Magistratura democratica
Magistratura e società

In morte di una bambina: La voce di Hind Rajab

di Elisabetta Tarquini
consigliera della Corte d’appello di Firenze

Perdonatemi guerre lontane, se porto fiori a casa…
chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna. 
So che finché vivo niente mi giustifica, 
perché io stessa mi sono d’ostacolo

Wisława Szymborska 

 

Ho visto La voce of Hind Rajab in una bella mattina di settembre alla mostra del cinema, una di quelle mattine in cui Venezia ha la luce dei suoi pittori, che ti fa ringraziare ogni momento di essere viva. Mentre camminavo in quella luce, ho cercato di prepararmi a quello che avrei visto, perché immaginavo sarebbe stata una prova. 

La storia la conoscevo già, come molti altri. Il film racconta infatti le ultime ore di vita, della vita vera, di una bambina di sei anni, Hind, intrappolata in una macchina insieme ai cadaveri di alcuni suoi familiari, uccisi a Gaza dall’esercito israeliano e del tentativo, convulso e infine disperato, di salvarla, da parte degli operatori della Mezzaluna rossa. A chiamarli al telefono, cercando aiuto, è stata un’altra ragazzina, la cugina quindicenne di Hind, prigioniera anche lei in quella macchina e che, ferita, morirà poco dopo. Hind allora resta sola, con quei corpi, mentre scende la sera e i carri armati israeliani si avvicinano. E lì da sola parla al telefono con gli operatori della Mezzaluna rossa, che provano a rassicurarla, si sforzano di allontanare la sua angoscia di bambina, sola al buio in un posto sconosciuto, pieno di rumori terribili, le parlano delle cose della sua vita di prima e intanto cercano di raggiungerla. Ma è difficile, l’auto si trova in una zona controllata dall’esercito occupante; sono già stati uccisi, nel corso di altre operazioni di soccorso, tanti medici e paramedici, l’operatore che deve organizzare il salvataggio non se la sente di rischiare ancora, deve aspettare il via libera dell’esercito israeliano, che non arriva. Tu che guardi senti scorrere quei minuti come se li vivessi insieme a loro, ai soccorritori (per tutto il film lo sguardo dello spettatore è il loro sguardo, la storia si svolge interamente nell’unica stanza del centro di soccorso della Mezzaluna rossa). Pensi di essere lì, in quell’unica stanza e il tempo dell’attesa del permesso, del percorso sicuro ti pare lunghissimo, come non è quello nostro, della vita normale. Capisci quello che loro devono sentire, in una vicinanza che ti scuote: capisci chi vuole che l’ambulanza parta subito, perché non si può aspettare, la bambina non ce la fa più ad aspettare e chi dice che non si può, è troppo pericoloso, vedi appese al muro le foto dei colleghi morti in altre operazioni come quella. Intanto senti la voce di Hind, la vera voce di Hind, che chiede aiuto, che dice che ha paura, che devono andare a prenderla. La regista, l’autrice tunisina Kaouther Ben Hania, inserisce infatti la registrazione della vera voce di Hind nel racconto di finzione, nel recitato degli attori, che interpretano gli operatori della Mezzaluna rossa. 

È una scelta che ha fatto discutere, ma decisiva per il film, che ne fa un dispositivo narrativo molto potente, che non ha nulla di ricattatorio o di patetico, che non è nemmeno commovente, non fa piangere (almeno io, che pure sono di lacrima facilissima, non ho pianto, è stata una prova, ma non quella che mi aspettavo). È invece un film che ti strazia, che provoca un sentimento di rabbia e di impotenza che non si riesce a dire. Ben Hania non sostiene alcuna tesi, racconta una storia, di ingiustizia e di dolore, con una verità che lascia muti. E c’era infatti un grande silenzio mentre uscivamo dalla sala, nella luce di settembre a Venezia, più di mille persone in silenzio, come non era successo mai in quei giorni alla mostra. 

 

Dopo ho ripensato molte volte al film, ho provato, per quanto con gli strumenti rudimentali di semplice appassionata di cinema, a darne un giudizio oltre l’emozione della visione. Ma quell’emozione la sento anche adesso che ne scrivo. E allora forse è questo il giudizio più vero (almeno il mio giudizio più vero) sul film come prodotto artistico: ogni giorno leggiamo dei morti di Gaza, anche dei bambini e delle bambine morte a Gaza, vediamo tante immagini di quelle morti. Sono terribili, ma scorrono insieme alle nostre giornate, giornate normali, con preoccupazioni normali e infine non ci pensi più. La storia di Hind, le sue foto di bambina con il vestitino di una festa, la sua voce, invece, stanno lì, non puoi dimenticarli. Ed è questo che fa, credo, un’opera d’arte: ti consegna, di cose quotidiane o di tragedia epocali, quello che resta. 

04/10/2025
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