Hanno diritto su questa terra alla vita:
il dubbio di aprile,
il profumo del pane nell'alba,
le idee di una donna sugli uomini,
le opere di Eschilo,
il dischiudersi dell'amore, un'erba su una pietra,
madri in piedi sul filo del flauto,
la paura di ricordare negli invasori.
Hanno diritto su questa terra alla vita:
la fine di settembre,
una signora quasi quarantenne
in tutto il suo fulgore,
l'ora di sole in prigione,
nuvole che imitano uno stormo di creature,
le acclamazioni di un popolo
a coloro che sorridono alla morte,
la paura dei canti negli oppressori.
Su questa terra ha diritto alla vita,
Su questa terra, Signora alla terra,
La madre dei princìpi madre delle fini.
Si chiamava Palestina
Si chiama Palestina.
Mia signora ho diritto, ché sei mia signora,
ho diritto alla vita.
Mahmoud Darwish, Su questa terra
1. È sempre difficile trovare le parole giuste per raccontare della Palestina, del suo popolo, della sua martoriata terra e, proprio mentre scriviamo queste righe, la situazione è ulteriormente peggiorata nella regione a seguito della violenta aggressione di Israele all’Iran, di fatto avallata dall’Occidente.
Dal 13 ottobre, in occasione dell’attacco all’Iran, l’esercito israeliano ha chiuso tutti i cancelli che collegano i villaggi alle città della Cisgiordania, impedendo ai palestinesi di muoversi per soddisfare le più comuni esigenze di vita (lavoro, studio, cure mediche etc.), mentre a Gaza, ora più lontana dai riflettori dei media, la carneficina continua.
In questo breve articolo si riportano alcune delle voci e delle testimonianze di chi siamo riusciti a incontrare pochi giorni prima dell’inizio della guerra.
2. «La pulizia etnica è qui e ora, in questo momento», ci racconta R.[1], del movimento di solidarietà della Valle del Giordano (Jordan Valley Solidarity) – un’associazione che raggruppa una serie di comunità palestinesi presenti nella omonima Valle – che incontriamo a Gerico, subito dopo aver varcato il confine giordano.
La Valle del Giordano risulta quasi interamente collocata in quella che, secondo la suddivisione decisa negli accordi di Oslo, risulta essere l’area C[2] della Cisgiordania.
«Nel corso degli anni, sono state adottate le più disparate politiche contro di noi, dall’uccisione e dalla confisca del bestiame, alla demolizione delle case e delle infrastrutture idriche, con un chiaro e unico scopo: rendere impossibile ogni forma di vita in quest’area, costringendoci così ad andarcene. Una Nakba continua e silenziosa. Dal 7 ottobre c’è stata un’accelerazione di questo processo che non sappiamo ancora che esito avrà. Se dal 1967 al 2021 Israele ha costruito 29 colonie nelle Valle del Giordano, dal 2021 ad oggi sono sorti ben 20 nuovi avamposti[3]. Molte comunità stanno venendo completamente cancellate. Con l’esercito siamo abituati ad avere a che fare ma ora i coloni regnano impuniti, li troviamo nascosti dietro gli alberi ad aspettarci o di notte a fare razzie nei nostri villaggi. I nuovi avamposti prendono i nomi delle comunità palestinesi, ci stanno occupando la toponomastica, lo spazio, la memoria. Stano maltrattando questa terra, così bella, così unica».
Quello che R. ci racconta si rende evidente attraverso una permanenza nella Valle, dove molti villaggi palestinesi che erano presenti sulle mappe non risultano più esistenti e al loro posto, o nelle immediate vicinanze, sorgono colonie o avamposti con il medesimo nome che aveva il villaggio ma in ebraico, mentre si possono incontrare coloni israeliani, spesso armati, provenienti dagli Stati Uniti o da altri paesi, intenti a svolgere quell’attività agricola o di pastorizia che era prima svolta dai contadini o dai pastori palestinesi.
Il processo visibile nella Valle del Giordano, nota per essere il luogo ove vengono coltivati molti dei famosi prodotti agricoli israeliani che arrivano sui mercati europei (es. pompelmi, datteri, etc.), si manifesta come una appropriazione non solo dei luoghi e delle terre ma anche più propriamente “culturale”, storica, una vera e propria cancellazione delle tracce di esistenza di un altro popolo.
Il mutamento della composizione demografica nella valle del Giordano o, più in generale, nell’area C dell’intera Cisgiordania – ove si è registrato un imponente trasferimento di persone verso le città più grandi a causa delle proibitive condizioni di vita[4] – sembra una immediata e manifesta conferma di quanto ci racconta R.
La resistenza non violenta degli attivisti palestinesi e internazionali nella Valle del Giordano si manifesta attraverso una serie di attività di difesa delle comunità palestinesi come, per esempio, l’accompagnamento dei bambini a scuola o dei pastori nelle terre e nei tratti di strada in cui vi è il rischio di aggressioni da parte dei coloni, l’allaccio clandestino - quasi sempre di notte - alla rete idrica che rifornisce le colonie israeliane al fine di consentire l’accesso all’acqua anche ai villaggi palestinesi che ne sono privi, la ricostruzione di edifici demoliti dall’esercito e in generale tutto quello che serve ad intralciare, in maniera pacifica, i progetti di espulsione delle comunità locali.
Dopo il 7 ottobre sulla strada tra Gerico e Ramallah, così come altrove, ci sono molti più check point che in passato, inoltre alcune strade sono state chiuse e sono stati apposti una serie di “gate” che vengono aperti o chiusi a discrezione dell’esercito israeliano, facendo diventare un percorso di due o tre ore quella che in realtà sarebbe una via percorribile in 20 o 30 minuti.
«Proprio come a Gaza anche nelle carceri israeliane si sta consumando un vero e proprio genocidio. Dal 7 ottobre la ferocia di Israele si è abbattuta anche contro i prigionieri», ci racconta J., dell’organizzazione Ad- dameer, nata nel 1992 per il supporto dei prigionieri e per i diritti umani, che incontriamo a Ramallah in una calda giornata di fine maggio.
«Nell’ultimo anno e mezzo sono state arrestate oltre 17.000 persone, senza considerare tutti quei gazawi portati a forza nelle carceri israeliane di cui non si sa più nulla. Ad oggi ci sono 10.100 prigionieri di cui 4000 in detenzione amministrativa, senza capo d’accusa, tra questi 36 donne e 400 minori. Vengono presi, picchiati, portati in veicoli, attaccati verbalmente e fisicamente, bendati, subiscono abusi fisici e psicologici, lasciati in cella per giorni senza cibo, in stanze sovraffollate. Nessuno escluso, nemmeno i minori, i malati gravi, i feriti. Dal 7 ottobre sono morti oltre 70 palestinesi in carcere, torturati e lasciati morire senza cure mediche. I racconti dalle carceri sono raccapriccianti. Palestinesi costretti a mangiare a quattro zampe, mentre emettono versi animaleschi filmati dai soldati; torture di ogni tipo, violenze sessuali con oggetti contundenti, sangue e rumori di ossa spezzate. Con noi lavorano 6 o 7 avvocati che puntualmente raccolgono testimonianze strazianti».
Negli occhi e nelle parole di J. si scorge la determinazione e il coraggio di una giovane donna che, attraverso il lavoro della sua associazione, cerca di tenere viva l’attenzione su quella che è purtroppo una realtà di violazione dei diritti umani e del diritto internazionale sistematicamente attuata dalle autorità d’occupazione.
In ogni famiglia palestinese, specie quelle che vivono nei campi profughi ma non solo, è infatti presente un componente che ha vissuto l’esperienza della carcerazione da parte di Israele, in alcuni casi anche più volte.
All’interno della sede dell’associazione non si può fare a meno di notare il danneggiamento della porta d’ingresso e le tracce di una pregressa saldatura, «risale a quando l’esercito ha fatto irruzione nella nostra sede - continua J. - noi siamo consapevoli che in qualsiasi momento possono venire a perquisire le nostre sedi e ad arrestarci tutti ma è una lotta per l’esistenza e la sopravvivenza del nostro popolo, quindi deve andare avanti[5]».
Non si può fare a meno di notare come la combinazione di un uso massiccio della carcerazione, un intricato sistema burocratico di permessi per spostarsi e un avanzato sistema di sorveglianza attraverso telecamere e dispositivi satellitari, specie nei pressi dei check point, consenta a Israele di sottoporre i palestinesi a una specie di grande Panopticon, ovvero a un gigantesco e articolato dispositivo di controllo dei corpi e dei movimenti.
La strada da Ramallah a Nablus, dove abbiamo appuntamento con W., costellata dalla presenza di numerose colonie israeliane, risulta apparentemente tranquilla, ciò almeno sino all’arrivo nei pressi del checkpoint di Awarta, posto a presidio di quella che, dopo gli eventi di Gaza, l’esercito ha lasciato come unica strada di entrata e di uscita dalla città[6].
Oggi, questo imponente checkpoint taglia letteralmente in due la Cisgiordania. Per gli studenti e i lavoratori palestinesi, lo stress è enorme perché non sanno mai cosa può succedere ai posti di blocco.
Per cercare di giocare d’anticipo, i palestinesi si organizzano attraverso gruppi di discussione su Telegram per condividere informazioni sulla situazione delle “strade dell’apartheid”, facendo circolare le notizie su quali sono le vie quel giorno percorribili.
Al checkpoint per l’ingresso a Nablus si presenta una lunga fila di macchine e, arrivati nei pressi del gabbiotto ove sono presenti tre soldati e una postazione con un mitra puntato in direzione delle auto, scorgiamo un ragazzo palestinese bendato e legato ad un palo, mentre i soldati continuano a parlare tra loro e a ridere guardando i telefoni cellulari.
Sono scene purtroppo non nuove per chi conosce la realtà dell’occupazione in quelle terre.
Siamo fermi da più di mezz’ora ma abbiamo compreso che non c’è una logica effettiva nel sistema di controllo, la fila di macchine sotto il sole avanza solo quando i soldati decidono di alzare la testa dai loro cellulari o finiscono di parlare tra loro, dando con un cenno della mano l’indicazione di avanzare.
Passato il posto di controllo ci dirigiamo in macchina verso la città vecchia quando, ad un certo punto, veniamo sorpassati da una serie di jeep e veicoli blindati dell’esercito che si dirigono nella medesima direzione, a quel punto, decidiamo di fermarci per capire cosa stesse accadendo.
Il nostro contatto W., chiamato dagli amici palestinesi che viaggiano con noi, ci fa sapere che l’esercito è entrato nella città Vecchia per una operazione e che al momento sono in corso violenti scontri con gli abitanti.
La situazione ci impone pertanto di tornare indietro mentre in lontananza si sentono i rumori di alcuni spari.
Rientrati verso Ramallah ci sintonizziamo sul canale arabo di Al-Jazeera dove riferiscono che l’operazione militare israeliana nel cuore di Nablus, finalizzata – a dire dell’esercito - al contrasto di un ipotetico traffico di denaro da parte di alcuni cambia valute, ha registrato il bilancio di un morto e trentuno feriti tra i palestinesi.
Il nostro incontro con W. è rinviato ad altra data, in questo momento a lui non è consentito spostarsi da Nablus mentre per noi non è sicuro oggi cercare di raggiungerlo, d’altronde viaggiare e muoversi in questi luoghi significa mettere in conto che la situazione può cambiare significativamente da un momento all’altro.
3. Gerusalemme Est, la storia di una libreria.
Non molto lontano dalla Porta di Damasco nel 1984 la famiglia Muna ha aperto l’Educational Bookshop e ha fatto di questa libreria un rifugio di cultura, resistenza e passione politica a Gerusalemme Est.
Lo descrivono così: «In Palestina, poche cose vanno come pianificato. I sogni si infrangono ogni giorno. Ma mentre passano da un’era all’altra su una perpetua giostra politica, i palestinesi portano con sé resilienza, generosità, senso della famiglia, preoccupazione per gli altri e un’infinita riserva di storie che non vengono mai stampate. E questa è la vera storia della Educational Bookshop».
Il loro spazio, lungo la via Salah Ad-din, è diventato un punto di riferimento per chi desidera comprendere le dinamiche della regione e la storia del popolo palestinese. La libreria ha una parte araba e una internazionale, ove si possono trovare libri in diverse lingue, principalmente in inglese ma sono presenti anche dei testi in italiano.
È un luogo dove le persone possono incontrarsi per discutere, scambiare idee e trovare ispirazione.
Il 9 febbraio la polizia israeliana ha fatto irruzione all’interno della libreria, perquisendola, sequestrando circa 300 volumi e arrestando i due gestori M. e A. con l’accusa di «incitamento alla violenza».
E’ proprio M. a raccontarci quello che è accaduto con una breve premessa sulla storia della sua famiglia.
«Mio padre era un professore, insegnava in una scuola del campo profughi di Shuafat[7], per noi l’educazione è sempre stata fondamentale, questa libreria è frutto del loro lavoro».
«Quel maledetto giorno la polizia è entrata mettendo a soqquadro la libreria, erano in tre e cercavano libri ove si parlasse di Hamas o di Resistenza….ad un certo punto uno dei poliziotti si è imbattuto in 1984 di Orwell e guardandolo mi ha detto: “Ah bene, ora vediamo qual è la tua versione dei fatti del ‘48[8]”, gli ho risposto chiedendogli se avesse mai letto quel libro e lui mi ha risposto di no, a quel punto io gli ho detto: “Allora hai sbagliato mestiere”; e lui: “Ti sto trattando bene solo perché c’è tua figlia”».
Dopo una breve pausa M. riprende: «mi hanno portato via con l’accusa di incitamento alla violenza. Sono stato rinchiuso in una cella di una stazione di polizia a Gerusalemme ovest, eravamo in dieci in un ambiente piccolo e con un solo bagno, sette persone provenivano dalla West Bank e altre due erano in detenzione amministrativa. La cella era completamente buia e quindi si perdeva la cognizione del tempo e dello spazio. Circa 5-7 volte al giorno entrava una guardia per contarci e solo allora potevamo vedere se c’era luce del sole o se fosse buio. Non c’era la carta igienica, solo una volta una guardia, che era più buona delle altre, ci ha lasciato dei resti di carta igienica da un altro rotolo che stava finendo. Quando sono entrato nella cella, all’inizio, ho chiesto se qualcuno avesse della carta igienica, nessuno mi ha risposto, solo un’altra persona mi ha fatto cenno di avvicinarmi e in silenzio si è sfilato alcuni fogli di carta igienica dai pantaloni strappandone con cura dei piccoli pezzi contati, come se si trattasse di una cosa preziosissima. Oggi che sono libero, ogni volta che vado in bagno, mi ricordo sempre di questa scena».
Il racconto di M. si fa carico di emozione e suscita indignazione e solidarietà in noi che lo ascoltiamo, dopo poco prosegue.
«Dopo due giorni, mi hanno portato davanti a un giudice, modificando l’accusa da “incitamento alla violenza” a “disturbo dell’ordine pubblico”. La polizia, tramite il loro rappresentante, chiedeva altri otto giorni di custodia per me ma il Giudice ne ha concessi solo due, al termine dei quali mi hanno scarcerato. Una volta scarcerato mi è stato applicato il divieto di recarmi in libreria per un periodo limitato, fortunatamente molti amici e sostenitori si sono offerti per darmi una mano e sostituirmi».
Alla domanda su cosa abbia spinto la polizia israeliana a compiere questa azione M. risponde «credo sia stato un attacco alla libertà di espressione e un tentativo di intimidirci. Siamo sempre stati una voce libera e un punto di riferimento in questa parte araba della città».
L’incursione in questa iconica libreria di Gerusalemme e l’arresto dei suoi gestori ha suscitato vaste reazioni da parte della società civile palestinese e non solo, ricevendo una importante eco anche all’estero.
«Ora più che mai dobbiamo impegnarci per porre fine a quello che sta accadendo – afferma ancora M. – io ho una figlia di quattro anni, un domani, quando mi chiederà, “Papà ma quando c’era il genocidio e tu lo vedevi dal cellulare, cosa hai fatto? Cosa facevi?” vorrei essere in grado di darle una risposta».
4. A Gerusalemme incontriamo anche G., israeliano e attivista per i diritti umani, uno dei coautori del famoso documentario No other land, vincitore dell’Oscar come migliore documentario nel 2024, un’opera che racconta la storia di alcune comunità palestinesi che vivono nella provincia di Masafer Yatta, un’area della Cisgiordania di circa 30 chilometri quadrati a sud della città di Hebron, che da quasi mezzo secolo subiscono violenze sistematiche da parte delle autorità e dei coloni israeliani.
Nei primi anni Ottanta l’esercito israeliano decise che la zona sarebbe dovuta diventare un poligono di tiro per l’esercito (c.d. firing zone), e da allora ha cercato con ogni mezzo di sfrattare i suoi abitanti palestinesi.
G. è persona minuta ma che nelle sue parole mostra grande determinazione. «Sono nato a Gerusalemme, a circa 3/4 km da qui. Mio padre lavorava come costruttore e i suoi lavoratori erano tutti palestinesi. Ho conosciuto palestinesi da quando ero piccolo, a differenza della maggioranza degli israeliani. Mi ricordo che già da piccolo c'era questa narrativa che oggi è ancora più forte in Israele, ovvero il fatto che siamo circondati da arabi, dai palestinesi, che ci vogliono mandare via e noi dobbiamo combattere per la terra, essere forti per bilanciare questo squilibrio di forze».
Le parole di G. si fanno estremamente interessanti perché consentono di avere una fotografia di come si cresce all’interno della società israeliana.
«Il discorso sulla sicurezza e il dovere di essere un buon soldato è molto importante, quello che viene insegnato, sin da bambini, è che la cosa più eroica è essere un grande soldato, si tratta di una narrativa riprodotta nelle scuole, nei mezzi di informazione, negli asili. Tutti gli aspetti della nostra vita ruotano intorno all'esercito. Se vuoi un mutuo, se vuoi andare all' università, la prima domanda che ti fanno è: dove hai servito, qual era il tuo grado, per quanto tempo, sei stato un bravo soldato, se vuoi avere una buona posizione in Israele è necessario avere un buon passato nell' esercito, questo determina spesso la tua posizione futura nella società».
«Questa narrativa ha influenzato anche me – continua G. - da bambino, il mio sogno, come quello di molti altri, era quello di essere un buon soldato. Ricordo che nel 1978, quando avevo sei anni, hanno annunciato gli accordi di pace con l’Egitto, è stato un giorno orribile, piangendo perché pensavo che così non avrei mai potuto essere un soldato. Per fortuna le cose sono cambiate in maniera drastica, ho iniziato a vedere cose intorno a me che mi hanno fatto sentire che qualcosa era sbagliato. Vedevo immagino di palestinesi bendati, arrestati, umiliati, sentivo che li trattavano non come umani. Una parte della famiglia di mio padre erano coloni. Andavamo spesso lì, a Kiryat Arba[9]. Nel 1987, nel corso della prima Intifada, avevo 15 anni, è stato orribile, molto violento, ogni giorno c’erano persone uccise, incursioni in villaggi e città. Sentivo anche in maniera diretta le storie dai palestinesi che conoscevo. Ero molto arrabbiato, volevo capire di più. La mia scuola superiore era vicino all'università, ho cercato libri, informazioni, ho trovato una mappa con la divisione di popolazione a fine Ottocento e ho visto che c’erano 15000 ebrei e 350000 palestinesi. Sono rimasto scioccato. Mi avevano sempre insegnato che tutto apparteneva agli ebrei. Ho visto improvvisamente quanti palestinesi ci fossero! Ho sentito che stavo vivendo dentro una menzogna. Questo è stato un turning point nella mia vita».
G. continua nel racconto della sua vita e dalle sue parole si riescono a scorgere anche i suoi trascorsi di sofferenza e solitudine: «Ero un adolescente di 15 anni, tutto crollava, in quel momento sentivo che nessuno la pensava come me, non conoscevo nessuno, se avessi parlato di queste cose a casa avrei ricevuto un rifiuto soprattutto da mio papà e dalla sua famiglia, che erano estremisti di destra e anche nella scuola. Le uniche persone con cui condividere erano i palestinesi che però non vedevo ogni giorno. Così ho tenuto tutto per me. Ho però capito che non potevo essere parte del sistema, che non potevo servire nell' esercito. In Israele è obbligatorio andare nell' esercito a 18 anni, 3 anni per gli uomini, 2 anni per le donne, sapevo che non ero parte di quello, ho pensato di fare qualsiasi cosa per evitarlo o di andarmene ma non ha funzionato. Volevo continuare al college ma poi mi hanno obbligato alla leva. Per nove mesi non sapevano cosa fare di me, ero a casa o malato, così dopo nove mesi mi hanno mandato a casa. È stato un periodo difficile, per un anno non ho fatto niente».
G. passa poi a raccontarci di come è iniziato il suo percorso da attivista per i diritti umani: «Nel 2010 ho iniziato a essere un’attivista. Ho sentito di Ta'ayush, attivo nelle South Hebron Hills. Ta’ayush, in arabo convivenza, movimento creato nel 2000/2001 durante la seconda intifada, io ho iniziato nel 2010, si tratta dell’unico gruppo attivo a Gerusalemme che svolge attività nelle colline a sud di Hebron. Usiamo il nostro privilegio di cittadini israeliani accompagnando con videocamere palestinesi pastori e contadini nei loro campi per proteggerli da attacchi dei coloni. Lavoriamo con altri gruppi come operazione colomba, medici per i diritti umani, B’Tselem. Dal 7 ottobre la situazione è peggiorata tantissimo. Ormai ci sono migliaia e migliaia di coloni che hanno uniformi, sono vere e proprie milizie, non c'è più differenza tra soldati e coloni. Gli attacchi non sono solo fuori dalle comunità ma anche dentro le case, dentro. Molte comunità sono state mandate via e hanno perso terre e case. Ogni giorno ci sono attacchi. La situazione è oltre ogni parola. Il processo di pulizia etnica non è iniziato dal 7 ottobre, ma è iniziato prima della nascita dello Stato di Israele. L' ultima fase dal 7 ottobre ha accelerato il processo e ha fornito luce verde per e per attuare una pulizia etnica a Gaza e nell’area C dai palestinesi. La grande maggioranza degli israeliani crede nella supremazia ebraica. Siamo le persone elette».
La voce di G. si fa più triste quando aggiunge dei particolari più vicini alla sua storia personale: «Gran parte della mia famiglia è di destra nazionalista, mi sono separato totalmente da loro, soprattutto da parte di mia madre. Parliamo di centinaia di parenti. Purtroppo, a volte capita che incontri miei parenti nelle colline a sud di Hebron, mentre ci attaccavano sono stati violenti nei miei confronti, so che loro avrebbero voluto che rimanessi ucciso. La società israeliana è malata di razzismo e discriminazione e riflette una società razzista anche all' interno di sé stessa. Il razzismo è intrinseco. Per mantenere questa follia che promuove e che si vendica, devi creare inoltre una falsa nozione di unità. Si parla da anni di Iran, dicendo cose del tutto false, perché serve a creare un nemico esterno. Ci sono state molte campagne contro noi attivisti, alcuni hanno pubblicato molte informazioni su di me, indirizzo di casa, targa, dicendo di prendermi di mira. Sono dovuto scappare via per un periodo e in occasione di due aggressioni mi hanno rotto il braccio. Non so come finirà ma sono pessimista per il futuro del mio paese».
5. È una Betlemme insolitamente deserta quella in cui incontriamo M. che lavora per l’Alternative information center, un ONG palestinese di formazione laica e progressista, che si impegna a promuovere l’identità palestinese e la creazione di una società libera e democratica, oltre che a fornire una visione approfondita del conflitto israelo-palestinese.
«Grazie per essere qui – dice M. – è un periodo in cui anche gli internazionali come voi non vengono più per via della guerra, abbiamo bisogno della vostra presenza».
Il confronto con M. ci permette subito di entrare nel cuore della questione politica del conflitto: «Bisogna comprendere bene quale natura ha l’occupazione sionista. È innanzitutto un’occupazione lunghissima, che nel corso dei decenni ha cambiato la natura del popolo occupato. Si tratta dell’attuazione di un progetto coloniale nato in Europa e che ha fatto un uso politico della religione, puntando a creare uno Stato per soli ebrei nella Palestina storica, ove, prima del sionismo, c’erano palestinesi cristiani, musulmani ed ebrei che vivevano sulla medesima terra. Nel 1948 vi è stata l’espulsione di circa il 70% della popolazione autoctona e oggi il popolo palestinese è prevalentemente un popolo di rifugiati».
I fatti storici del 1948 sono sempre vivi e presenti nei racconti e nella memoria dei nostri interlocutori, costituendo – si intuisce – una ferita mai rimarginata.
«Questa occupazione mira a cambiare i nomi dei villaggi, dei luoghi, dell’archeologia, del cibo…stanno eliminando i simboli della Palestina. Stanno andando avanti in un questo processo di appropriazione dei luoghi e della memoria, presentando tutto quello che esiste come qualcosa di “ebraico”.
M. prosegue ancora nel suo discorso: «Un’occupazione così lunga, cambia un popolo occupato. Ad esempio, cambia i concetti di spazio e tempo, che sono completamente diversi. Ora sentiamo discorsi del tipo: “Quando è nato tuo figlio? Due mesi dopo che ci hanno demolito la casa (o un mese prima che uscissi dal carcere)”, o ancora: “Quanto è lontana Ramallah? Sono quattro checkpoint… o se il checkpoint è aperto, un’ora”».
Il discorso cade inevitabilmente sui fatti del 7 ottobre, sui quali M. non si tira indietro: «Cos’è la Resistenza? La propaganda di Israele dice che è solo terrorismo. Questo è storicamente falso e offensivo. Per noi la primissima forma di resistenza è RESTARE nella nostra terra, benché ci abbiano reso la vita impossibile. Non si fa che parlare di Hamas, Hamas, Hamas… ma c’è una storia centenaria della resistenza palestinese che risale al mandato britannico, ovvero agli anni ’30 del secolo scorso, quindi ben prima che Hamas nascesse[10], ed è una storia principalmente di resistenza non violenta. È il popolo sotto occupazione che deve decidere la propria forma di resistenza e la nostra è stata principalmente non violenta. Hamas rappresenta solo una delle forme che storicamente la resistenza palestinese, una resistenza ormai centenaria, ha preso negli anni. Deve essere chiaro che la nostra è una lotta di liberazione e anticoloniale, in questo l’Europa è sempre stata una parte del problema perché negli ultimi 77 anni i vari governi, seppure in misura diversa, hanno sempre appoggiato Israele».
«E’ molto importante – continua M. – che si comprenda la natura politica e non umanitaria della questione palestinese, l’approccio caritatevole di certi occidentali sottende la nostra cancellazione come soggetto politico consapevole, organizzato e che conduce una propria lotta. Noi abbiamo bisogno innanzitutto di un sostegno politico e non umanitario, i buoni sentimenti sono una buona cosa ma spesso servono a poco».
L’incontro con M. si chiude soffermandosi su come sia cambiata negli anni la società palestinese, soprattutto dopo Oslo: «I cosiddetti processi di pace hanno finito per normalizzare l’occupazione, creando inoltre una divisione all’interno del popolo palestinese. In Palestina, specie a Ramallah, si è creata una classe sociale medio alta che ha interessi coincidenti con quelli degli occupanti; si tratta di una minoranza che vive come in una bolla e che è ormai avversa alla lotta di liberazione, ritenendo di aver conquistato qualcosa che potrebbe facilmente perdere. Una delle strategie seguite dall’occupante è stata quella di dividerci».
nella foto, l'Educational Bookshop di Gerusalemme Est
[1] Non indicheremo i nomi delle persone incontrate al fine di tutelarle da eventuali ritorsioni.
[2] Come parte degli Accordi di Oslo del 1993, firmati dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e da Israele, la Cisgiordania occupata è stata divisa in tre aree: A, B e C. L’area A inizialmente comprendeva il 3% della Cisgiordania, nel 1999 era aumentata sino al 18%. In quest’area l’ANP controlla la maggior parte degli affari, l’area comprende sostanzialmente le grandi città della Cisgiordania. L’area B rappresenta circa il 22% della Cisgiordania. In questa area, mentre l’ANP è responsabile dell’istruzione, della sanità e dell’economia, gli israeliani hanno il pieno controllo della sicurezza esterna, il che significa che mantengono il diritto di entrare in qualsiasi momento. L’area C rappresenta il 60% della Cisgiordania. Secondo gli Accordi di Oslo, il controllo di questa area avrebbe dovuto essere consegnato all’ANP. Invece, Israele mantiene il controllo totale su tutte le questioni, tra cui la sicurezza, la pianificazione e le costruzioni. Il trasferimento del controllo all’ANP non è mai avvenuto. La Valle del Giordano, territorio ricco di risorse di varia natura, si trova quasi interamente all’interno di quest’area.
[3] Gli avamposti possono essere fattorie, gruppi di case o persino gruppi di roulotte, spesso non hanno confini definiti e sono illegali non solo secondo la legge internazionale - questo vale anche per le colonie approvate dallo Stato ebraico, il cui aspetto è più urbano e organizzato - ma persino per quella israeliana. I coloni religiosi e più estremisti, appoggiati da settori importanti del governo israeliano, hanno dato un forte impulso alla creazione di questi nuovi insediamenti che vengono poi “legalizzati” con la successiva fornitura di servizio idrico, fognature, trasporti, collegamenti con le strade principali, etc..
[4] In area C ai palestinesi (ma non ai coloni israeliani), non viene fornita acqua corrente, non è possibile costruire, gli spostamenti sono resi estremamente difficili a causa dei checkpoint e delle aggressioni dei coloni, inoltre varie zone sono state dichiarate “aree di interesse militare” e le popolazioni presenti hanno subito espulsioni forzate.
[5] Il 19 ottobre 2021 il ministero della difesa di Israele ha dichiarato l’associazione Ad – dameer ed altre cinque organizzazioni palestinesi per i diritti umani come “organizzazioni terroriste”, mettendo fuori legge le attività di queste associazioni, vietandone il finanziamento o il supporto e autorizzando la chiusura delle loro sedi, il sequestro dei loro beni e l’arresto del loro personale. Amnesty International e Human Rights Watch, che lavorano da anni con queste associazioni, hanno pesantemente criticato il provvedimento governativo.
[6] La regina senza corona, questo l’epiteto lusinghiero e misterioso di Nablus, una città temprata alla resistenza. Snodo strategico sulla via carovaniera e poi sulla ferroviaria tra Damasco, Gerusalemme, Amman e Il Cairo, nel corso della sua storia ha conosciuto molte occupazioni. Oggi la città, che conta oltre 170.000 abitanti, è strettamente sorvegliata da due basi militari israeliane arroccate sui crinali delle montagne che la circondano.
[7] Il campo di Shuafat - noto anche come "campo di Anata" - si trova a nord-est di Gerusalemme, 5 chilometri a est del centro della città. E l’unico campo profughi sito all’interno della municipalità di Gerusalemme. Fu realizzato a partire dalla fine del 1964 ed iniziò a popolarsi a partire dal 1965 e fino al termine della Guerra dei sei giorni, ospita famiglie palestinesi provenienti originariamente da Giaffa, Lydda e Ramle.
[8] Il riferimento è chiaramente ai fatti storici del 1948, ovvero alla creazione dello Stato di Israele e alla Nakba palestinese.
[9] Si tratta di una dei primi insediamenti illegali, costruito da Israele nel 1968 nei pressi di Hebron e popolato in larga misura da coloni religiosi ed estremisti.
[10] La nascita del movimento di resistenza islamico viene fatta risalire al 1987, ovvero in concomitanza con la prima Intifada.