«Questi giudici devono andarsene».
Così l’uomo più ricco del mondo commentava lo scorso novembre, con un tweet sulla sua piattaforma X, la decisione dei giudici di Roma di non convalidare il trattenimento di migranti in base al Protocollo Italia-Albania.
«These judges need to go».
I giudici che oggi «devono andarsene» sono i giudici dei migranti, sono tutti i giudici che applicano le nostre Carte fondamentali, le nostre Convenzioni e Costituzioni, il diritto dell’Unione Europea.
I giudici che oggi «devono andarsene» sono i giudici europei e delle Corti europee.
La Corte di Strasburgo ha elevato gli standard di tutela dei diritti umani, con la giurisprudenza incentrata sulla persona, sul pluralismo, sulla tutela delle minoranze, tutti valori oggi incompatibili con il verbo populista.
E’ a questa Corte che nel maggio scorso nove Stati membri del Consiglio d’Europa hanno inviato una lettera con l’invito a un «nuovo dialogo aperto» sul modo in cui interpreta la Convenzione “a favore” degli immigrati irregolari («wrong people», secondo la definizione della lettera): come ha osservato il Commissario per i diritti umani del Consiglio di Europa, c’è molto da contestare rispetto a questa dichiarazione che è incentrata sull'incidenza della criminalità all'interno delle comunità di migranti, e con un solo riferimento ai rifugiati in fuga dalle persecuzioni; che ignora come gli Stati possano perseguire obiettivi legittimi, come la sicurezza, senza sacrificare il rispetto dei diritti umani, e che propone l'istituzione di una sorta di gerarchia di titolari di diritti, con i cittadini rispettosi della legge in una posizione superiore rispetto ad altri (le «persone sbagliate»).
I giudici che oggi «devono andarsene» sono i giudici che per le loro decisioni sui diritti e le libertà delle persone sono considerati un ostacolo al governo di un paese che – dopo una preoccupante metamorfosi di quelli che erano i tratti della sua democrazia- meglio sta interpretando la visione del nuovo ordine mondiale fondato sulla legge del più forte, e non più su quella del diritto: è il paese che oggi ostenta il volto più feroce delle nuove politiche migratorie con la “caccia” agli immigrati e gli uomini deportati in catene.
I giudici che «devono andarsene» sono i giudici della Corte Penale Internazionale, sanzionati da chi guida oggi quello stesso paese per aver svolto il loro mandato, rispetto alle atrocità delle guerre, ai gravissimi crimini contro la persona, a tutti gli orrori che mai avremmo pensato di rivedere.
Dall’osservatorio di Medel abbiamo in questi anni assistito agli sviluppi del processo di erosione democratica e, in paesi come la Polonia e l’Ungheria, alle riforme attuate per smantellare l’indipendenza dei sistemi giudiziari, insieme alle politiche regressive per i diritti, le donne, le minoranze, la società civile, la libera stampa, il diritto di esprimere il dissenso.
Dall’osservatorio di Medel oggi guardiamo con preoccupazione al nuovo impeto che il processo di erosione democratica sta ricevendo dall’attacco globale allo stato di diritto e dall’ondata, anch’essa globale, di autocratizzazione: per la prima volta in oltre venti anni, dicono gli osservatori, nel mondo si contano meno democrazie che autocrazie, e le democrazie liberali sono diventate il tipo di regime meno diffuso al mondo.
Dall’osservatorio di Medel oggi guardiamo con preoccupazione al percorso imboccato dalla nostra democrazia con politiche di sicurezza e di repressione, e -ormai -la concreta prospettiva di cambiamenti radicali che, in nome della cd. separazione delle carriere, andranno a scardinare l’intero assetto costituzionale posto a presidio di una giurisdizione indipendente.
Dall’osservatorio di Medel oggi assistiamo quasi increduli a un dibattito politico e pubblico che- a fronte di riforme per la prima volta così demolitorie del patto fondativo della nostra democrazia - sorprendentemente procede senza attenzione e volontà di confrontarsi, anche alla luce di quello che oggi alla democrazia accade in Europa e nel mondo, sulle conseguenze che questo radicale cambiamento avrà per la nostra democrazia. Altrove, questa attenzione e volontà hanno suggerito a governi - di diversi orientamenti - di provare a rafforzare i presidi costituzionali. Perché, altrove, si è compreso che la notte per la democrazia sarà lunga.
Di queste esperienze europee, che poco o nulla interessano ai fautori delle riforme di casa nostra, fa parte il “destino” del pubblico ministero: la regressione democratica di questi anni ci ha dimostrato che il suo statuto è un punto di attacco strategico per chi voglia modificare gli equilibri istituzionali a vantaggio del potere esecutivo e per chi voglia assicurarsi una presa salda sulla giurisdizione.
L’unica finestra che nel nostro dibattito sulla riforma si è aperta sull’Europa riguarda il modello portoghese, e non già per analizzarne struttura e funzionamento ma solo per sostenere l’infondatezza degli argomenti portati contro la riforma dalla magistratura associata, prospettando quelli che saranno i suoi successivi sviluppi: un pubblico ministero “separato”, una volta uscito dalla sfera della giurisdizione, e voltato l’angolo della riforma costituzionale, entrerà inevitabilmente nell’area di controllo della politica. Uno scenario che, in realtà, alcuni esponenti politici hanno con franchezza già pubblicamente indicato come necessario e inevitabile.
Pochi hanno interesse a discutere delle specificità del modello portoghese che, strutturato secondo un principio di gerarchia che ha al vertice il Procuratore generale, ha in realtà un momento di raccordo con la sfera politica: il Procuratore generale potrebbe non essere un magistrato; la sua nomina è un atto politico, che spetta al Presidente della Repubblica su proposta del Governo; in assenza di garanzie costituzionali, la possibilità teorica di designazione di un “esterno” è stata controbilanciata dalla solida tradizione democratica di quel Paese, che ha garantito sino ad ora la nomina a questa posizione di un magistrato. Ma le tradizioni e i contesti, si sa, possono cambiare. E le più recenti cronache ci dicono anche in Portogallo l’onda lunga dei “cambiamenti” avanza, e che il tema della nomina di un non magistrato come Procuratore Generale è entrata nell’agenda del dibattito politico e mediatico.
Dall’osservatorio di Medel guardiamo con preoccupazione alla demolizione del nostro sistema di autogoverno che – insieme allo statuto costituzionale del Pubblico Ministero - è sempre apparso alle magistrature europee come un baluardo per l’indipendenza della giurisdizione, e all’accettazione di fatto- anche da parte dell’avvocatura- del “sorteggio”, della prospettiva cioè di avere nel nostro futuro ordinamento costituzionale una istituzione scelta dal “caso”. Da cittadini, prima che da giuristi, dovremmo essere tutti preoccupati per l’inaugurazione di questo “esperimento” su una istituzione della nostra democrazia, e per le scelte che rinnegano il valore della rappresentanza.
E con preoccupazione registriamo il silenzio rispetto all’attacco sferrato all’associazionismo -che è esercizio di un diritto, manifestazione di democrazia e di libertà democratiche- per sostenere la riforma: le associazioni giudiziarie sono la mala pianta che si potrà estirpare con il pallottoliere.
L’avvocatura è, e oggi più che mai rappresenta, il baluardo dei diritti, delle libertà e dello stato di diritto. E oggi più che mai l’avvocatura, per questo, è sotto attacco: insieme ai giudici, nelle democrazie alla deriva, anche gli avvocati «devono andarsene».
Nei mesi che ci separano dal referendum sarà necessario ritrovare attenzione e volontà di confronto, anche con l’avvocatura, su questi temi e sulle tante domande che sollevano: questa riforma costituzionale non sarà neutra rispetto agli equilibri essenziali alla democrazia.
E nel dibattito che ci attende, dobbiamo chiedere che si faccia chiarezza per l’opinione pubblica sulla posta in gioco: dietro l’etichetta “separazione delle carriere”, c’è la sostanza di una radicale disarticolazione e dello svilimento del Consiglio Superiore; l’organo posto a presidio dell’indipendenza della giurisdizione non sarà solo diviso e “rimpicciolito”, ma sarà privato di tutte le potenzialità democratiche legate alla sua attuale collocazione, composizione e rappresentatività.
Dall’osservatorio di Medel guardiamo ancora una volta con sorpresa alla disattenzione del nostro dibattito verso quello che ci dicono la recente esperienza europea e le vicende dei Consigli ungherese e polacco, e verso quello che raccomandano gli standard europei: non solo si richiede la maggioranza dei membri togati, ma che questi siano “eletti” dai loro pari, e che siano così garantite la più ampia rappresentatività e una forte legittimazione, interna ed esterna, dell’organo di autogoverno. Rappresentatività e legittimazione non sono inutili orpelli ma requisiti necessari perché il Consiglio sia messo al riparo da interferenze esterne, e perché possa effettivamente agire da garante dell’indipendenza dei sistemi giudiziari.
Dall’osservatorio di Medel guardiamo con preoccupazione alla nuova stagione di attacchi alla giurisdizione. E’ cambiato radicalmente il linguaggio del nostro dibattito istituzionale, politico e mediatico: oggi questo linguaggio è di non più celata intolleranza verso la magistratura che prende la parola per ricordare la necessità di rispettare il ruolo della giurisdizione e verso l’Associazione Nazionale Magistrati che “pretende” di esprimersi e denunciare i rischi della riforma. Tutto questo mentre la Corte di Strasburgo, nella ricca giurisprudenza di questi anni sui casi polacchi e non solo, come noti documenti europei e internazionali, afferma che esiste non solo il diritto dei magistrati e delle loro associazioni -come diritto garantito dall’art. 10 della Convenzione- ma il “dovere” di prendere la parola quando lo stato di diritto è a rischio, e a fronte di riforme che possono avere un impatto sull’indipendenza dei sistemi giudiziari.
E dall’osservatorio di Medel guardiamo con preoccupazione agli sviluppi che hanno spostato il fronte di attacco sempre più verso la giurisdizione, con l’accusa ai giudici di ostacolare con le loro decisioni le scelte di governo del Paese e nell’interesse del Paese, fatte da chi ha l’unica legittimazione democratica a farsi interprete della volontà che si è espressa nelle urne.
I giudici nemici del popolo.
Dinamiche che certo fanno parte della nostra storia ma che oggi vedono un cambio di paradigma per l’intensità e il livello degli attacchi e per gli effetti di grave delegittimazione della funzione giudiziaria.
L’intolleranza verso il ruolo della giurisdizione si esprime oggi nell’accusa esplicita ai giudici e ai pubblici ministeri, senza più mediazioni di toni e linguaggio, di svolgere un ruolo di opposizione politica. Si vuole colpire al cuore l’imparzialità, quale valore essenziale della giurisdizione: chi entra in un’aula di giustizia non deve aspettarsi che il “suo” giudice cercherà la risposta alla sua domanda di giustizia interpretando le norme e i principi, ma deve “sapere” che ha difronte un giudice che cerca nella decisione la “rivincita” per i suoi pregiudizi ideologici e politici.
È una direzione molto pericolosa quella che si intraprende quando si fa terra bruciata intorno a un’istituzione della democrazia accusandola di agire contro la democrazia, e si arriva a delegittimare la funzione stessa assegnata alla magistratura in ogni Stato di diritto.
E quando si fa terra bruciata intorno ai giudici e alle corti che svolgono questa funzione riaffermando il primato delle fonti sovranazionali, la posta in gioco diventa l’intero sistema di tutela che abbiamo costruito con le nostre Carte e le nostre Corti in reazione ai totalitarismi per mettere i diritti e le libertà al riparo dalle regressioni nei contesti nazionali.
Conquiste che tutti dovremmo difendere perché, in questa Europa di nuovo battuta dai venti distruttivi dei nazionalismi e della guerra, e nel difficile presente in cui l’umanità sembra avere smarrito sé stessa, il rischio che queste conquiste siano spazzate via per sempre non ci è mai apparso così concreto.
Intervento al Congresso Area DG (Genova, 11 ottobre 2025)