1. Delegittimare i giudici
Mai come oggi assistiamo alla delegittimazione del giudiziario da parte dell’amministrazione in carica, in Italia come negli Stati Uniti. I giudici, le cui decisioni limitano le azioni governative- secondo il principio democratico della separazione dei poteri, per cui l’esecutivo è sottoposto al controllo di legalità affidato al giudiziario- sono bollati come partigiani, usurpatori di un ruolo politico che non compete loro, braccio armato contro il governo e il popolo che, sia pur indirettamente come accade in Italia, lo ha votato. “Non ci fate agire secondo il mandato che abbiamo ricevuto dai cittadini” è il grido che si alza da parte dei rappresentanti del governo, tanto in Italia quanto negli Stati Uniti, quando le corti di giustizia interpretano il diritto in modo non conforme alle loro aspettative. Sono così attaccati come rottamatori ideologici dei progetti governativi i giudici italiani che – applicando il diritto europeo e la Costituzione italiana- impongono ai trattenimenti dei migranti regole diverse da quelle volute dal governo (per quanto, poi, approvate – con la fiducia, naturalmente- dal Parlamento). L’attacco frontale a chi osa opporsi ai disegni dell’amministrazione in carica non risparmia neppure la Corte di giustizia dell’Unione Europea. «Sorprende la decisione della Corte di Giustizia UE in merito ai Paesi sicuri di provenienza dei migranti illegali. Ancora una volta la giurisdizione, questa volta europea, rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche. La Corte di Giustizia Ue decide di consegnare a un qualsivoglia giudice nazionale la decisione non sui singoli casi, bensì sulla parte della politica migratoria relativa alla disciplina dei rimpatri e delle espulsioni degli irregolari», si legge nella nota con cui palazzo Chigi commenta la sentenza della Corte di Giustizia UE che ostacola il suo decreto flussi (https://www.governo.it/it/articolo/decisione-della-corte-di-giustizia-ue-merito-ai-paesi-sicuri-la-nota-di-palazzo-chigi/29389). «La magistratura è politicizzata, è sotto gli occhi di tutti. E gran parte dei magistrati che ha fatto carriera in Italia proviene dalle file della sinistra, alcuni erano anche dirigenti delle organizzazioni giovanili. Il magistrato ha il compito di fare il killer, la stampa ha il compito di darne notizia», ha poi di recente affermato il ministro Nello Musumeci, nostro ministro della Protezione civile e del mare.
La gravità delle accuse mosse dal ministro al giudiziario italiano (il magistrato è nelle sue parole addirittura un killer!) richiama alla mente gli insulti che Trump e la sua amministrazione rivolgono senza tregua a tutti i giudici che ne osano bloccare le iniziative. Che le decisioni riguardino – in analogia al caso italiano- le procedure accelerate per il rimpatrio (quando non addirittura la deportazione in paesi terzi in guerra o segnati dalla carestia, che con l’amministrazione Trump hanno fatto all’uopo accordi, come il Sud Sudan o il Rwanda), i dazi imposti al mondo intero, l’interruzione anticipata dei permessi di protezione temporanei accordata da Biden ai venezuelani o l’invio di truppe e la federalizzazione della guardia nazionale a Los Angeles, i giudici che decidono in contrasto con la volontà di potenza dell’amministrazione federale sono subito tacciati di usare il diritto a fini politici.
E se a fronte della sentenza della giudice Jia Cobb, che dichiara illegittime le procedure accelerate di deportazione stabilite da Trump nei confronti di chi si trova a distanza dal confine e non può dimostrare che è nel paese da più di due anni, la segretaria del Dipartimento dell’Homeland Security, Tricia McLaughlin si limita ad affermare «questa decisione è illegittima e non reggerà», assai più pesanti sono state nel tempo e sono tuttora le asserzioni dell’amministrazione di fronte ai casi giudiziari –tutti provenienti dalle corti inferiori- che hanno decretato la sconfitta giudiziale delle politiche trumpiane. Così per esempio, dopo la prima decisione della Corte federale per il commercio internazionale, che chiariva come Trump non avesse il potere di stabilire i dazi come invece aveva fatto, Steven Miller, vice capo della Casa Bianca, aveva bollato la sentenza come un colpo di Stato giudiziario. «Viviamo sotto una tirannia dei giudici», egli aveva infatti affermato. La portavoce di Trump, Karoline Leavitt – che già altre volte, a commento di decisioni in cui l’amministrazione era stata giudizialmente sconfitta, le aveva apostrofate come «ridicole» e «radicali» - aveva d’altronde in quel caso dichiarato che i giudici avevano «usurpato l'autorità del Presidente Trump per impedirgli di portare a termine il mandato che il popolo americano gli ha conferito». Lo stesso Trump, a fronte della recente sentenza di secondo grado che conferma l’illegittimità dei dazi da lui imposti, dopo aver annunciato il ricorso alla Corte Suprema, ha attaccato la US Court of Appeals for the Federal District come «fortemente partigiana» e «radicalmente di sinistra»; senza contare l’affermazione di Peter Navarro, suo consulente per il commercio, secondo il quale si tratterebbe del «la massima espressione di un'ingiustizia partigiana usata come arma». Per non parlare delle esternazioni del presidente relative ai tanti altri casi in cui le corti di primo o secondo grado gli hanno dato torto, con le quali egli ha bollato come «lunatici radicali di sinistra», quando non direttamente «comunisti», i giudici che hanno emesso i corrispondenti provvedimenti; o, come nel caso della corte di Boston -che aveva osato bloccare le deportazioni in Sud Sudan di migranti irregolari, non cittadini di quel paese, ordinate da Trump senza dare loro l’opportunità di sollevare timori di torture o persecuzioni nei paesi di destinazione (deportazioni successivamente sbloccate dalla Corte suprema con un provvedimento emergenziale immotivato)- laddove il commento su Truth Social del presidente era stato: si tratta di «giudici che odiano gli Stati Uniti e sono affetti da un'ideologia malata».
2. Trump va oltre
L’amministrazione Trump non si è però limitata a ingiuriare il giudiziario tutte le volte che emetteva decisioni diverse da quelle che avrebbe voluto emettesse. E’ andata oltre in almeno due casi. Quando a marzo di quest’anno il giudice James Boasberg, del distretto federale di Washington, ha ordinato all’amministrazione federale di non far partire i voli carichi di 200 venezuelani verso il Salvador -dove sarebbero poi stati imprigionati nel famigerato CECOT, noto per le sue torture nei confronti dei detenuti- perché stava applicando una legge (l’Alien Enemies Act) che non avrebbe potuto applicare e comunque stava contravvenendo al principio del giusto processo, non solo quella ne violava apertamente l’ordine -mentendo spudoratamente al giudice sullo stato dei voli, poi giunti a destinazione in contrasto con l’ordine del giudice- ma doveva successivamente anche accanirsi contro di lui. Mentre, infatti, subito dopo gli ordini inevasi, non soltanto il parlamentare federale del Texas Brandon Gill, ma con lui anche Trump, ventilavano l’impeachment di Boasberg, giacché – cercando di impedire all’amministrazione Trump di fare ciò che voleva - avrebbe abusato del suo potere e la solita Karoline Leavitt dichiarava: «Un solo giudice, operante in una singola città, non ha l’autorità per dirigere i movimenti di un velivolo che trasporta terroristi stranieri espulsi dal territorio degli Stati Uniti», a distanza di qualche mese l’Attorney General Pam Bondi si faceva addirittura promotrice di un reclamo per cattiva condotta contro quel giudice, adducendo pretestuosamente alcune legittime affermazioni pronunciate dal medesimo qualche tempo prima. Le possibili conseguenze dell’indagine a suo carico sono pesanti: si va dalla riassegnazione temporanea di alcuni suoi casi, alla pubblica censura nonché, infine, alla seria valutazione di una raccomandazione per un possibile impeachment. Sono queste le sanzioni che James Boasberg rischia oggi per aver osato cercare di impedire a Trump la deportazione di migranti, che perfino secondo la Corte Suprema -in alcune rare sentenze in cui ha in parte dato torto a Trump – avevano il diritto a un’opportunità di contestare la loro espulsione e per questo la deportazione verso l’orrido CECOT di altri venezuelani era stata dalla stessa Corte successivamente temporaneamente bloccata. Oggi sappiamo, poi, che financo la Corte di Appello del quinto circuito, fra le più conservatrici del paese -con l’opinione di maggioranza di una giudice nominata addirittura da Trump - ha dichiarato illegittimo l’uso da parte dell’amministrazione di quell’Alien Enemies Act, pensato per un’invasione in tempi di guerra e invocato invece dall’amministrazione Trump per espellere i migranti venezuelani nel caso di fronte al giudice James Boasberg.
Il secondo caso in cui l’amministrazione Trump non si è limitata ad ingiuriare e delegittimare i giudici che le hanno dato torto, ma è andata decisamente oltre, riguarda un’ordinanza permanente emanata dal distretto federale del Maryland nel maggio scorso. Essa prevedeva che agli immigrati che cercavano di contestare la loro espulsione di fronte ai tribunali federali del Maryland -presentando quella che è conosciuta come una petizione di habeas corpus - venisse automaticamente concesso un rinvio di due giorni prima della loro espulsione. L’obiettivo dell’ordinanza era quello di dare ai giudici il tempo necessario per affrontare le complesse questioni legali sollevate da una raffica di casi presentati in rapida successione in Maryland, volti a contestare le politiche aggressive di deportazione della Casa Bianca. In luogo di agire in appello contro l’ordinanza, in giugno l’amministrazione Trump -come scrive il giudice Thomas Cullen nel suo provvedimento di fine agosto - sceglieva «un percorso conflittuale e aggressivo». Decideva, infatti, «di fare causa e in grande stile» contro tutti i 15 giudici del distretto federale del Maryland: una strada del tutto inusuale, mai sperimentata prima.
L’inedita causa civile viene dunque affidata ad un giudice della Virginia, Thomas Cullen per l’appunto, che - nel rigettare la richiesta dell’amministrazione Trump - mette in chiaro l’invasione di campo e la violazione della separazione dei poteri che con quella azione legale contro il giudiziario l’esecutivo stava realizzando. Nonostante la sua nomina a giudice federale provenisse proprio da Trump, Cullen non si astiene dal criticare aspramente il presidente e alcuni dei suoi principali collaboratori per aver attaccato ripetutamente i tanti giudici che avevano osato pronunciarsi contro la Casa Bianca in una serie di cause volte a contestare vari aspetti della sua agenda politica.
«Negli ultimi mesi, alti funzionari dell’esecutivo (e i loro portavoce) hanno descritto i giudici distrettuali federali di tutto il paese come “di sinistra”, “liberali”, “attivisti”, “radicali”, “politicizzati”, “ribelli”, “squilibrati”, “oltraggiosi, eccessivi, [e] incostituzionali, [c]orrotti”, e anche peggio», scrive, infatti, il giudice Cullen. E ancora: «Purtroppo, questa causa mette effettivamente due poteri dello Stato l’uno contro l’altro. Ma è importante ricordare che, in fondo, tutti i poteri — e i funzionari pubblici che vi operano — condividono lo stesso interesse sovrano fondamentale: sostenere e difendere la Costituzione».
3. Le possibili ragioni dell’inedito attacco al giudiziario
Perché dunque questo attacco così pesante e senza precedenti dell’amministrazione Trump nei confronti del giudiziario? Una prima risposta è che le minacce di rappresaglia ai giudici che si esprimono contro le sue politiche costituiscano un tentativo di dissuadere altri giudici inferiori a fare altrettanto. Una seconda è, però, che si tratti di un avvertimento di scardinamento di ogni principio di legalità rivolto alla Corte Suprema che su quelle politiche ha la parola definitiva.
E’ noto, infatti, come in più occasioni Trump e la sua amministrazione abbiano chiarito che non avranno problemi a non rispettare gli ordini e le decisioni delle corti di giustizia[1] –come peraltro hanno già reso concretamente palese, fra gli altri, con il caso su riportato degli ordini inevasi provenienti dal giudice Boasberg. Addirittura i nuovi giudici nominati da Trump sembrano paradossalmente sostenere che gli ordini delle corti non vanno sempre rispettati. Così per esempio Emile Bove III, già difensore di Trump, poi parte del suo Dipartimento di giustizia e oggi giudice federale d’appello per il terzo circuito (grazie a una risicatissima conferma del Senato 50 a 49) con serie possibilità di essere nominato alla Corte Suprema, è stato accusato da un whistle-blower (per questo successivamente licenziato) di aver istigato l’amministrazione a non rispettare gli ordini dei giudici e a mentire loro pur di portare avanti i propri piani politici.
Quando allora la Corte Suprema dovrà pronunciarsi nel merito – e non solo in via emergenziale come finora avvenuto- sulle tante questioni legali oggi affrontate -spesso in contrasto con le posizioni di Trump- dalle corti inferiori, saprà che le sue decisioni potrebbero anche essere disattese da chi ha fatto sapere fin dall’inizio che «chi salva l’America, non può violare la legge». In un sistema che - come si è altre volte illustrato - in una simile ipotesi non appresta conseguenze per l’amministrazione disobbediente, la delegittimazione della Corte Suprema sarebbe insopportabile ed è per questo che, nei calcoli di Trump, le converrà dargli ragione.
E’ questo il progetto di chi -come il presidente (e la sua amministrazione) - intende piegare il diritto ai suoi voleri, usarlo come arma contro i nemici –attraverso la strumentalizzazione politica del Dipartimento di giustizia- ed evitare la sua applicazione tutte le volte che il suo uso limiterebbe l’azione di governo, dove l’accusa di politicizzazione dei giudici serve a ribaltare il piano della realtà. E’ l’asserzione di un diritto unidirezionale, che nulla ha a che vedere con la rule of law e la separazione dei poteri, ma che mira ad affermare la rule by law, ossia un sistema in cui il diritto è usato a fini politici per smantellare il costituzionalismo liberale e realizzare quello che è stato chiamato “autocratic legalism”, ossia un autoritarismo legalista[2]. Si tratterebbe, insomma, nelle parole di Aziz Huq, professore di diritto presso la Chicago University, di «un ordine costituzionale molto diverso da quello a cui siamo stati abituati per molto tempo […] un ordine che non è più caratterizzato da leggi vincolanti per i funzionari di governo e che possano essere fatte rispettare».
Proprio la difficoltà di ottenere il rispetto delle decisioni giudiziali, che quelle leggi dovessero applicare, sembra dunque essere la chiave di volta della minacciata trasformazione costituzionale negli Stati Uniti. Un sospetto sorge allora spontaneo: che la progettata separazione delle carriere per i magistrati italiani, su cui saremo presto chiamati a votare, nel mettere in prospettiva il pubblico ministero (alla cui dipendenza funzionale si trova la polizia giudiziaria) sotto il controllo dell’esecutivo, serva allo stesso scopo?
[1] Mi permetto di rinviare sul punto al mio, Mai la Rule of law, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/rule-of-law-trump
[2] Cfr. Kim Lane Scheppele, Autocratic Legalism, in The University of Chicago Law Review, vol. 85, p. 545, 2018.