genitori, amici, parenti, insegnanti e vivono, spesso abbandonati, in mezzo a una distruzione senza fine che li segnerà per tutta la vita. Le violazioni dell’art.25 della Dichiarazione universale e dell’intera Convenzione sui diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale il 20 novembre 1989 sono sotto gli occhi di tutti e riguardano i diritti elementari che noi occidentali applichiamo ai “nostri” bambini: divieto di ogni discriminazione, diritto a salute e benessere, sviluppo della persona, diritto all’ascolto. Un’intera generazione segnata da traumi e privata non solo dell’istruzione per lunghissimi periodi, ma dei momenti comunitari che la scuola propone e che sono fondamentali per la crescita personale. Pensiamo ai traumi post-Covid che tanti giovani occidentali manifestano e moltiplichiamoli per mille.
Pag.85 si apre con le parole di Isaia 33 (versetti 7 e 9): «In città le strade sono deserte, nessuno cammina per la via, perché il nemico ha violato tutti gli accordi, non ha più alcun rispetto per le persone», cui segue la preghiera di Michel Sabbah che così chiude «Gaza è in rovina, distrutta nella morte, nelle strade, nelle scuole-rifugio, nelle tende, nella fame e nella sete. Salvala tu dalla furia degli uomini». Come non ricordare le altre parole della Bibbia dopo la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, lo sterminio e la deportazione dei sopravvisti? Come non ricordare le immagini del Ghetto di Varsavia?
8. Non spenderò parole per il capitolo «Quando ti tolgono la salute e la vita»
Quanto accaduto negli ultimi mesi e ancora accade porta alle estreme conseguenze i fatti e le violazioni descritte nelle pagine 97 e seguenti del volume, a conferma che tutti i principi fissati dalle convenzioni di Ginevra sono stati spazzati via, privando gli abitanti non solo delle strutture mediche e ospedaliere e dei medicinali, ma degli stessi operatori sanitari, uccisi in numero imprecisato ma certamente altissimo. Leggere i fatti riportati dal nostro libro mette ordine nella selva di notizie e offre il quadro sistemico delle politiche seguite e delle scelte effettuate dal Governo israeliano e da IdF (pag. 111). E’ di questi giorni, purtroppo, la denuncia che 33 respiratori meccanici indispensabili per la sopravvivenza di bambini prematuri o sofferenti sono bloccati da mesi e non possono entrare in Gaza, con le conseguenze che possiamo tutti immaginare.
9. Un'ultima considerazione
Lasciatemi aggiungere un elemento che può arricchire il senso di quanto detto finora. Le perquisizioni e la chiusura di librerie palestinesi a Gerusalemme, la recentissima chiusura forzate delle scuole per studenti palestinesi sostenute dalle Nazioni Unite a Gerusalemme Est e la distruzione in Gaza della maggioranza dei luoghi storici e religiosi che “appartengono” a una comunità (dal Giornale dell’Arte: 21 mosche, tra cui la preziosa Al-Omari, 26 santuari, chiese e monasteri, mercati, decine di aree archeologiche), tutto questo concorre ad aggredire la cultura e la storia del popolo palestinese con condotte uguali a quelle che Irina Bokova, allora direttrice di UNESCO, riferendosi alle distruzioni e alle aggressioni perpetrate dall’Isis contro le scuole, i siti religiosi e i simboli delle comunità locali, definì “genocidio culturale”. Alcune di quelle condotte sono sanzionate dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza n.2347 del 2017, che intende proteggere il patrimonio culturale contro tutte le condotte di distruzione, di spoliazione e di traffico anche commesse in aree di conflitto, dando concretezza alle previsioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949 e della Convenzione dell’Aja del 1954 e dei suoi protocolli aggiuntivi. In questi due anni un’intera generazione di giovani è stata privata del diritto allo studio e la distruzione di scuole, università e infrastrutture condurrà al medesimo risultato per anni a venire.
E non possiamo ignorare un altro aspetto fondamentale dell’intera vicenda, un aspetto che le recentissime vicende iraniane, con il bombardamento della TV di Stato, stanno riproponendo: l’attacco alla libera informazione. Dalla chiusura dell’intera Gaza alla stampa internazionale all’aggressione alle redazioni di Al-Jazeera, dall’uccisione di ben oltre 200 giornalisti e blogger palestinesi al recentissimo e intenzionale bombardamento di un caffè ove si riunivano intellettuali e giornalisti (che ha fatto oltre 60 morti), per giungere alla diffusione di informazioni ufficiali reticenti o false (come per la ben nota vicenda dell’uccisione di 15 addetti sanitari o le sparatorie sulla folla durante la distribuzione del cibo, vicende in cui solo le riprese con i cellulari hanno costretto l’IdF a parziali e inaccettabili ammissioni). La guerra oltre alla vita cancella la libertà e la verità, in un cortocircuito che avrà conseguenze per decenni a venire. Chi sa se davvero fra qualche tempo molti avranno la spudoratezza di dire che loro “erano contro tutto questo”.
10. Conclusioni
Al di là delle morti, delle ferite, delle amputazioni e dei traumi causati dai bombardamenti, dalle esplosioni e dalle pallottole, al di là della fame e delle malattie intenzionalmente causate e non curate, centinaia di migliaia di bambini, giovani e giovani adulti palestinesi porteranno nel cuore un senso lacerante di ingiustizia e di violenza. Nello stesso tempo, centinaia di migliaia di bambini e giovani israeliani porteranno nel cuore, fomentati da anni dalla propaganda ossessiva dei loro governanti, sentimenti di vittimismo contro il mondo che non capisce, di vendetta verso tutti i palestinesi per i crimini di Hamas, di incompresa predestinazione e superiorità. Molti altri col tempo proveranno un senso di colpa inemendabile per essere stati complici o spettatori di un massacro epocale, e i sensi di colpa provocano spesso nuovi errori. Una miscela terribile, che si è creata anche per l’egoismo e l’insipienza di una comunità internazionale, europei in testa, che adesso piange quell’impotenza del diritto che essa stessa ha causato.
PS: mentre terminavo di riordinare questi appunti, ho terminato di leggere Non dico addio (ed. Adelphi), dove scrittrice sudcoreana Han Kang a pag. 247 scrive, a proposito delle violenze che attraversarono il Paese alla fine degli anni ’40: «…Non è una coincidenza che trentamila persone siano state massacrate a Jeju quell’inverno, e altre duecentomila nel resto del paese l’estate successiva. C’era un ordine ben preciso del governo militare americano: bisognava arrestare l’avanzata del comunismo, anche a costo di uccidere tutti e trecentomila gli abitanti dell’isola. E quell’ordine aveva trovato i suoi volenterosi esecutori nella Gioventù del Nord-Ovest, l’associazione di giovani estremisti di destra formata dai transfughi nordcoreani, mossi da un pesante carico di rancore e di ostilità. Dopo due settimane di addestramento, erano sbarcati qui con indosso un’uniforme dell’esercito o della polizia. Poi era stato bloccato ogni accesso alla costa e messo il bavaglio alla stampa; la follia di puntare un’arma alla testa di un neonato era stata non solo autorizzata ma premiata, tanto che millecinquecento bambini sotto i dieci anni erano stati uccisi in questo modo; e, prima ancora che il sangue seccasse sulle loro nefandezze, era scoppiata la guerra e lo stesso modello applicato sull’sola era stato ripetuto altrove. Duecentomila persone erano state rastrellate in città e villaggi in tutto il paese, caricate sui camion, imprigionate, fucilate e seppellite in fosse comuni, e anche in seguito era stato proibito a chiunque di reclamarne e recuperarne le spoglie. Perché la guerra non era finita, c’era stato solo un armistizio. Perché avevamo ancora un nemico oltre il trentottesimo parallelo. Perché nessuno parlava, né le famiglie delle vittime, già bollate, né gli altri che sarebbero stati etichettati come simpatizzanti del nemico se avessero aperto bocca. Sono dovuti passare decenni per poter riesumare quei piccoli teschi con un foro di proiettile e le montagne di biglie – nelle montagne, nelle miniere, sotto la pista di atterraggio. E ancora oggi ci sono ossa su ossa seppellite, mischiate tra loro.
Quei bambini.
Bambini morti in nome di una volontà di sterminio».
[1] Rilievo fondamentale riveste la risoluzione 3236 del 1974, mentre nel 2024 possiamo richiamare, tra le 15 adottate, le risoluzioni n.91, sull’occupazione dei territori e le demolizioni; n.89 e 229 sulla gestione del territorio e delle risorse naturali; n.232, che richiede alla Corte Internazionale di Giustizia un nuovo parere sul ruolo e la presenza di organizzazioni internazionali nei territori occupati e la risoluzione ES/10-26 adottata nella sessione speciale del 16 dicembre che rinvia alla risoluzione 2375 (2024) del Consiglio di Sicurezza Si tratta dell’unica risoluzione del CdS che non ha subito il veto (ma l’astensione) USA e che viene richiamata nel paragrafo 5 della risoluzione della AG: «…5. Demands that the parties fully, unconditionally and without delay implement all the provisions of Security Council resolution 2735 (2024) of 10 June 2024 regarding an immediate ceasefire, the release of hostages, the exchange of Palestinian prisoners, the return of the remains of hostages who have been killed, the return of Palestinian civilians to their homes and neighbourhoods in all areas of Gaza, including in the north, and the full withdrawal of Israeli forces from Gaza; …».
[2] Ma mai, nell’estate 2024, ci saremmo aspettato che Israele armasse in chiave anti-Hamas una milizia di ex-jihadisti; o che, dopo mesi di blocco totale e sempre per contrastare la presenza di Hamas (il che dimostra che si sa bene che Hamas è tutt’altro che sradicato), adottasse un sistema disumano di distribuzione degli aiuti affidato a contractors privati, mancanti di ogni esperienza e istruiti a ridurre a soli 4 i punti di distribuzione; oppure, che potesse considerarsi accettabile sparare , non si sa bene perché, contro i civili che, circondati da barriere e recinzioni strettissime, si accalcano in fila per raggiungere i luoghi di distribuzione.
[3] Non dobbiamo dimenticare che la drammatica situazione alimentare non deriva solo dalla chiusura del passaggio ai rifornimenti, ma da un insieme di condotte che nei lunghi mesi scorsi hanno lucidamente e in modo programmatico distrutto i depositi ONU, distrutto i mezzi di trasporto, demolito le strade, esploso colpi di artiglieria e di armi da fuoco sui mezzi ancora in movimento, causato il ferimento e la morte di operatori umanitari e sanitari.
[4] Ripetute sono le risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che (a partire dalla risoluzione 64/292 del 2010) chiamano tutti gli Stati ad impegnarsi e cooperare perché ogni persona, «senza discriminazione», abbia accesso all’acqua potabile e a condizioni di vita igieniche.